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BECKETT & SHAKESPEARE #teatro #dramma #letteratura

Creato il 09 settembre 2013 da Albertomax @albertomassazza

maschere balinesiParli di Beckett e subito gli viene associato il teatro dell’assurdo. Eppure, a differenza di Ionesco che mirava a far deflagrare la società borghese attraverso la messa in scena amplificata e deformata della sua demenzialità (l’assurdo come riproposizione postmoderna dell’epater les bourgeois dei pionieri dell’avanguardia), in Beckett non vi è nulla che non sia sintesi ed estratto della realtà. Non c’è nulla di assurdo in Vladimiro che rinuncia al suicidio perchè non farebbe più notizia buttarsi dalla Tour Eiffel: è la reductio ad absurdum della società dello spettacolo. Così come Krapp che cerca disperatamente di recuperare lo spreco di una vita desolatamente vuota, tentando di interagire con un nastro che aveva registrato con la sua voce trent’anni prima. O Winnie di Giorni felici, metafora della società del benessere condannata all’ottimismo e all’horror vacui, fino a quando non sarà completamente sommersa dal deserto e dall’oblio. O i genitori abbandonati nei bidoni dei rifiuti di Finale di Partita, trasposizione simbolica di un mondo che corre tanto velocemente da perdere ogni relazione col passato.

Ma poi, detto per inciso, se si vogliono trovare corrispettivi al teatro beckettiano, non si può andarli a cercare tra i suoi contemporanei. Il teatro di Beckett ha la dimensione universale di Shakespeare e della tragedia greca. Non è questione di incaponirsi come Adorno, che rasentò l’incidente diplomatico col serafico irlandese perché convinto, nonostante le smentite dell’autore, che Hamm fosse un Amleto dimezzato e ridotto a polpetta, ma molto in Beckett richiama il bardo di Stratford-upon-avon. In particolare, i due drammi più aperti, in progress: Amleto e Re Lear. Godot è lo spettro di Amleto padre che non si manifesta più, non rivela, non indica direzioni. Hamm e Clov non sono altro che Re Lear e il Foul ormai rinchiusi in manicomio o ritiratisi in un ospizio per artisti.

Re Lear è il più beckettiano dei drammi shakespeariani. L’ambientazione apocalittica, il rapporto degenerato tra le generazioni lo rendono il progenitore di Finale di partita. L’unica differenza è che nell’era post-atomica il dramma non ha più possibilità di compiersi; e il dramma che non si compie diventa farsa. Ma come non ritrovare Beckett nei dialoghi di Amleto con Polonio, Rosenkrantz, Guildestern e Osrico! Il principe di Danimarca vi appare come il soldato giapponese nell’isola del Pacifico: difende strenuamente le ragioni della logica, della giustizia, della verità contro l’assalto della mistificazione e della manipolazione della coscienza. Ma una volta che anche lui rimane schiacciato dal crollo di un mondo che avrebbe dovuto rimettere in sesto, non c’è più spazio che per il silenzio dei giusti e il chiacchiericcio degli imbecilli.

Il nichilismo shakespeariano arriva fino al fungo atomico e ad Auschwitz, ma non riesce ad immaginarsi cosa ci sia dopo. Amleto ha ancora la speranza della vendetta a tenerlo vivo, ma dopo Hiroshima e Nagasaki, dopo i lager, come è possibile avere fiducia in un’ecatombe catartica? Beckett prende coscienza dell’inadeguatezza del teatro shakespeariano ed interviene creando su quel corpo in decomposizione un teatro che non è più teatro, non è più consacrazione civile, ma rito clandestino nel quale gli adepti, i patologicamente irriducibili cercatori di verità, si muovono nel buio, tra topi e rifiuti, attendendo un nulla che non arriverà mai.

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