Magazine Cultura

Beni culturali

Creato il 19 ottobre 2010 da Renzomazzetti
OPERAIO

OPERAIO

 Ci sono diversi livelli di analisi del tema. Per alcuni, la spesa pubblica sui beni culturali (ricerca, ripristino, manutenzione, fruizione) si giustifica per il maggior moltiplicatore dell’occupazione che la caratterizza, rispetto ad altri capitoli di spesa pubblica. Per latri, il settore dei beni culturali è nuovo, nel senso che il mercato non è da solo in grado di sollecitare tutte le potenzialità: la spesa pubblica si giustifica per la crescita di occupazione che genera rispetto al mercato. Infine, vi è qualcuno che ritiene che il comportamento del mercato è già razionale, per cui qualsiasi intervento pubblico o genera capacità eccedentaria o sottrae per l’occupazione ad altri settori. Nel quadro di una politica per l’occupazione le tre ottiche vanno esaminate, pena un eccesso di semplificazione. Infine, è necessario soffermarsi sul tipo di spesa e sulle caratteristiche delle istituzioni da assegnare allo sviluppo dei beni culturali.

OCCUPAZIONE E SPESA IN BENI CULTURALI.

Affronto prima il problema del conflitto tra obiettivi occupazionali e obiettivi in tema di beni culturali. Quando si afferma che vale la pena investire nei beni culturali perché il risultato in termini di occupazione è migliore che in altri settori di spesa, si sostiene implicitamente che l’attuale tecnologia (il rapporto input-output) nei beni culturali è ad alta resa occupazionale. Ragionando, per così dire, a coefficienti fissi, tuttavia, si ossifica la spesa in spesa e lavoro comandato. D’altra parte, chi si occupa di beni culturali non può escludere che il rapporto input-output, o quello tra spesa e lavoro, debba cambiare, anche radicalmente, rispetto al passato. Anzi, la nuova attenzione ai beni culturali sottintende che nel passato la spesa non era sufficiente, né in volume né in qualità (composizione), e perciò nel futuro dovrà cambiare. Ciò comporta che la tecnologia del futuro sarà diversa da quella del passato. Di qui nasce, inevitabilmente, un conflitto tra obiettivi di occupazione e obiettivi dei beni culturali, evento peraltro comune a qualsiasi settore. Poiché si vuole utilizzare l’attività nei beni culturali a fini di occupazione, il conflitto implica che si dovrà forzare la qualità desiderata degli interventi in beni culturali così da massimizzare il lavoro domandato, entro limiti di qualità degli interventi considerati accettabili nell’ambito dei beni culturali. Risulta dunque essenziale fissare tali limiti - in assenza, qualsiasi settore diverso dai beni colturali potrebbe vantare meriti superiori. Non si tratta di fornire degli indicatori sulla ripartizione massima delle spese tra lavoro e altri inputs; si tratta piuttosto, da parte dell’ambiente dei beni culturali, di configurare progetti, settori, o categorie di intervento che siano accettabili.

LA TESI DELLA RAZIONALITA’.

Le involuzioni recenti del pensiero economico, con la piena legittimazione del mercato, consentono di osservare una tesi che definirei liberista sui beni culturali. Se gli operatori sul mercato sono razionali, si dice, non c’è alcun bisogno di un intervento specifico sui beni culturali ai fini dell’occupazione. Possiamo osservare due approcci diversi in questa visione: - per primo, se la spesa pubblica per i beni culturali è aggiuntiva, gli operatori penseranno o che verrà finanziata da nuove tasse (compresa l’inflazione) o dall’aumento del debito pubblico. Nei due casi, gli operatori ridurranno la loro spesa (o perché dovranno pagare più tasse, o perché dovranno acquistare le cartelle del debito pubblico) e ciò genererà disoccupazione. Non mette conto di discutere questa argomentazione – che pure riempie già un’abbondante letteratura – che va sotto il nome di ultrarazionalità perché riflette poco più di un estremismo ideologico; - per il secondo approccio, il mercato dei beni culturali (che comprende tutte le forme di fruizione) esiste ed è già al suo livello naturale di utilizzazione. Una spesa pubblica aggiuntiva che accresca l’offerta di beni culturali si scontra con una domanda che non ha ragione di crescere solo perché cresce l’offerta: accadrà che lo stesso volume di domanda si ripartirà su un volume maggiore di beni culturali; oppure, che la eventuale maggiore domanda di beni culturali si esprimerà ai danni di qualche altra domanda, riducendo l’occupazione altrove. Questo approccio contiene elementi di verità. La maggiore spesa in beni culturali non crea automaticamente nuova domanda a meno che ciò non sia accertato. E’ probabile (ma va accertato) che una maggior spesa pubblica, che in ipotesi aumentasse la domanda globale, farebbe crescere la domanda di beni culturali più che in proporzione: ma questo varrebbe per qualsiasi spesa pubblica, non solo per quella in beni culturali. Da ciò segue che, mentre non è ragionevole pensare che il mercato provveda già ad identificare il livello naturale di offerta e domanda di beni culturali, è tuttavia necessario accertare il volume e la qualità di domanda di beni culturali, prima di far progetti. E’ una osservazione banale, ma va ricordata: se la domanda non fosse sufficiente, infatti, il beneficio a medio termine per l’occupazione non si realizzerebbe nella misura sperata.

 

BENI CULTURALI

 

I BENI CULTURALI COME SETTORE NUOVO.

Se la domanda potenziale di beni culturali fosse significativamente maggiore della domanda attuale, e se soddisfare tale domanda implicasse l’utilizzo di risorse non scarse, ci si troverebbe nella situazione adatta per fare politica dell’occupazione attraverso i beni culturali D’altra parte, non tutta l’offerta di beni culturali è domandata; né tutte le risorse per creare nuova offerta sono abbondanti, compresa la forza lavoro. E’ sempre possibile individuare segmenti crescenti di domanda di beni culturali; ma ciò richiede adeguata analisi e programmazione, perché il mercato – nel caso dei beni culturali – si comporta in modo da massimizzare lo scarto tra domanda potenziale e domanda attuale. Poiché si produce cultura e beni culturali mentre la società si riproduce, è difficile sostenere che i beni culturali siano scarsi. E’ vero che alcuni beni culturali, in alcune fasi culturali, sono più scarsi di altri. Ma è anche vero che i beni culturali sono, in fondo, sempre riproducibili attraverso nuovi beni culturali: è il caso dei mass media che possono riprodurre i beni culturali, con forme di rappresentazione che sono, a loro volta, nuovi beni culturali. Se l’offerta è abbondante, e la domanda non è infinita, il prezzo unitario dei beni culturali dovrebbe essere molto basso, e il tasso di profitto netto vicino a zero. In queste condizioni, il mercato – per sopravvivere – tende a restringere l’offerta, a creare situazioni di scarsità artificiali, così da aggiungere un elemento di rendita al profitto. La domanda soddisfatta, in questo modo, si restringe rispetto a quella potenziale, e il volume prodotto e l’occupazione creata sono minori. Poiché la cultura e i beni culturali – come già indicato – sono eminentemente tautologici, la società civile produce poi una cultura della scarsità dei beni culturali che colpisce anche il settore pubblico: la ricerca pubblica di beni culturali tende ad esaurirsi in se stessa, non produce per la funzione (turistica, educativa, scientifica), non impedisce la scarsità socialmente determinata dei beni culturali; la manutenzione e il restauro dei beni culturali non vengono eseguiti; l’accessibilità ai beni culturali viene resa più difficile anche ricorrendo a tariffe più elevate o accentuando restrizioni finanziarie alle spese correnti per i beni culturali. Rompere questa auto-esautorazione del mercato, consente di accrescere la domanda. Come si è visto, d’altronde, non tutta l’offerta è abbondante: se i beni culturali sono probabilmente infiniti, il processo per la loro riproduzione chiama in causa risorse che non sono sempre altrettanto abbondanti. Per il lavoro, la parte eccedentaria è quella giovanile, ma le professionalità specifiche nei beni culturali sono scarse. Il problema da risolvere, dunque, è da un lato l’individuazione di quei beni culturali, in presenza di domanda, che utilizzano forza lavoro eccedentaria; dall’altro, quello di rendere la forza lavoro effettivamente disponibile per i progetti di beni culturali, tenendo conto delle prospettive di occupazione a lungo e non soltanto a breve termine. Ancora in modo generico, si tratterebbe di individuare – partendo dalla domanda di beni culturali (fruizione, educazione, ricerca) – o progetti o campi di intervento ad alto uso di manodopera eccedentaria. Poiché il vincolo più severo sembra essere proprio nella manodopera, sarà necessario individuare le istituzioni più adatte per la gestione dei beni culturali, nel senso che siano in grado di trasformare, a basso costo, forza lavoro generica in forza lavoro adeguata alla delicatezza dei compiti nel settore dei beni culturali. Un esempio è quello del restauro: chiunque sia il committente del restauro e responsabile della futura fruizione dei beni culturali, si trova ad operare con manodopera esperta in quantità molto limitate (vecchi mestieri artigianali); un progetto (o una categoria) di spesa nel restauro implica la trasformazione di manodopera generica specifica. La risposta tradizionale consiste nel fare corsi di formazione, che implicano un costo elevato ed un tempo di attesa prolungato. Una risposta più innovativa può consistere nella trasformazione dei vecchi artigiani in imprenditori, facilitando la creazione di imprese capaci di fare formazione on the job e tali da poter essere contrattualmente responsabili della qualità del restauro. Un programma del genere richiede la definizione della domanda, la progettazione del marketing per rendere effettiva tale domanda, la individuazione di progetti o categorie di spesa per rispondere alla domanda, la precisazione delle norme contrattuali che regolano l’attività di restauro, l’incentivo per la creazione di imprese di restauro. Si osserva, da tutto ciò, come la semplice proposizione di un oggetto (i beni culturali) per nuova occupazione sia, in genere, solo una fuga in avanti; e che incentivare l’occupazione attraverso la spesa in beni culturali genera subito la necessità di un programma di creazione e fruizione di beni culturali. Le vie più semplici sperimentate fino ad oggi rischiano sempre di trasformarsi in versioni mascherate di sussidio alla disoccupazione.

-Paolo Leon, Quel che possono dare i beni culturali, parte tratta da: Il lavoro possibile, Rinascita,1986.

BENI CULTURALI

Contro la superstizione

Gli spauracchi, le Lamie imposti da Fauno

e da Numa Pompilio, di questi trema, su questo si fissa.

Come i bimbi credono che tutte le statue di bronzo

siano vive, siano uomini veri, così costoro prendono per veri

sogni inventati e credono che abbiano un’anima le statue di bronzo:

galleria di dipinti, nessuna verità, tutte invenzioni.

-Lucilio,Satire.

 


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Magazine