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“Bertleby, lo scrivano” di Herman Melville

Creato il 23 settembre 2010 da Sulromanzo
“Bertleby, lo scrivano” di Herman MelvilleDi Michela Polito
“Bertleby, lo scrivano” di Herman Melville, analisi di un racconto lungo
Quando mi è capitata tra le mani da Fnac, circa un mesetto fa, questa edizione economica di Bertleby (Newton Compton tascabili), trovandomi in preda alle mie congetture su come si possa, avendo ben chiaro in mente un personaggio forte, sviluppare una storia e dei fatti intorno a esso per evitare il rischio di svilire il suddetto personaggio lasciandolo un mero bozzetto, ho trovato provvidenziale la sua presenza lì ai piedi delle casse, e ho pensato di studiare come il buon vecchio Melville avesse risolto la questione. Ho concluso ancora una volta che il modo più sano di risolverla è non porsela.
Accolto con freddezza dal pubblico – probabilmente perché, presentando tematiche che avrebbero trovato solo un secolo dopo ampio sviluppo nei filoni dell’esistenzialismo e dell’assurdo, era troppo innovativo per il sentire dell’epoca – questo racconto mi ha immediatamente rapito proprio per l’empatia che mi ha suscitato questo strampalato scrivano, la cui presentazione nel corso del racconto credo che sia la migliore introduzione di un personaggio nella storia della letteratura mondiale (insieme a quella di Ignatius di Una banda di idioti, all’onor del vero): In seguito a una mia inserzione, un bel mattino trovai un giovane immobile sulla soglia del mio ufficio, sebbene la porta, essendo estate, fosse aperta. Rivedo ancora quella figura squallida e linda, penosamente rispettabile, inguaribilmente sconsolata. Era Bertleby. 
La vicenda si svolge all’interno dello studio di un legale di Wall Street, nella New York del primo Ottocento. Il legale in questione, che è anche la voce narrante, necessitando di ampliare la sua squadra di copisti, per altro già composta di individui quanto meno bizzarri, in seguito alla suddetta inserzione si trova ad assumere Bertleby che, almeno, a differenza degli altri, le cui stravaganze creavano costantemente problemi nell’attività, era un lavoratore solerte e taciturno cosicché non dava fastidio, quasi non si percepiva la sua presenza. Con l’andar del tempo tuttavia il legale andava rilevando alcune anomalie caratteriali nel suo nuovo impiegato, per esempio il fatto che fosse eccessivamente taciturno, al punto da trascorrere diverso tempo a fissare trasognato il muro fuori dalla finestra, curioso panorama da contemplare ore e ore. Ma l’inghippo della trama esplode quando Bertleby comincia a formulare l’espressione con cui è passato alla storia e che costituirà il suo unico frasario: I would prefer not to, frase con cui rispondeva a qualsiasi richiesta lavorativa il suo datore gli poneva. Non che lo facesse con impertinenza o scortesia, l’effetto che sortiva era più quello di un mulo, in ogni caso di un comportamento privo di senso, fino a quando Bertleby aveva finito per rifiutarsi di fare qualsiasi cosa all’interno dello studio, compreso copiare documenti, tanto che la sua presenza all’interno dello studio non era più giustificata in nessun modo. 
Dopo un conflitto interiore durato una ventina di pagine, in cui non si capisce se faceva gioco forza l’anassertività del legale o il suo buon cuore, costui si trova costretto a licenziarlo. Non andandosene neanche così è il legale che, ridotto ai minimi termini, si trova a dover traslocare. In seguito all’arrivo di nuovi inquilini nell’appartamento che ospitava lo studio, e all’irremovibile presenza dello scrivano che con l’indifferenza di uno che non ha niente da perdere aveva occupato il vano come un moderno squatter, il povero Bertleby finisce le sue stravaganti vicissitudini in carcere, dove si lascia morire di inedia. 
Mi chiedo perché il personaggio di Bertleby, pur non essendo generatore di una storia con una trama forte, è passato alla storia. La risposta che mi sono data è che questa è l’ennesima conferma che una storia funziona anche qualora un personaggio sia generatore di senso già ontologicamente, cioè attraverso il suo modo di essere, e che non è detto che per forza di cose il senso debba scaturire dagli accadimenti interni alla trama. 

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