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Bearzot e un'Italia che non c'è più

Creato il 22 dicembre 2010 da Marcotoresini
Bearzot e un'Italia che non c'è più
Lo confesso: so più di ricamo che di calcio, ma la morte di Enzo Bearzot va oltre "il gesto tecnico" ricorda un'Italia che non c'è più. Ieri, ascoltando per radio il suo biografo, il giornalista Gigi Garanzini, ho assistito alle telefonata di un ascoltatore che diceva più o meno così: "sono nato nel '63 e per noi di quegli anni l'Italia campione del mondo resta quella dell'82". Anch'io sono nato nel '63 e anche per me, agnostico del calcio, l'Italia campione del Mondo resta quella spagnola (conservo ancora la Gazzetta del giorno dopo il trionfo) così come quel 1982 (per me l'anno della Maturità, intesa come esame) resta lo specchio di un'Italia che non c'è più, lo specchio di un mondo che va ad appannarsi.
Forse è anche per questo che oggi leggendo di Enzo Bearzot mi sento di condividere con voi le parole di Marco Imarisio sul Corriere che ha pescato fra i ricordi lasciati dai lettori sul sito del quotidiano  per tracciare il profilo di una nazione che si è persa e sfilacciata. "Enzo Bearzot era il commissario tecnico di un'Italia che non esiste più - scrivono i lettori -. Il simbolo di un senso di appartenenza al Paese che oggi fatichiamo a ritrovare nelle persone che contano. Di un mondo che sembra migliore di oggi. Di un'estate brevissima e irripetibile". Gli occhiali della nostalgia, della bella gioventù perduta rendono strabici tanto da farti scrivere: "Avevamo vent'anni e pensavamo che il mondo sarebbe stato nostro, poi è arrivato Craxi, la corruzione dilagante, Tangentopoli, gli affaristi in Parlamento. Tutto è cambiato e adesso siamo tutti più brutti"? E' probabile. Ma certo è che la vittoria della Nazionale dell'82 è una di quelle poche circostanze della nostra esistenza in cui tutti sapevano e ricordano dove fossero quella sera dell'11 luglio, quel giorno di Italia Germania 3-1. Io ero al bar dell'oratorio, con la tv (un 32 pollici con il tubo catodico, mica un maxi schermo ultra piatto) rivolto verso il campo di basket per far spazio agli spalti e l'esultanza del gol la ripetevamo ad ogni replay per permettere ad un amico (oggi austero parroco in un paese della Bassa bresciana) di fotografare il nostro delirio per quel momento memorabile.
Esultavamo per una nazionale non sapendo che esultavamo, forse per le ultime volte, per l'orgoglio di un Paese, per rendere ancora più vigoroso il nostro senso di appartenenza. "Questo non è rimpianto - riflette Giuseppe De Rita, sociologo e fondatore del Censis intervistato da Imarisio - ma bisogno di identità storica. Questo flusso di ricordi personali rappresenta la ricerca di una identità condivisa, tanto più importante in un'epoca come quella attuale che non offre riferimenti sicuri. Bearzot ha creato un attimo di storia collettiva e condivisa. Viviamo in una società che ha bisogno di senso collettivo".
Un senso collettivo che si è perso tra mille liti, mille secessioni minacciate, mille solchi scavati dentro e fuori di noi, tra nord e sud, destra e sinistra, bianchi e neri; perdendo quel senso di comunità che nutre il nostro orgoglio, arma il nostro carattere e la nostra voglia di lottare.
Ci siamo arresi arrivando a commuoverci per la morte di un uomo di calcio che il destino ha elevato agli altari di un culto collettivo? Forse sì. Ma ripercorrendo quella magica notte dell'82 in quell'oratorio di provincia, non posso fare a meno di pensare che il riscatto potrebbe essere dietro l'angolo. O meglio, di là dalla strada. Oltre quella striscia d'asfalto che corre lungo il campo di calcio di quell'oratorio. In quella casa dove gli echi della nostra esultanza arrivavano nitidi nell'82. In quella casa abitava, e abita tuttora, un giocatore di calcio poi passato alle panchine. Il suo nome? Cesare Prandelli da Orzinuovi, provincia di Brescia. Vorrà dire qualcosa...?

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