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Carceri, manicomi e potere del controllo: tra panoptismo e biopolitica

Creato il 10 febbraio 2015 da Davideciaccia @FailCaffe

Da quando ero bambina ad oggi la storia degli esclusi, dai carcerati ai folli, ha sempre ossessionato la mia riflessione personale. Prima di approdare ad una Facoltà dove avrei studiato a fondo questi temi, un sottile fil rouge sul tema aveva già attraversato parte della mia vita. Senza pretese accademiche (quelle le lascio alle discussioni in facoltà) provo a tracciare un abbozzo di cosa rappresentino oggi panoptismo e biopolitica, ovvero il controllo dei corpi da parte del potere.

Fin da quando ero piccola ho sentito parlare di prigioni e di carceri associate alla parola Panopticon. Senza capire bene cosa fosse, come si pronunciasse o come si scrivesse, già da bambina ero in grado di comprendere che si trattava di qualcosa di strettamente connesso con i principi della prigione stessa. Ma mettiamo da parte quest’intuizione. In realtà, infatti, non ebbi curiosità sufficiente per cercare di cosa si trattasse esattamente, almeno fino al mio approdo all’università. Nonostante questo, iniziai a sentirmi empatica verso la situazione delle carceri, cercando di mettere da parte ogni pregiudizio. Osservavo spettacoli di detenuti che si dedicavano al teatro, assaggiavo cibi derivanti dal lavoro dei carcerati e scoprivo quante persone fossero coinvolte nel processo di recupero dei detenuti – formatori, volontari, insegnanti, artisti, psicologi.

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Poi, un altro elemento si intrecciò nella mia riflessione: le poesie di Alda Merini. Cos’ha a che fare una poetessa morta da qualche anno con questa storia? Beh, Alda Merini è stata per anni in un manicomio dove ha subito l’elettroshock, e non si è mai ripresa. La ascoltai parlare al Festival della Letteratura di Mantova nei primi anni di Liceo, e rimasi sconvolta dalla sua storia: una poetessa straordinaria con una storia così incredibile. Iniziai a documentarmi sulla follia, sulla psichiatria, sui manicomi, come una ragazzina curiosa senza grandi strumenti in mano. E scoprii cose confuse che mi turbarono.

 Infine, ascoltai Gherardo Colombo al Salone Internazionale del Libro di Torino parlare di perdono responsabile e mi resi conto di come il nostro sistema correzionario in realtà controllasse tutto, ma non correggesse un bel niente. Di come l’idea di correzione fosse in sé sbagliata, e per giunta portasse a un peggioramento della condizione psichica dell’individuo, invece che a un miglioramento.

E oggi? Oggi collaboro con una Fondazione il cui presidente si batte per la chiusura degli OPG (ospedali psichiatrici giudiziari) e con un’associazione che – almeno dal punto di vista giornalistico – monitora e denuncia da anni la situazione delle carceri italiane. Inoltre, studio filosofia: il Panopticon non è più un segreto, e Foucault me ne ha reso un’idea straordinariamente feconda.

In tutti questi elementi ricorre, senza sosta, un elemento: dove si posiziona la società rispetto a questi emarginati? Quale esperienza fa, essa, della follia e della reclusione? La risposta a questa domanda è racchiusa, in embrione, nel Panopticon di Jeremy Bentham. Monumentale opera classica, composta da ventun lettere e successivi perfezionamenti, il Panopticon indaga la struttura per eccellenza della reclusione: una prigione circolare, dove i reclusi sono costantemente guardati da un ispettore che non può mai essere visto. In qualche modo avviene un rovesciamento del principio di visibilità del potere: in tale struttura il potere si nasconde e guarda, continuamente, chi vuole escludere. “Regola, disciplina”, direbbe Foucault.

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L’elemento più interessante è qui quello dell’ispezione. Senza pretese accademiche, credo che analizzare tale principio ci permetta di comprendere la costante osservazione cui siamo sottoposti nella società contemporanea (ma dalla società moderna in avanti, anche se con grandi cambiamenti): la novità di Bentham sta infatti tutta qui. Non solo percepire di essere visti, ma effettivamente esserlo. Un controllo costante, un assoggettamento dei corpi degli esclusi (esclusi  scelti dalla società stessa: in ogni epoca diversi, ma in fondo sempre umanità indifferenziata posta ai margini) e al tempo stesso una soggettivazione: l’esclusione del singolo lo identifica come soggetto ai margini.

Oggi le cose sono molto diverse da allora: diversi secoli sono passati, e le tecniche disciplinari nate ai tempi di Bentham si sono profondamente modificate, non solo nella loro prassi ma anche, apparentemente, nei loro scopi. Ma in realtà l’obiettivo ultimo del potere è rimasto il medesimo: il controllo disciplinare dei corpi. Oggi negli Opg e nelle carceri si vivono situazioni di degrado ed esclusione simili a quelle di secoli fa: il constatare lo stato di mancata igiene e mancata sicurezza in questi luoghi è da molti considerato l’unico passo da fare. Considerare tutto ciò come un problema non sembra necessario. Come ai tempi dei supplizi postmedievali, infatti, si crede ancora che se a patire è qualcuno considerato pericoloso per la società allora va tutto bene, non ci sono grandi problemi.

Esiste però un paradosso: anche chi si batte per i diritti degli esclusi spesso trascura di ricordare che egli si muove nello stesso spazio del potere; comunque vogliamo indagare i corpi degli esseri umani, il potere che li controlla inquadra anche le nostre politiche e le proposte di libertà e cambiamento. Ma qui il passaggio si fa filosofico: il dibattito contemporaneo sulla biopolitica, infatti, si innesta proprio in questo punto.

Non è importante qui, per me, proseguire su questa linea. Mi preme solo mostrare come un principio panoptico di secoli fa sia oggi tutt’ora in vigore e non manchi di mostrarsi in tutta la sua forza. Il nostro sistema carcerario era già stato identificato da Foucault un secolo fa, il quale spingeva a sostenere che esso si reggesse su una concezione di classe dell’internamento e dell’illegalismo: si fomenta la paura verso il popolino, usato come obiettivo delle punizioni e soggetto dell’esclusione. Stupisce che i passi avanti siano stati pochi. Ma ancora di più stupisce che pochissime persone siano a conoscenza della situazione delle carceri italiane (per fare un esempio su tutti).

Forse, come ho detto sopra, la nostra mentalità è la stessa dell’epoca: sopportiamo più volentieri una pena crudele per soggetti che vogliamo emarginare.

L’arretratezza di tale pensiero si commenta da sé.

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