Magazine Diario personale

C’era una volta l’America…

Creato il 13 dicembre 2012 da Lamagadioz

Cera_una_volta_in_America

Erano anni che pensavo a questo viaggio, io che mi nutro di cinema e scene del crimine ho sempre sognato l’America a occhi aperti.
Da giovanissima, appena diplomata avevo fatto una vacanza studio di un mese negli Stati Uniti e mi erano rimasti nel cuore. Da quel momento ho sempre fantasticato su quel paese che avevo scelto come via di fuga prima dell’Australia, quel paese in cui non ero riuscita ad andare per colpa del visto difficile da ottenere e che mi aveva spinto a scegliere l’Australia. Gli Stati Uniti d’America per me sono sempre rimasti una meta, un esempio di Stato dove è bello vivere, dove è un sogno vivere.

Questo pensavo fino a ieri.

Poi sono stata a New York, ci sono andata  la settimana scorsa per una breve vacanza  e per rivedere quel paese che più di dieci anni fa mi aveva incantato il cuore. Speravo, contavo di rivivere lo stesso incanto, di rimanere rapita da quel mondo che tanto ho bramato.
New York, per intenderci, è spettacolare. E chi ci è stato non può che confermarlo.

Poi per chi ama il cinema e le serie tv del crimine come me, questa città è una specie di tempio dove ogni marciapiede ha un fascino monumentale e ti emozioni a vedere una scala antincendio o un macchina della polizia.
Ti emozioni a scrutare la Statua della Libertà, a passeggiare sul ponte di Brooklyn pure se è immerso nella nebbia, a scorgere dalla vecchia Brooklyn il Williamsburg Bridge sotto il quale hanno girato  ”C’era una volta in America”…ti meravigli dell’eleganza della Quinta Avenue, delle luci incredibili di Times Square e ti si stringe il cuore a camminare nella vera Grand Central Station, quella di “Io sono leggenda” o a entrare nella libreria pubblica, quella di “Ghostbusters” e “The Day after Tomorrow”. Insomma, New York è una figata assurda. Un set vivente, una scenografia abitata. Roba da andare fuori di testa e io ci sono andata.
Ma non avevo dubbi su questo. I dubbi mi sono venuti perché  a parte il set vivente in cui sguazzavo come una bambina in un parco divertimenti, per il resto l’America non mi ha esaltato. Anzi forse mi ha un po’ deluso.

Non ho sentito la magia, non ho percepito quella fierezza di cui tanto si parla e che traspare in ogni film, in ogni convention politica, in qualsiasi immagine trasmessa degli Stati Uniti e dagli Stati Uniti. New York è una città molto caotica, stupenda ma dove vive bene solo  chi ha i soldi, perché il costo della vita penso sia uno dei più alti al mondo (ho pagato una lacca da 50 grammi 14 dollari, scusate ma questo fatto mi ha scioccato più della bottiglietta d’acqua a 4 dollari).
Ho come l’impressione che il ceto medio non se la passi bene nella Grande Mela e non se la passi bene nemmeno nel resto d’America.  Ho visto visi spenti, senza entusiasmo. Ho viaggiato in metro nel completo silenzio nonostante fosse piena di gente. Non ho visto sorrisi, se non nel bel mondo che passeggiava sulla Quinta avenue con sacchetti di Gucci e Fendi, ma nei normali coffeeshop o supermercati io non ho visto la tanto decantata fierezza americana.

Non ho desiderato, nemmeno per un momento, di voler vivere a New york. E mi prenderete per pazza, ma laggiù nella grande mela, mentre passeggiavo per le vie più famose del mondo, mi sentivo contenta di sapere che la mia casa non era lì, in mezzo a quella gente con cui non sentivo nessun feeling.

Sydney era diversa. Enorme, caotica a modo suo, ma vibrante ed energetica come New York può solo sognare. E mi riferisco all’energia emanata dalle persone, felici nella loro semplicità. I newyorkesi non emanano questa energia e se lo fanno, io non me ne sono accorta. Sono stressati, corrono, si esaltano per nulla. I ricchi si impongono e si mettono in mostra, i poveri si comportano come se fossero invisibili. Voi mi direte che anche qui è così, però ho come l’impressione che da noi i poveri abbiano più dignità, si incazzano per la loro condizione. Laggiù invece mi pare che ci sia più rassegnazione. Ma forse è solo un’impressione.

Ho visto dei fantasmi in metropolitana. Guardavo quelle facce e non facevo che domandarmi del perché non fossero felici. Cavolo, vivono in America! Non è un sogno vivere in America? In Australia sentivo i ragazzi cantare in metropolitana e le ragazze ridere a dismisura. A New York non ho sentito questa serenità, non ho colto nessuna fierezza nei volti della gente che ho incontrato.

Forse la gente è stanca, forse anche l’energia di New York si sta spegnendo e pure le luci sfavillanti di Times Square non possono fare nulla per riaccenderla.Alla mattina, prima di uscire dall’hotel, accendevo la tv per farmi compagnia mentre mi preparavo.

I programmi americani sono abominevoli. I presentatori dei programmi televisivi, un miscuglio di notizie giornalistiche e cazzate gossipare che in confronto Studio Aperto sembra un tg vero, sti presentatori dicevo sembrano appartenere a un popolo diverso da quello che vedevo per le strade. Belli, sorridenti, supertruccati, facevano a pugni con il pubblico reale, quello che li guardava da casa.

Loro, i presentatori, sembravano degli attori. Finti, nell’aspetto e in quello che dicevano. E parlavano a un pubblico di fantasmi il cui massimo è aspirare a essere come loro.

Ho ripensato al mio popolo di cui si può dire tutto ma non lo si può paragonare a un fantasma, si lamenta e basta, è vero, ma almeno reagisce e critica. Ho pensato ai miei presentatori, da Franco Di Mare all’Antonella Clerici, che perlomeno sono assimilabili a gente qualunque che si può incontrare per strada, non certo superfighi o che si sentano tali (oddio la Clerici pensa davvero di essere bella, ma vabbè…).

Ho pensato al nostro senso estetico, alla nostra personalità, ai miei viaggi sulla metro di Milano dove vedo gente di ogni tipo, non fantasmi, alla nostra cucina, alla nostra storia, ai nostri casini, ai nostri problemi. Ho ripensato al mio paese mentre passeggiavo in Central Park e ho provato a immaginare che cosa potrebbe essere l’Italia se avesse, questo lo devo riconoscere come un grande merito degli americani, il senso pratico e l’organizzazione eccellente degli Stati Uniti. Saremmo il migliore paese del mondo, senza dubbio.

Così quando ieri sono tornata a casa, sulla metro milanese ho guardato ancora meglio la gente che mi circondava: una ragazza che messaggiava al telefono con il sorriso stampato in faccia, due giovani che discutevano animatamente del prossimo esame di medicina, una donna preoccupata a guardare lo scontrino della spesa e a rifare i conti mentre scuoteva la testa, visibilmente incazzata.

Ho guardato quel piccolo microcosmo a cui mi sento di appartenere e ho sorriso. Sono scesa dalla metro e ho preso il bus per arrivare al mio paesello. Ero in compagnia di liceali che facevano un casino assurdo mentre il conducente li guardava preoccupato dallo specchietto retrovisore e una madre davanti a me si mangiava con gli occhi il cucciolo che aveva in braccio. Ho sentito un’energia che a New York non ho minimamente percepito.

E su quel bus ho attraversato un po’ di provincia milanese prima di arrivare a casa. Niente caos da 42 esima strada, niente Central Park, solo casette e piccoli parchi immersi in una leggera nebbiolina tipicamente lombarda.

Sono scesa e ho percorso a piedi l’ultimo tratto di strada fino a casa. L’aria era fredda, pungente. In giro solo un giovane uomo che giocava con il suo cane mentre alla sue spalle il cartello luminoso del comune del mio paesello mi segnalava che domenica ci sarebbe stata la fiera di Natale e che non potevo mancare. Ho sorriso e sono finalmente entrata in casa.

Mi sono sdraiata sul divano e ho continuato a sorridere, pensando a quanto fossi contenta di essere a casa mia, in quel paesello della provincia milanese, nella mia Italia. Lontano migliaia di chilometri da New York.

Più giro il mondo e più apprezzo il mio paese.

Girate anche voi, più che potete. E’ l’unico modo per amare davvero l’Italia.


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