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BARBIE. THE ICON | In mostra a Milano la più celebre fashion doll

Creato il 23 dicembre 2015 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

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In mostra a Milano la più celebre fashion doll

di Massimiliano Sardina

Un’icona, un modello, un archetipo, un feticcio, una caricatura o semplicemente un giocattolo? Barbie, per dirla con l’antropologa Camille Paglia «è sublime espressione della cultura occidentale che oggettifica le persone e personalizza gli oggetti.» Valerie Steele, direttrice del Fashion Institute of Technology, paragona Barbie alla Gioconda, tanto prepotentemente è penetrata nell’immaginario collettivo la sua patinata e platinata icona culturale. E come darle torto? Se nel corso dei decenni questa bamboletta abbia più nociuto o giovato alla causa dell’emancipazione e dell’identità femminile è difficile stabilire, tanto controverso e ambivalente è il modello di donna di volta in volta veicolato (sempre oscillante tra la donnina di casa più o meno in carriera e l’algida diva). Agile, snella, sorridente, Barbie incarna una perfezione irraggiungibile: l’immanenza di bellezza e felicità; nulla turba la sua quieta eterna giovinezza, e a scongiurare lo spettro della noia c’è sempre un nuovo outfit da indossare o un nuovo Ken con cui flirtare. Barbie è la princess che popola i sogni d’ogni bambina (e d’ogni bambino, finiamola con la menzogna dei maschietti che non giocano con le bambole), è la starlette che ancheggia in ogni teenager, la mannequin cui ogni donna vorrebbe assomigliare.

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Barbara Millicent Roberts, meglio conosciuta come Barbie, nasce da un’intuizione di Ruth Handler, moglie di Elliot Handler (fondatore, nel 1945, insieme al socio Harold Matson, della casa produttrice di giocattoli Mattel). «È guardando mia figlia giocare che mi si è accesa la lampadina; ritagliava le attricette dalle riviste e aveva tutta l’aria di divertirsi un mondo.» Nel 1956 Ruth Handler si imbatte casualmente in Lilli, una bambola tedesca disegnata da Max Weissbrodt, vagamente somigliante alla Bardot; guardando Lilli (alta 30 centimetri e realizzata in plastica) la Handler comincia a fantasticare intorno a una nuova bambola dall’immagine adulta, una diva in miniatura forgiata sui canoni di bellezza vigenti in quegli anni. Nel ’57 gli Handler acquistano il brevetto di Lilli e si dedicano a due lunghi anni di sperimentazioni al fianco dell’ingegnere Jack Ryan. La protoBarbie comincia gradualmente a prendere forma, con un’estetica che già in fase progettuale tenta di mediare tra la misterica femme fatale anni ’40 e la lady sensuale anni ’50 (senza perdere di vista l’obiettivo primario: dare corpo a una nuova amica del cuore per le bimbe di tutto il mondo). Corpo in vinile e capelli in filato sintetico, la bambola (per ragioni sia tecniche che economiche) viene realizzata in Giappone e prodotta dalla Pony Ltd.; sono rigorosamente Made in Japan anche i primi outfit, realizzati dalla sartoria Kokusai Boeki Kaisha, su disegni di Charlotte Johnson. Negli anni successivi la produzione si allargherà da Hong Kong alla Corea (e dal ’68 coinvolgerà Filippine, Taiwan e Messico). I primi quattro modelli di Barbie sono prodotti in plastica vinilica piena, ma già dal quinto esemplare si passa a un corpo cavo e leggero. Barbie (il nome è un omaggio alla figlia di Ruth), depositata come brevetto nel ’58, debutta all’American International Toy Fair di New York il 9 marzo 1959, spinta da un enorme battage pubblicitario. Il successo è immediato. Al costo di tre dollari ne vengono venduti in pochi mesi circa 350.000 esemplari. La prima Barbie, denominata “Teen-Age Fashion Model”, indossa un vistoso costume da bagno zebrato, occhiali da sole, orecchini a cerchietto dorati, scarpette col tacco, e la caratteristica acconciatura Ponytail (bionda o castana, una coda di cavallo con frangetta arricciata); è una giovane libera e emancipata, con labbra rosse a cuoricino, sopracciglia disegnate ad arco e sguardo fatuo. Il modello di riferimento non sono le austere dark lady della vecchia Hollywood come Greta Garbo o Marlene Dietrich, ma le nuove star prorompenti fine anni ’50, le pin up alla Marilyn.

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Fin dall’inizio il successo di Barbie è legato alla possibilità di combinare infinite variazioni: svestendola e rivestendola ogni bambina può dar libero sfogo alla sua creatività, improntando dei giochi di ruolo e focalizzando il proprio archetipo di femminilità (con i bambolotti della vecchia generazione le bambine erano indotte a interpretare il trito copione delle piccole mamme). Al debutto americano del ’59 segue quello europeo del ’61 (in Italia Barbie arriverà solo nel ’64). Una prima grande trasformazione nella fisionomia avviene nel ’67: corpo più filiforme e snodabile, ciglia applicate e nuovo make-up (l’ispirazione è Twiggy); un’altra grande rivoluzione somatica si verifica nel ’77, quando la Mattel incarica lo scultore Joyce Clark di aggiornare la fashion doll sul sembiante di Farrah Fawcett. Non solo negli abiti – sempre realizzati in sintonia con quanto i grandi stilisti andavano presentando tra Parigi, Roma, Londra e New York – ma è in primo luogo nella sua stessa corporeità che Barbie ha incarnato di volta in volta l’evoluzione femminile del glamour. Easy lady e material girl, Barbie è l’emblema dell’effimero, la quintessenza della leggerezza e del disimpegno, uno degli scettri più scintillanti del consumismo, ma al tempo stesso può esser letta come un inno scanzonato alla spregiudicatezza e alla libertà di costumi.

Massimiliano Sardina


Cover Amedit n. 25 - Dicembre 2015

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“Célestine” by Iano

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