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Broken

Da Miwako
BROKENE così finisce. E così ri-comincia. Senza riuscire a distinguere quale sia l'inizio e quale la fine. Succede anche con le onde del mare che si frangono sulla battigia e tornano indietro. Forse non c'è un inizio nè una fine, è tutto solo un divenire. Il vento è cambiato. Già da un po', a dir la verità, ha spirato instancabile per mesi, levigando la pietra, scavando il legno, spostando le case, e in silenzio, ha cambiato pure noi.
Ho il cuore pesante, pieno di cose, brandelli di vita, stralci di sguardi regalati, annotazioni a margine, risate tra le lenzuola, biglietti e parole, lacrime e felicità. Non so nemmeno dire come mi sento. Il vuoto, in certi momenti, la vertigine del tempo che passa in sordina lasciando segni ovunque, sul volto, sul cuore, fin dentro all'anima; la tristezza sconfinata e mutevole di un cielo d'Irlanda; l'Amore che mi abita, che sembra respirare come un essere vivente, agitarsi come il mare, profumare come il vento in primavera. 
Contemplo i cinque scaffali di cose accadute, vissute, sentite e cadute, li scorro con l'indice, li tocco, li annuso, così disordinati e straordinari da non poterli immaginare diversamente. Si sono riempiti molto più lentamente di quanto mi sia parso. Qualcosa è li perchè fortemente voluto; qualche altra c'è finita un po'per caso e, in qualche modo, ha reso il tutto più eterogeneo; qualcuna, la si vede anche da lontano, è evidentemente una briciola di asteroide caduta senza preavviso, bruciacchiando un po'intorno. La fuliggine ha annerito alcune delle cose che stanno li, ma io so che sotto il nero sono sempre le stesse. 
E' difficile quando non si ha nulla da rimpiangere, quando non ci sono capri espiatori, quando ciò che resta è forse più grande di ciò che c'era stato fino a prima. Dannatamente difficile. Ed io sono così stanca, che vorrei solo dormire indeterminatamente. 
Millemila le bellezze tra questi cinque scaffali, le meraviglie, le cose invisibili ma che occupano spazio quasi fisico dentro di noi, le cose fatte e quelle dette, scritte, disegnate, cantate. Sono tutte li, in ordine sparso, che si stringono le une alle altre, tentando di scaldarsi. Ci riescono ancora, a far calore; come quella stufetta che ha sciolto così tante notti in quella casa senza riscaldamento.
E allora ti chiedi dove diavolo sia finito il senso delle cose, ammesso che ce ne sia mai stato uno, ti chiedi se debba esserci per forza un senso, o se non abbia ragione quel vecchio bolso che mi rifiuto di citare quando canta "Voglio trovare un senso a tante cose, anche se tante cose un senso non ce l'ha". Glissando sulla licenza poetica e la violenza grammaticale (mia e sua visto il numero di volte in cui sto [ab]usando la parola senso), mi tocca dar ragione a questo tizio. Forse un senso non ce l'ha, e non lo deve avere. Forse il senso sta nel non cercare affatto di dare un senso a qualcosa di così grande, di lasciarlo libero di essere, a prescindere da ogni sorta di classificazione o espediente che permetterebbe di inquadrarlo in un ambito di definizione che diventerebbe la sua gabbia. Ed è quello che farò. Lo lascerò libero di essere. Di ferirmi, di farmi ridere e sanguinare, di rendermi disperata e felice, libero di essere, senza cercare di controllarlo o spingerlo a forza in una qualsiasi etichetta, senza aspettarmi che sia facile. Faccia come crede. Lui, l'Amore, lo sa qual è il senso, e se il senso per lui dev'essere un non-senso per me, allora sia.

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