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CAMMINARSI DENTRO (344): L’Inconfessabile

Da Gabrielederitis @gabriele1948

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Giovedì 2 febbraio 2012

Probabilmente, è il grumo che ci portiamo dietro per tutta la vita a spingerci in avanti: la somma dei bisogni e desideri insoddisfatti, tutto l’inconfessabile, le ragioni da chiarire, l’amore che non abbiamo ricevuto.
Quando affiora il ricordo del male che abbiamo fatto, che non ci abbandona, un nuovo compito ci aspetta. Cercare vie d’uscita che valgano ad alleggerire il peso che opprime la coscienza. Eravamo liberi e leggeri, finalmente paghi di noi, in quiete, in pace, quando è sopraggiunta con un incubo notturno la traccia di un atto a volte antico, di tanti anni fa.
Il pessimo privilegio dell’età ulteriore è proprio questo: affiorano ricordi sgradevoli alla coscienza. E bisogna sistemarli da qualche parte! Trovare un posto significa riuscire a convivere con ciò che turba l’anima, incrinando la pace raggiunta. Si è tentati di andare a chiedere perdono alle persone che hanno subito il torto, ma quando si tratti di torto grande, al pensiero della riparazione è associato il timore di un devastante ‘ingresso’ e di una messa in discussione troppo grande. Come contenere, infatti, l’ira di chi pure si lamentò di noi, senza ricevere giustizia e compenso? L’altro sarà capace di perdono sincero? Apprezzerà una richiesta di perdono? Ne sarà pago? Avvertirà il tormento che ci porta a quel gesto? Comprenderà il suo compito? che attendiamo noi ora conforto e compassione, addirittura benevolenza? Tutto lo strascico conseguente alla rievocazione dei fatti e dei torti sarà contenibile nel tempo? E’ certo che non si allargherà poi a tutte le persone che sapevano, che parteciparono e condannarono l’errore? Non vorranno ripagare con uguale moneta, infliggendo anni di sofferenza e dolore, patimenti nel corpo e nell’anima?

Ma di quel grumo che ci portiamo dentro più grave peso è dato da tutto l’amore che non abbiamo ricevuto. Se è vero che l’attitudine al dono, che abbiamo sviluppato e lungamente praticato, ha comportato sempre la sensazione viva di un compenso grande almeno quanto ciò che donavamo, scopriamo ancora con il tempo che non basta il dono, che nella relazione umana, comunque essa si qualificherà, vogliamo reciprocità, che si realizzi uno scambio di risorse, che l’altro si ricordi di noi, che sia gentile, che ci faccia sentire quella forma elementare di riconoscenza che è fatta di sorrisi e strette di mani, di abbracci e di calda accoglienza. Ma sono queste tutte cose che non possiamo chiedere a nessuno.
La gratitudine non è il ringraziamento e basta. Non è semplice riconoscenza per il bene ricevuto. Essere grati è spontanea capacità d’amore, un consentire affettuoso che proviene da uno scioglimento, un’arrendevolezza della fantasia che io chiamo grazia. Ecco, vorremmo che ci si dicesse con grazia che le cose da quella parte vanno bene e, senza dire ‘grazie!’, ci si mostrasse quella condizione di benessere raggiunto, che non è salute e omeostasi soltanto, ma vera pace.
Noi vorremo che qualcuno, tutti i qualcuno a cui abbiamo fatto dono del tempo, sentisse che noi esistiamo, che abbiamo le nostre file di continuità, che scorrono parallele e non si incontrano mai con le sue, ma che in qualche modo generano risonanze nella sfera degli affetti.
Noi vorremmo che l’altro avesse il coraggio di sentire senza timore l’insorgere di un caldo affetto nei nostri confronti e che esprimesse quel coraggio con gesti inequivocabili, senza temere di scivolare in altri improbabili sentimenti. Che sapesse distinguere in sé e riconoscere un affetto individuandone la natura disinteressata e innocente.
Vorremmo sentirci amati, per placare l’antico fermento in noi che ci fa ricordare ancora le braccia accoglienti della madre sempre presente e sollecita, fonte di vita infinita e di bene.
Nei momenti di tristezza siamo portati a dire che vorremmo un po’ d’amore, ma si tratta di espressione sbagliata, perché allude a qualcosa che viene sempre equivocato. Vorremmo soltanto avvertire nitidamente che qualcuno sente con gioia la nostra presenza, che siamo una vera presenza. Il dono più grande è sentirsi dire che siamo presenti nella vita di una persona, che ne siamo parte viva. Questo basterebbe a riempire un vuoto. Le nostre solitudini ne uscirebbero confortate dal canto silenzioso di un’anima che sa di noi.


 


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