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Breve racconto di una sera

Creato il 04 dicembre 2014 da Spaceoddity
[Racconti]
Der Mensch spielt sichtbar in das WerkRichard Strauss
Dirò d'essere un personaggio pur sapendo che mi si è già riconosciuto; ad ogni modo mi presento Luis. Scrivere di me cambiando i nomi è come raccontare una sonata per violino sbagliando le note su una batterai, ciascuno può scegliere per sé di sentire il rumore o una qualche diversa melodia.
Ho ventisei anni, ho gli occhi azzurri che osservo spesso allo specchio cercandovi tracce del colore di mio padre; allo stesso modo guardo tutti gli uomini sopra i quaranta per vedervi riflessa la mia stessa ansia.
Breve racconto di una seraSto fermo davanti a un negozio di dischi, attraverso le vetrine mi sento squadrato, è vero, ma non è necessario saperlo o pensarlo, ho paura che mi riconoscano, ero qui anche giovedì scorso e ogni giovedì prima, ma tutti i giovedì che seguiranno sono scanditi da volti sovrapposti l'uno all'altro e al mio in una camera d'albergo cercando mio padre. Li incontro qui, hanno meno di cinquant'anni, l'età che dovrebbe aver lui, li contatto tramite annunci e con una costanza che in me altrimenti non esiste li incontro qui il quarto giorno di ogni settimana, alle otto di sera, l’ora in cui ci sono poche persone in giro, e quelle che ci sono non stanno a guardare te. Il viso che si ombreggia al faro è carico di promesse e di speranze, vengono qui con i preservativi, sanno già dove andranno dopo, io sorrido, non li disilludo, al massimo poi li deludo, non mi piacciono troppo gli uomini, non che ne abbia schifo, so goderne, solo che non m’interessano. Qualcuno si accontenta, pensa di non essere il mio tipo: tutti dopo una pizza, due malconci orgasmi impolverati su qualche letto di un motel o di casa loro, tre sorrisi e poche rose appassite comprate più per far la carità ad un bimbo che per essere romantici, dopo ciò spariscono, né li cerco più.
Stavolta si chiama Ernst, il suo annuncio è stucchevole, è un notaio e ha dato il suo cervello in enfiteusi all’eroina. Quanto a papà, non posso escludere questa strada, non ho altra traccia che il mio volto, pare simile al suo, ed un’età approssimativa. Mamma è rimasta incinta a ventidue anni di questo ragazzo ben più piccolo di lei, non so di quanti anni, però, potrebbe essere una menzogna, ma devo crederle ora che ho perso pure lei. Non voglio riappacificarmi con nessuno dei due, i quadretti da famiglia felice hanno ormai altri soggetti, hanno me e Joan, … me, Joan e Arthur, bellissimo bimbo di un anno. Non è necessaria la generazione dei nonni, non serve a nulla la gente che lascerà presto soli Joan e Arthur quando io sarò via. E io sarò via presto, lascia solo che passi stasera, lascia solo che l’idiota di turno si abbandoni a un piacere fugace e identico ad ogni altro piacere adespota e rugoso. Lascia solo che arrivi a casa, prenderò il mio diario (per evitare che lo si ricolleghi a questa storia) e nessuno mi riconoscerà, sarà facile cambiar nome e volto, lo fanno tutti i personaggi dei racconti, e nessuno ti riconosce mai al di là di un foglio, basta saper usare le giuste parole e nascondere i lineamenti, basta nascondere le pieghe del sorriso: per conoscerci basta un nome e un addio fra qualche pagina. Di qui ad allora sarò io il padrone della mia vita.
«Lei è Luis?»
Sì, sono io, ma chi legge questo racconto lo sa già. «Lei dovrebbe essere Ernst».
Sorride come se avessi fatto un complimento, mi porge la mano, fredda a dir la verità. Ha le occhiaie, è malato, nervoso.
So fingere un tono allegro quando voglio. So sorridere bene, è per questo che Joan mi ama: «E allora? Dove si va?» Sul ventaglio delle possibili risposte che ti si apre a questo punto c’è sempre la stessa immagine di due uomini a letto che si amano. Un ventaglio è per sua natura perbenista e ruffiano. Ti seduce perché sa cosa nascondere. Ernst, mi risponde lui, si trova due biglietti per Mozart, e Luis approva. Ci si va con la sua macchina, la mia con questo freddo non parte, fa freddo a febbraio. Certo, certo, va bene solo che Ernst l’ha posteggiata un po’ lontano per discrezione, certo, certo, va bene, a Luis va di fare due passi, sennonché forse il teatro è più vicino, ed Ernst chiaramente vuol dimostrare il contrario, ma Luis, cioè io, non ho voglia di sentirmi le sue mani addosso così presto, devo prima abituarmi all’idea, no, no, meglio andare subito al teatro, se no si fa tardi.
L’inizio dell’opera è previsto per le nove, abbiamo tempo di mangiare qualcosa, lui non ha fame o non ha soldi, ma se io, cioè Luis, vuole mangiare, beh, gli farà volentieri compagnia. Resto a guardarlo, Ernst, voglio dire, mentre mangio la mia insalata insapore ai funghi incolori. La sua pelle è liscia per l’età, non troppe rughe solcano il suo viso, provo a indossarlo mentalmente, sorrido per verificare le mie e far qualche cenno educato d’assenso riguardo all’eterna confessione della prima volta che si fa un annuncio, confessione cui non sono obbligato a credere più di quanto non si sia tenuti a credere a questa storia di un incontro diverso ogni settimana, così, per provare.
Lo spettacolo sta per cominciare, ci si affretta e per fortuna quando si ha fretta non vien voglia di parlar troppo, si ha appena il tempo di attraversare le strade senza semafori sperando che le pagine non slittino troppo presto fino alla retrocopertina color marmo. All’altro marciapiedi, mi fermo a controllare se arriva, poi continuo, entro nell’edificio ormai vecchio, seguito da un vecchio coi biglietti che mostra premuroso ad una ragazza sorridente. Mi muovo, e me ne vanto, con agilità ed elegante controllo tra le prime note della sinfonia, prendo il posto che mi viene indicato con affrettata e dozzinale solerzia da una maschera pallida di cui non vedo il viso, ma lo immagino annoiato. Prendo posto, Ernst accanto a me, vagheggio note più precise, ricordo arie più belle, scelgo protagonisti più svegli di quest’imbecille per riconoscermi in essi, ma almeno fin che dura questa danza di ombre irrequiete in equilibrio precario sulla mia pazienza sinistramente cedevole, che si sfalda in fumo, io, travestito da Luis, nei panni scomodi di un Don Giovanni cui qualsiasi Leporello potrebbe finalmente catalogare i fallimenti di ogni giovedì, io subisco la noia mortale di un prossimo amante sospiroso che di tanto in tanto mi guarda per dedicarmi brani d’amore voluto – o inventato – per me.
Ernst esce poggiandosi a me, annoiato visibilmente e a ragione, ma pieno dell’ambizione di mostrarmi che l’arte val bene una serata passata altrimenti… anche se c’è ancora tempo, io dico che no, che insomma, si dovrebbe fare in fretta se no domani non mi alzo, ma sì, certo, non c’è problema, lui, cioè Ernst abita proprio lì dietro, si fa subito e se nel frattempo voglio qualcosa da bere ha uno splendido bar a casa, fornitissimo di tutto, tranne che di specchi. È preciso e puntuale, vuol fare bella impressione, come di chi non ha speso invano gli anni che ti separano da lui ma nel frattempo s’è fatto una posizione, una carriera, un nome, ha già avuto delle disillusioni, ha già pianto per altri e per altro, e ormai può riderne o meglio sorriderne col cuore sgombro di ogni collera ecc. fino a casa.
Poi a casa inevitabilmente ti racconta le sua ansie più noiose e sgradevoli del corpo ormai vecchio d’un uomo. Sonnecchio aspettando la mano che vuol profittare di un mio momento di debolezza scambiata magari per tenerezza o affetto, gliela prendo, la bacio, e qui comincia la storia che appunterò tornando a casa sul diario che porterò via con me lontano dal padre che non trovo, lontano da Joan, lontano da mio figlio Arthur. Quando ho cominciato a scrivere di me speravo di crescere, già che crescere significa sceglierti un passato tutto tuo e inventarti allora un nuovo presente, senza riguardo né rispetto per quel che sarai. Ora, quindi, trascriverei anche qui quelle parole leggere come i gesti di un orgasmo brusco e polveroso, ma correrei il rischio che quell’amante distratto ancora ignaro di tutto infine mi riconoscesse. Nel frattempo dedico questa storia a mio padre.

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