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Black Christmas: 10 libri per non morire

Creato il 10 dicembre 2014 da Salone Del Lutto @salonedellutto

Forse i fumetti non vi garbano, luttuosi. Be’, non c’è problema… Nei consigli natalizi di SdL ci sono anche tanti romanzi, vecchi e nuovi, che potreste regalare o regalarvi. E li chiamo libri per non morire, perché un libro salva o comunque migliora la vita. E poi volete mettere? La morte non si prenderà certo la briga di disturbarvi, proprio mentre state leggendo… di lei. Come nella puntata precedente, ve li propongo ripercorrendo le cose già scritte sulle pagine di questo blog e inserendo qualche nuovo consiglio[1].

Attenzione: non aspettatevi un elenco completo, perché non lo è. I libri sulla morte sono molti più di 10… E, soprattutto, doppia attenzione: i libri sapete bene dove comprarli, vero? In libreria! Nelle piccole librerie. Lunga vita ai librai.

dormono-sulla-collina-cover
Il primo della serie lo sto leggendo ora: Dormono sulla collina. È un libro bellissimo di Giacomo di Girolamo che ricostruisce la storia del nostro paese dal 1969 a oggi attraverso le voci – note e meno note – di quelli che sono morti. Persone, uomini, donne, bambini, ma anche fatti culturali, programmi televisivi, progetti. Un’opera importante, per tanti versi simile al nostro venturo calendario.

Questo libro si pone un obiettivo smisurato: il nostro paese raccontato da chi dorme, e sempre dormirà, sulla collina. Siamo di fronte alla Spoon River d’Italia. Il paese lo raccontano loro: gli uomini che sono passati di qui, quelli che hanno fatto la storia oppure che l’hanno subita. Gli uomini che tutto sapevano e nulla rivelarono. Gli uomini che nulla sapevano e tutto rivelarono. Uomini magniloquenti, uomini magnifici, uomini miserabili. Uomini piccoli e piccoli uomini. Volti imperiosi e notissimi, volti arcaici, che hanno fatto un qualche frammento di storia, anche se nessuno lo sa. Sono le loro voci a fare la storia. Dov’è Pino Pinelli, l’uomo che non voleva volare? Dov’è il poeta, Giuseppe Ungaretti? S’illumina ancora di immenso? Dove sono Anna Magnani, quelli di Piazza della Loggia, le vittime del terremoto dell’Aquila? Dove il piccolo Samuele di Cogne, dove Marco Pantani, dove Giulio Andreotti? Il generale Dalla Chiesa? Dormono, dormono sulla collina. E non solo loro. Programmi televisivi, bombe che esplodono, decreti legge. Anche gli oggetti. Gli oggetti sono così silenziosi, ma sanno tutto di noi, e fanno la storia. Anche loro: dormono sulla collina. Non è infatti un caso che la prima «voce» di questo coro non sia umana: a parlare è la Bomba di Piazza Fontana. È uno degli innumerevoli inizi italiani e a cantarlo è un ordigno capace di segnare l’immaginario di quell’Italia che possiamo in modo equivocodefinire «contemporanea»: là dove accade sempre tutto in contemporanea. Anni plumbei, anni mirabili, anni di schermi televisivi accesi e di fari spenti nella notte, anni di pop e di partiti popolari, con le inevitabili afferenze di mafie, logge, piovre, rivoluzioni mancate, riforme promesse e promesse rimandate, cronache nere e cronache rosa, un partigiano come presidente e presidenti campioni di partigianeria. Si potrebbe andare avanti all’infinito, iniziando dal 1969 e arrivando a oggi. Leggere questo libro significa immergersi in un oceano di voci, di storie molto note e di storie dimenticatissime. Come Edgar Lee Masters, ma non in versi, Giacomo Di Girolamo scrive un’opera mastodontica, tragica e poetica, lirica e comica, ottimista e disperata, destinata a essere un classico.

Giacomo di Girolamo
Dormono sulla collina
Il Saggiatore, 2014

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Fra le uscite recenti, vi consiglio anche il folle Mia moglie e io di Alessandro Garigliano. Ne ho parlato, tempo fa, e ho avuto la fortuna di presentarlo, insieme all’autore, in una libreria torinese. La morte c’è, eccome, è una speranza, forse, molto più solida di quella di un lavoro che disillude, di una strada che si fatica a trovare. Un meraviglioso passatempo che, però, non è esente da rischi. Perché quando ti avrà completamente assorbito, be’, allora è probabile che tu non ritrovi neppure una briciola di quel che eri.

Un esordio potentissimo e atteso da molti noti scrittori della narrativa italiana contemporanea. Con il passo di una ballata, Mia moglie e io mette in scena un protagonista che fa i salti mortali affinché la mancanza di lavoro, e dunque di realizzazione personale, non lo annienti del tutto. Seguendo il ritmo di un montaggio alternato, il protagonista si inventa un mestiere e, con la moglie, mette in scena atti efferati. I due interpretano cadaveri, immaginando le loro storie, e girano cortometraggi che sperano possano dare loro, un giorno, una parossistica notorietà. A questa narrazione si unisce quella dei lavori che il protagonista svolge a tempo determinato: le esperienze da manovale, da commesso libraio e da orientatore. Lavori esercitati con sovrumano impegno e ossessiva epicità. La ballata incede con un registro umoristico: humor nero che informa e deforma. La danza si svolge tra il protagonista e la propria sconfitta, la depressione, che assume di volta in volta sembianze diverse fino a mostrare la sua vera identità ovvero quella di una donna con la quale il protagonista instaura un rapporto sensuale e perverso, di repulsione e attrazione. Il controcanto di una tale esistenziale lotta per la sopravvivenza è la dolcissima storia d’amore con la moglie del protagonista: la sua anima complementare. Speculativo lui, pragmatica lei; astrattamente furioso l’eroe, altrettanto dialogante l’amata: pur essendo precaria, insegnante di scuola media, dimostra al marito la possibilità di salvezza.

Alessandro Garigliano
Mia moglie e io
LiberAria
Bari, 2013

L'avversario-Cover
Poi sicuramente Emmanuel Carrère, con un titolo a scelta fra L’avversario o l’intensissimo Vite che non sono la mia. Entrambi parlano di morte, la morte violenta, inflitta da un uomo folle che ha sempre vissuto nella menzogna alla moglie, i figli, i genitori, e una morte altrettanto dura e sconvolgente, quella data dalla malattia. Dell’Avversario ho già parlato, ed è questo il libro che riassumo di seguito.

Il 9 gennaio 1993 Jean-Claude Romand ha ucciso la moglie, i figli e i genitori, poi ha tentato di suicidarsi, ma invano. L’inchiesta ha rivelato che non era affatto un medico come sosteneva e, cosa ancor più difficile da credere, che non era nient’altro. Da diciott’anni mentiva, e quella menzogna non nascondeva assolutamente nulla. Sul punto di essere scoperto, ha preferito sopprimere le persone di cui non sarebbe riuscito a sopportare lo sguardo. È stato condannato all’ergastolo. Sono entrato in contatto con lui e ho assistito al processo. Ho cercato di raccontare con precisione, giorno per giorno, quella vita di solitudine, di impostura e di assenza. Di immaginare che cosa passasse per la testa di quell’uomo durante le lunghe ore vuote, senza progetti e senza testimoni, che tutti presumevano trascorresse al lavoro, e che trascorreva invece nel parcheggio di un’autostrada o nei boschi del Giura. Di capire, infine, che cosa, in un’esperienza umana tanto estrema, mi abbia così profondamente turbato – e turbi, credo, ciascuno di noi.

Emmanuel Carrère
L’avversario
Adelphi, 2013

Everyman-cover
Insieme a Carrère, Philip Roth è uno degli scrittori contemporanei che maggiormente amo. Ho letto molti suoi libri ma, sicuramente, se penso a Roth e la morte, il titolo che mi viene immediatamente in mente è Everyman. Se ne va in un nonnulla. Se lo regalate, abbinatelo a qualcosa d’altro.

Il destino dell’Everyman di Roth si delinea dal primo sconvolgente incontro con la morte sulle spiagge idilliache delle sue estati di bambino, attraverso le prove familiari e i successi professionali della vigorosa maturità, fino alla vecchiaia, straziata dall’osservazione del deterioramento patito dai suoi coetanei e funestata dai suoi stessi tormenti fisici. Pubblicitario di successo presso un’agenzia newyorkese, è padre di due figli di primo letto, che lo disprezzano, e di una figlia nata dal secondo matrimonio, che invece lo adora. È l’amatissimo fratello di un uomo buono la cui prestanza fisica giunge a suscitare la sua più aspra invidia, ed è l’ex marito di tre donne diversissime tra loro, con ciascuna delle quali ha mandato a monte un matrimonio. In definitiva, è un uomo che è diventato ciò che non vuole essere. L’humus di questo potente romanzo – il ventisettesimo di Roth e il quinto in pubblicazione nel ventunesimo secolo – è il corpo umano. Il suo tema è quell’esperienza comune che ci terrorizza tutti. Everyman prende il titolo da un’anonima rappresentazione allegorica quattrocentesca, un classico della prima drammaturgia inglese, che ha per tema la chiamata di tutti i viventi alla morte.

Philip Roth
Everyman
Einaudi, 2014

Cosa-sognano-i-morti-Cover
Dalle pagine del blog recupero anche Cosa sognano i morti di Lydia Millet che però, più che parlare dei sogni dei morti è un libro che approfondisce il tema dei rapporti dei vivi con la morte, intesa come morte di un singolo e soprattutto come morte di una specie, estinzione.

T. è un bambino con i desideri di un uomo. Per lui, non c’è “illustrazione” che valga di più dei ritratti dei presidenti Jackson e Hamilton raffigurati sulle banconote e non c’è “pupazzo” che lo plachi maggiormente dei soldi custoditi sotto il cuscino. Come spesso accade a chi ama il denaro al punto di farne una passione totalizzante, T. ha una sua meschinità ben evidente – che ci riesce difficile perdonare perfino a un ragazzino –, come emerge ad esempio dal dialogo con la madre di un suo amico, Perry, che gli devolve settimanalmente la sua paga in cambio di protezione. Messo alle strette dalla donna, T. non esita a spiegarle con una lucidità sconcertante le ragioni del costo del suo aiuto, finché lei, meravigliata dall’avere a che fare con un ragazzino disincantato come un adulto, lo liquida dandogli del “piccolo bastardo viscido”. Da un bambino cresciuto con quest’unica passione ci aspetteremmo che diventi un pessimo adulto. Eppure T. è anche capace di provare sentimenti disinteressati: la pietà e l’orrore per un coyote investito sulla strada; la vicinanza che mostra verso una madre a tratti insopportabile quando viene abbandonata senza spiegazioni dal marito… E, ancora, un amore puro, sincero, per la sua prima compagna e il dolore profondo che scaturisce dalla sua perdita; l’affetto per una ragazza paraplegica che diventa la sua migliore amica; la fascinazione per il mondo animale… Il denaro non lo condanna, insomma, a essere un uomo peggiore; semplicemente, lo porta a essere più solo, concentrato com’è sul bisogno dell’accumulo. La via d’uscita c’è, tuttavia. E si chiama empatia: nei confronti delle tante fragilità delle donne della sua vita o di un animale la cui specie è prossima all’estinzione. Cosa sognano i morti è un romanzo di formazione, il passaggio dall’egoismo di un bambino all’amore di un uomo, il cambiamento dall’essere T. al diventare Thomas (mia recensione su L’indice dei libri del mese).

Lydia Millet
Cosa sognano i morti
Indiana, 2013

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E recupero pure Il libro delle mie vite di Aleksandar Hemon, che tra le perdite ha forse sperimentato le più dolorose: la perdita della patria, quella della lingua, infine quella di Isabel, sua figlia. E dopo ogni perdita si inizia una vita altra, a volte completamente diversa dove la perdita diventa conquista, altre volte di faticosa sopravvivenza…

Aleksandar Hemon e Vladimir Nabokov. È naturale accostare questi due nomi, non solo perché Hemon in Nabokov vede il proprio scrittore preferito, ma anche e soprattutto perché a entrambi è riuscita, magnificamente, l’impresa di scrivere in inglese, una lingua di cui si sono appropriati soltanto con la maturità. In più, ad accomunarli c’è una sensibilità sottile, quella che, come Hemon ha dichiarato, lo induce a scrivere “libri tristi per chi ha il senso dell’umorismo” e “libri spiritosi per gente triste”. Rispetto a Nowhere Man e a Il progetto Lazarus, Il libro delle mie vite si colloca altrove, nel campo della non-fiction, ripercorrendo una sequenza di storie vere che si svolgono nell’arco di 11 anni tra Sarajevo, prima dell’inizio della guerra, e poi l’America, la terra dell’esilio, dove l’autore è rimasto “intrappolato” nel 1992, all’esplosione del conflitto. E proprio la guerra svolge un ruolo importante nelle pagine dell’autore bosniaco, rivissuta com’è attraverso il filtro delle testimonianze di famigliari e amici o dello schermo dei media, quello che restituisce, fra le altre, inquadrature del professor Nikola Koljevi, che di quella storia recente diventa in un certo senso il simbolo. Di Koljevi, Hemon ricorda le dita lunghe e affusolate, quelle che prima che intraprendesse la carriera universitaria lo avevano portato a suonare il pianoforte nei locali jazz di Belgrado; ricorda quanto gli abbia fatto amare – e poi odiare – la letteratura; sa che che è stato uno dei registi dell’orrore diventando in quanto esponente di spicco del Partito democratico serbo e responsabile di crimini efferati tra cui, anche, la distruzione di centinaia di migliaia di libri nell’incendio della biblioteca di Sarajevo. Una vicenda emblematica, la sua, che occupa poche pagine dense di significato. Quella di Hemon è una scrittura precisa, chirurgica, che diviene anche lo strumento per elaborare il dolore per la morte della propria, descritto nell’ultima delle vite del libro, L’acquario. (mia recensione su L’indice dei libri del mese: http://www.ibs.it/code/9788806213954/hemon-aleksandar/libro-delle-mie.html)

Aleksandar Hemon
Il libro delle mie vite
Einaudi, 2013

La-morte-a-Venezia-Cover
Ma si possono tralasciare i grandi classici? Io direi di no. Quindi ecco per voi La morte a Venezia di Thomas Mann. Impossibile non parlarne, neppure a oltre 100 anni dalla sua pubblicazione. Va letto. E basta. Se volete sapere perché, ve lo spiego per bene.

Una Venezia estiva ammorbata da una peste incombente ospita l’inquieto Gustav Aschenbach, famoso scrittore tedesco che ha costruito vita e opera sulla più ostinata fedeltà ai canoni classici dell’etica e dell’estetica. Un sottile impulso lo scuote nel momento in cui compare sulla spiaggia del Lido la spietata bellezza di Tadzio, un ragazzo polacco. Un unico gioco di sguardi, la vergogna della propria decrepitezza, la scelta di imbellettarsi per nasconderla, sono i passi che scandiscono la vicenda. In pieno Novecento, Thomas Mann ha colto e rappresentato la grande cultura borghese in via di dissoluzione, in un’opera emblematica che fonde la perfezione formale con la rappresentazione degli aspetti patologici di quella crisi.

Thomas Mann
La morte a Venezia
Einaudi, 2006

Stoner-cover
E direi, senz’altro, Stoner di John E. Williams, pubblicato in Italia molti anni dopo la morte dell’autore e, giustamente, vero caso editoriale di qualche anno fa. Un libro intenso, commovente. Imperdibile.

Leggo questo libro tutto d’un fiato. Non riesco a staccarmi. Eppure quella di William Stoner è una vicenda senza effetti speciali (tranne la scrittura che sì, può molto di più di una trama avvincente, ingarbugliata, o di un finale a sorpresa). È un percorso comune – studi, lavori, invecchi, muori – con le sue grandi amarezze e le sue piccole vittorie, le sue stasi e i suoi picchi. Stoner mi piace per questo, perché l’ordinarietà della vicenda ti cattura, perché non riesci a non condividere tutto quello che il personaggio prova. Non riesci a non appassionarti di letteratura inglese medievale (!!) facendo tue le ore trascorse sui libri, la meticolosità delle note a margine, eppoi tutti i sentimenti disattesi, le frustrazioni e l’appagamento, anche quello, nascosto in sottotraccia, fino al senso di dissolvenza. Stoner lo segui passo passo. Ti senti giovane, disorientato, poi curioso, offeso, stanco. E poi senti quel po’ di rivalsa prima che la luce si spenga. E sai che molte vite sono così. E ringrazi J.E. Williams di avertene raccontata una. E di averti ricordato un verso di Keats che è magnifico, e che esprime l’essenza di questo romanzo, un’invenzione così splendida da sembrare reale: «Bellezza è verità, verità è bellezza; questo è/tutto quello che sapete, quello che dovete sapere». (dalla mia recensione su Anobii)

John E. Williams
Stoner
Fazi, 2012

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Tornando, al punto da cui siamo partiti, cioè un libro che sia – anche – un pezzo di storia, ecco un testo prezioso, su un autore grandissimo, Albert Camus. Camus deve morire lo ha scritto Giovanni Catelli, aprendo una serie di piste d’indagine incredibili e acute sulla morte dello scrittore francese in un “incidente” d’auto. Ne ho già parlato e continuo a consigliarvelo con convinzione.

Dietro la morte di Albert Camus, premio Nobel per la letteratura e intellettuale politicamente attivo negli anni della guerra fredda, sembra celarsi un mistero. Fu il Kgb a provocare l’incidente d’auto che gli costò la vita? E perché? In occasione del centenario della nascita dello scrittore francese, questo libro indaga nelle crepe della ricostruzione ufficiale alla ricerca di una difficile verità, ricomponendo l’aspro clima di un’epoca che ha lasciato un segno profondo nella cultura europea.

Giovanni Catelli
Camus deve morire
Nutrimenti, 2013

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E infine: un libro che non ho letto! Ma che mi ha consigliato il mio amico Bruno, che non sbaglia mai. Davvero mai. La morte della Pizia di Friedrich Dürrenmatt.

Stizzita per la scemenza dei suoi stessi oracoli e per l’ingenua credulità dei Greci, la sacerdotessa di Delfi Pannychis XI, lunga e secca come quasi tutte le Pizie che l’avevano preceduta, ascoltò le domande del giovane Edipo, un altro che voleva sapere se i suoi genitori erano davvero i suoi genitori, come se fosse facile stabilire una cosa del genere nei circoli aristocratici, dove, senza scherzi, donne maritate davano a intendere ai loro consorti, i quali peraltro finivano per crederci, come qualmente Zeus in persona si fosse giaciuto con loro». Con queste parole spigolose e beffarde ha inizio La morte della Pizia e subito il racconto investe alcuni dei più augusti miti greci, senza risparmiarsi irriverenze e furia grottesca. Ma Dürrenmatt è troppo buono scrittore per appagarsi di una irrisione del mito. Procedendo nella narrazione, vedremo le storie di Delfi addensarsi in un «nodo immane di accadimenti inverosimili che danno luogo, nelle loro intricatissime connessioni, alle coincidenze più scellerate, mentre noi mortali che ci troviamo nel mezzo di un simile tremendo scompiglio brancoliamo disperatamente nel buio». L’insolenza di Dürrenmatt non mira a cancellare, ma a esaltare la presenza del vero sovrano di Delfi: l’enigma.

Friedrich Dürrenmatt
La morte della Pizia
Adelphi, 1988

Luttuose e luttuosi, ecco qui. Buona lettura!

di Silvia Ceriani

[1] Le date di edizione si riferiscono all’ultima edizione esistente sul mercato.


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