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Barack Obama e Papa Francesco come Ronald Reagan e Giovanni Paolo II?

Creato il 26 gennaio 2014 da Pfg1971

Barack Obama e Papa Francesco come Ronald Reagan e Giovanni Paolo II?

Il prossimo 27 marzo, il presidente Barack Obama sarà in Italia per una nuova visita ufficiale, dopo quella a Roma e L’Aquila del 2009, nei giorni successivi al terremoto del 6 aprile.

Questa volta però, l’incontro con il premier Enrico Letta e con il presidente Giorgio Napolitano e, probabilmente con il segretario Pd Matteo Renzi, sarà solo il prologo del reale motivo del nuovo viaggio in Italia: il primo incontro con Papa Francesco.

Dopo anni di contrasti tra l’amministrazione democratica e la Santa Sede su vari aspetti, dai diritti delle coppie omosessuali, alla libertà di scelta delle donne o su alcune prescrizioni normative della legge di riforma sanitaria (Affordable Care Act), sempre legate all’aborto, con il nuovo Papa le cose sembrano aver preso una direzione diversa.

“Il presidente”, secondo il portavoce della Casa Bianca Jay Carney, “desidera discutere con il Pontefice la comune lotta contro la povertà e l’ineguaglianza crescente tra i popoli del mondo”.

Quaranta anni dopo l’avvio della “guerra alla povertà”, la “war on poverty”, voluta da un altro presidente democratico, Lyndon Johnson, sembra che siano proprio i temi sociali della disuguaglianza e delle difficili condizioni di vita di milioni di persone, anche in Occidente, a creare un terreno comune tra i due leader.

Una sintonia inedita, ma così intensa che, secondo quanto rivelato dal Los Angeles Times, il presidente Obama avrebbe chiesto ai suoi speechwriter di inserire nei suoi discorsi intere frasi del nuovo vescovo di Roma in cui si parla di sperequazioni sociali e contrasto alla miseria.

Eletto al soglio pontificio da nemmeno un anno, Papa Francesco ha subito iniziato a lavorare per imprimere alla Chiesa cattolica una direzione ben diversa da quella privilegiata da Benedetto XVI.

Con Jorge Mario Bergoglio, i principi non negoziabili di Joseph Ratzinger, temi come l’aborto, il primato della famiglia naturale rispetto alle coppie di fatto, la contraccezione o l’omosessualità non sono stati abbandonati, ma hanno subito una sorta di downgrading: come ha detto a La Civiltà Cattolica, Francesco preferisce considerare la Chiesa non un gendarme che condanna chiunque contraddica le sue regole, ma una sorta di ospedale da campo, sempre pronta a curare le ferite delle donne e degli uomini impegnati nella battaglia della vita.

Una Chiesa che aiuta e che non giudica gli uomini; emblematica la risposta a quel giornalista che, sull’aereo, al ritorno dalla visita in Brasile, gli chiedeva una presa di posizione sui gay: “chi sono io per giudicare un omosessuale”.

E tra i colpi più gravi inferti alle persone dall’esistenza vi sono di sicuro quelli procurati dalla miseria delle condizioni economiche e dalla disuguaglianza. Francesco ha voluto incentrare il suo pontificato proprio sulla lotta alla povertà e alle sperequazioni tra ricchi e poveri, con un accento critico verso il sistema capitalista simile a quello di Giovanni Paolo II, ma più intenso, deciso e circostanziato.

Nell’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium”, pubblicata a novembre 2013, il Papa ha attaccato direttamente un pilastro essenziale dell’attuale pensiero neoliberista, la c.d. “trickle down economics”, quella dottrina per cui maggiore sarà la ricchezza di chi è già ricco e più elevate saranno le possibilità che qualche goccia, qualche briciola, di quella opulenza possa filtrare a favore dei meno abbienti.

Secondo il Pontefice, un sistema economico che funziona seguendo regole del genere non può essere d’aiuto ai più deboli.

Ancora, qualche pagina più avanti, Francesco si chiede come sia possibile che la morte di un barbone senza casa non faccia alcuna notizia, mentre i giornali sono sempre pronti a riempirsi di titoloni ogni volta che l’indice di borsa cala di due punti?

Prese di posizione forti che, soprattutto negli Stati Uniti, non hanno avuto una accoglienza universalmente positiva.

Ad esempio, Rush Limbaugh, un conduttore radiofonico di stampo conservatore, in grado di far sentire la sua voce su oltre 600 stazioni, e con un pubblico di diversi milioni di persone ha condannato le parole del Papa.

Secondo Limbaugh, molto vicino agli ambienti antistato e antitasse del Tea Party, le espressioni usate dal Pontefice per criticare gli eccessi del capitalismo e le disuguaglianze sociali non possono essere chiamate che con un nome solo: marxismo puro.

Il deputato Paul Ryan, ex candidato alla vicepresidenza per il partito repubblicano con Mitt Romney nel 2012, parlando con un giornale di Milwaukee, ha esposto una sua particolare teoria sull’apparente mancanza di entusiasmo di Francesco per il sistema capitalista.

A suo giudizio, l’uomo ha opinioni simili perché è argentino e in Argentina non hanno mai conosciuto il vero capitalismo.

Una espressione poco rispettosa del personaggio che fa il paio con una presa di posizione ancora più dura contro Francesco e, soprattutto, contro le finanze vaticane, resa nota da Ken Langone, un ricco imprenditore cattolico.

Quest’ultimo avrebbe infatti confessato al cardinale di New York, Timothy Dolan, che un ricco benefattore, ascoltate le posizioni del Papa sui ricchi e sulle disuguaglianze, avrebbe iniziato a riflettere sulla decisione di contribuire con una donazione milionaria al restauro della cattedrale di San Patrick a New York.

Colpito nel vivo, Dolan ha tentato di replicare dicendo che Francesco non intendeva attaccare i ricchi, mentre quest’ultimo non è intervenuto. 

Qualche giorno dopo però il Pontefice ha risposto alle critiche di Limbaugh, con una intervista, a La Stampa, in cui ha negato di essere marxista, senza però squalificare chi lo era, anzi, ha aggiunto che di marxisti, nella sua vita, ne aveva conosciuti molti e spesso si erano rivelate persone degne.

Le sue posizioni critiche verso il sistema capitalista – ha continuato Francesco - erano quelle proprie della dottrina sociale della Chiesa e, riaffermandole non aveva fatto altro che confermarle.

La replica del Papa a Limbaugh deve aver colpito molto Barack Obama.

Non a caso, il conduttore radiofonico, criticando Francesco, aveva aggiunto che il presidente, ascoltate le parole del Papa, non poteva non aver avuto un vero e proprio “orgasmo”.

Il motivo? Perché il successore di Ratzinger trattava temi simili a quelli proposti da Obama sin dalla sua ultima campagna presidenziale.

Per la verità, l’ex senatore dell’Illinois ha iniziato a trattare il tema della lotta alla povertà, delle disuguaglianze crescenti tra ricchi e poveri e del graduale indebolimento delle prospettive economiche della classe media americana ben prima della campagna del 2012 e molto prima dell’elezione di Papa Francesco al soglio pontificio.

Obama ha cominciato a puntare la sua attenzione su queste tematiche almeno dai tempi del discorso ad Osawatomie, in Kansas, il 7 dicembre 2011.

Nello stesso luogo in cui, nel 1910, il suo predecessore Theodore Roosevelt parlò di un “nuovo nazionalismo”, una battaglia per privilegiare il lavoro sul capitale e di una serie di misure per le classi meno abbienti, Obama gettò le basi per una nuova politica a favore dei poveri e contro le crescenti disuguaglianze della società statunitense.

In quella occasione, con uno sguardo anche alle contemporanee proteste di Occupy Wall Street, il presidente sostenne che il progressivo allargamento della forbice tra il reddito dei ricchi e quello dei poveri rischiava di distruggere la classe media e di cancellare l’essenza del sogno americano, la possibilità cioè che tutti, grazie al frutto del proprio lavoro potessero realizzare i loro desideri.

Secondo Obama, se la politica non si fosse mossa per riequilibrare le differenze di reddito, gli Stati Uniti rischiavano di diventare una nazione in cui chi lavora non aveva più la certezza di riuscire a guadagnare a sufficienza per crescere una famiglia, risparmiare qualcosa per i tempi più duri o garantirsi una pensione dignitosa.

Nei due anni successivi Obama ha continuato a battere sugli stessi argomenti, usando toni ed espressioni simili a quelle che poi sarebbero state proprie anche di Papa Francesco.

Una comunanza di idee e di temi che ha contribuito ad avvicinare in maniera determinante il nuovo Papa e Barack Obama.

La settimana scorsa, il segretario di Stato John Kerry si è recato in visita in Vaticano, primo capo cattolico della diplomazia statunitense dai tempi di Edmund Muskie con Jimmy Carter, e, in quella sede ha parlato con il suo omologo vaticano, il neo cardinale Pietro Parolin.

L’incontro è servito a preparare la prossima venuta di Obama a Roma, ma i colloqui non si sono limitati a questo. I due diplomatici hanno infatti discusso di temi più ampi, dai rapporti con l’Iran, alla situazione in Siria (dove, lo scorso autunno, l’intervento di Papa Francesco è stato determinante per evitare l’attacco americano alle forze di Bashar Al Assad).

Forse Obama e il Papa non riusciranno a gettare le basi per una alleanza così strutturata e intensa come quella con cui, negli anni ’80, Giovanni Paolo II e Ronald Reagan collaborarono insieme per indebolire il comunismo, ma le premesse per una nuova sintonia Usa-Vaticano sui temi sociali e non solo, appaiono oggi più reali di quanto non lo fossero con Benedetto XVI.

Barack Obama e Papa Francesco come Ronald Reagan e Giovanni Paolo II?

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