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Cannes 67: “Adieu au langage” di Jean Luc Godard (Concorso)

Creato il 24 maggio 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Adieu au langage

Anno: 2014

Durata: 70′

Genere: Drammatico

Nazionalità: Svizzera

Regia: Jean Luc Godard

Cannes ha dato a me e ad altri cinéphile la gioia più grande: avere la possibilità di guardare nella contemporaneità di nascita (almeno per quelli della mia generazione, che hanno visto sempre in scissione temporale, ossia anni anni dopo i suoi film), la pellicola di uno dei pochi maestri del linguaggio cinematografico ancora viventi: Jean Luc Godard, che porta in concorso un’opera non competitiva, troppo alta è la scissione tra il suo sguardo-pensiero-azione (di altezze inaccessibili) e il cinema degli altri…

Adieu au langage è il canto di una presa d’atto: intellettuale, esistenziale, politica, sociale, umana ed artistica. Godard canzona l’evoluzione, tecnologica in primis, nella sua provocazione più riuscita, usando il 3D (vuoto orpello barocco del cinema del niente di oggi, che adorna il niente di luci intermittenti ad occhi ‘ciechi al vero sguardo’) come scopritore di nuove prospettive, esattamente nel senso della pittura di Monet, di cui imprime la frase rivelatrice: paint not what we see, for we see nothing, but paint that we don’t see. Quello che non vediamo, la vera essenza di senso di un passaggio di dimensioni. Bassorilievi esistenziali contemporanei, materiali ed umani (rivoluzionariamente attraversati dal nostro occhio anche in uno scavalcamento di campo, in una nuova dissolvenza incrociata), ci mettono davanti, enfatizzandola e rivelandola in maniera lampante, l’anima delle cose, l’anima dello stesso uomo, contrapposte dentro il parallelo scambio tra natura e metafora. Attraverso una destruttura visiva, sonora, intellettuale, spirituale, che è essa stessa struttura da sempre empatica a tasti percettivi che escludono il rapporto causa-effetto, andando a toccare direttamente l’ignoto, l’indefinibile, come fa la grazia, Godard spietatamente mette a nudo la lenta agonia dell’uomo, incapace ormai di vivere esperienze interiori, cancellate dalla società e in particolare dallo spettacolo. Le due coppie che si incrociano, inadatte a rinnovarsi nel linguaggio e nell’amore, apparentemente saldano i rimandi letterali, politici, filosofici, che ripercorrono i tentativi di ‘rinascita’, i tempi di ‘speranza’ nei quali l’uomo aveva ancora l’illusione di progredire nel suo percorso cieco, dentro il quale la morte sbarra la via all’oltre.

Tra Lotta Continua e l’illusione della rivoluzione, Hitler e il terrorismo mediatico totalitario della democrazia moderna, il cinema degli albori e la ricerca-creazione della rappresentazione, la necessità della filosofia, nel suo scandagliare i confini del conoscere, e l’intermittente “E’ possibile riprodurre un concetto d’Africa?” richiamo forse ad una eventuale nascita di un nuovo uomo a partire da un continente ancora da plasmare, ancora galleggiante nel caos, ancora legato alla guerra, Adieu au langage non concede molte vie di fuga: il sesso e la morte, le nostre due uniche certezze a cui aggrapparci (e l’amore?). Il cane che attraversa la natura ed arriva alla metafora, privo di nudità perché già nudo, il cui sguardo smarrito, incerto, solitario, non umano, è l’unico sguardo possibile, adesso, è la traccia che Jean Luc lascia al cinema che verrà…

Maria Cera


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