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«Car le mot, qu’on le sache, est un être vivant»

Creato il 15 novembre 2011 da Cultura Salentina

di Luca Portaluri

parole

Parlare, raccontare, descrivere, decantare, spiegare e via dialogando sono tutti verbi il cui uso ci permette di differenziarci dal mondo vegetale e dagli animali “altri” oltre all’uomo. Tutte le parole del mondo costituiscono un’essenza d’umanità: toccano qualcosa che esula dal loro semplice contenuto o dal significato che esprimono.

Spesso penso a quante tipologie di parole esistono nel mondo, almeno in questo mondo, e altrettanto spesso mi diverto a fare una personalissima lista, qualificandole con un sostantivo o un aggettivo o altre locuzioni, quasi sempre i primi che mi vengono in mente: adoro le parole “quadro”, di quegli scrittori e narratori che descrivono cosi bene un paesaggio o i contorni fisici di un personaggio di un racconto che quasi li si vede dipinti sulla carta del libro; ci sono le parole “ultime”, quelle del parente che se ne va ad altra vita, quell’ultimo afflato verbale, fiero ed indelebile per chi gli sta vicino; e ci sono le parole “prime”, come i numeri primi anche esse misteriose ma indivisibili, quelle dei bambini al loro primo vagito comunicativo, quelle forme vocalizie e onomatopeiche che ogni mamma o papà si ricamano addosso per sempre (Freud sosteneva che “il linguaggio serve non solo ad esprimere i propri pensieri ma soprattutto a comunicarli agli altri”: niente di più giusto, negli adulti come nei bambini).

Che dire poi delle parole “meraviglia”, parlate e friabili, profonde e toniche, che ti fanno rimanere inebetito e a bocca aperta quando vengono pronunciate: per esempio i racconti dei miei compianti nonni paterni nella primissima infanzia, le spiegazioni del mio mai dimenticato maestro delle elementari De Giorgi, o le lezioni di semiologia di Umberto Eco, la cultura (antica e moderna) dei quali è sempre stata  fonte di parte della mia invidia sociale. Le parole sono atti, e sono tanti atti di libertà, è la parola che fa l’uomo libero, e chi non si può esprimere è già fortemente schiavo; ma le parole sono atti anche perché producono conseguenze: apparentemente eteree e senza consistenza in realtà producono effetti  in chi le ascolta, e implicano responsabilità (almeno in teoria dovrebbero…) per chi le dice; esse hanno una forza propria che aumenta quindi con il numero di parole conosciute: ormai è riconosciuto che l’abbondanza di parole ,e la variegata gamma di significati derivanti sono strumenti del pensiero: cioè chi possiede un vocabolario mentale ampio avrà vasta anche la sua capacità critica e relazionale, e di pari passo la ricchezza del pensiero pretende  la  ricchezza del linguaggio.

Tuttavia esistono le parole F.A.S.I. (Formalmente Antipatiche Sostanzialmente Inevitabili): un vaffanculo ben assestato, irrevocabile, liberatorio fa parte per esempio di questa categoria. Perché nella vita ci si accorge presto o tardi che non si può star simpatici a tutti, e che d’altra parte non con tutte le persone, anche provandoci più volte, si riesce a dialogare serenamente, non importa se ci siano colpe o ragioni, è un dato di fatto: in certi momenti quindi non resta nient’altro da fare che usare (urlandola solo in casi estremi) una parola di queste e in ogni caso non credo ad un’esistenza completamente a F.A.S.I.ca, voi ci credete? Ci sono le parole ”soffiate”, quelle che si sussurrano all’orecchio dell’innamorato\a e che si insinuano dentro il cervello e si gonfiano come un palloncino di chewingum e rimbombano il più fragorosamente possibile, mai boato potrebbe essere più dolce…; le parole “giocattolo”, ovvero quelle da montare e smontare e ricostruire  a proprio piacimento: chi è appassionato di enigmistica sa a cosa mi riferisco; ci sono, eccome, le parole “magliesi”, quelle che conoscono solo i quindicimila e rotti cittadini della nostra città: spesso per sapere di chi si sta parlando non serve il cognome o la parentela, ma c’è bisogno solo della ngiùria, del soprannome di famiglia, e il collegamento tra volto e nome è presto fatto, anzi è la via più facile per ri-scoprire l’intero albero genealogico del/la tale in questione, comprensivo di amanti e figli mai riconosciuti…; intensamente brutte sono le parole “ombra”, quei richiami, ordini, affermazioni che oscurano il nostro cielo interno, del resto forse mai totalmente sereno al giorno d’oggi; ma assurdamente belle sono le parole “arcobaleno”, quelle che, improvvise, ti fanno vedere uno spiraglio di luce durante la pioggia di giorni tristi e uguali a se stessi, ti fanno lievitare l’anima fino a farla uscire dalla bocca con un respiro tronfio e felice; e poi c’è una categoria ampissima (forse infinita?) di parole: le “rimanenti”, che danno voce al nostro spirito, milioni di granelli di sabbia impossibili da spargere su carta bianca, o da dividere in categorie, ma  che esistono nella mente di ognuno di noi al fine di scarabocchiare, completare, far riempire di senso o svuotare ulteriormente, insomma colorare il nostro mondo fatto di cose  e persone e  rapporti e relazioni e comunicazione. Volenti o nolenti. Sempre.

P.s.1: Ezra Pound, poeta statunitense scriveva : “le PAROLE sono come foglie,come vecchie foglie brune in primavera che dove vadano non sanno, in cerca di una canzone:  Parole bianche come fiocchi di neve,ma sono gelide, parole di muschio, sulle labbra,parole di lenti ruscelli…”.

P.s.2: Emily Dickinson, dolcissima poetessa anch’essa statunitense vissuta due secoli fa invece la pensava cosi:
“a word is dead when it is said, some say. I say it just   begins to live that day” (una parola è morta quando vien detta,dicono alcuni.Io dico che comincia a vivere solo allora).

Fiera. Luminosa. Potente. Scegliete voi, il modo.  Ma ditevelo.


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