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Carlo Emilio Gadda: Incontri con il prof. Aldo Vallone (1/2)

Creato il 28 marzo 2014 da Cultura Salentina

Carlo Emilio Gadda: Incontri con il prof. Aldo Vallone (1/2)

28 marzo 2014 di Augusto Benemeglio

Carlo Emilio Gadda

1. Perché Gadda?
Era il 4 dicembre 2006, quando fui ricoverato alla Clinica “Villa Pia”, a Roma, per “accertamenti” (era rimasta l’unica con posti ancora disponibili). Dalla mia biblioteca presi due libri, che avevo letto secoli prima. Uno era “I 60 racconti” di Dino Buzzati di cui in particolare m’interessava Sette piani, da cui era stato tratto il (brutto) film “Il fischio al naso” di Ugo Tognazzi. Lo volevo rileggere, forse per ragioni scaramantiche che letterarie. Come si sa il protagonista sembra non avere assolutamente nulla, si reca in quella lussuosa clinica “Sette piani” per una pura formalità, una sciocchezzuola, ma ci rimane per sempre, scendendo di piano in piano, fino alla camera mortuaria. L’altro libro era il Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda. In questo caso non sembravano sussistere particolari motivi (ma, come si vedrà, le scelte non sono mai a caso, obbediscono a qualcosa di sottile e inconscio), al di là del fatto che si tratta di un capolavoro della letteratura italiana, che mi rievocava, peraltro, diverse cose: gli anni dell’adolescenza, un film di Pietro Germi (appena discreto), e una piéce teatrale (pessima); ma, soprattutto, tornavo con la mente ad un lieto incontro di vent’anni prima con il professore Aldo Vallone, – docente di Letteratura Italiana all’Università Federico II di Napoli, – nella sua casa-biblioteca di Galatina (almeno trentamila volumi, di cui diecimila relativi al solo Dante, in tutte le salse e le lingue possibili. Ero andato a trovarlo, in quell’estate del 1988, insieme all’avvocato Felice Leopizzi, che era grande amico di Vallone, e l’aveva invitato a tenere una conferenza all’ANMI di Gallipoli sull’attualità di Dante, in cui m’ero proposto di fare il presentatore- coordinatore. Il professore aveva sul suo tavolino basso, da salotto, una copia della prima edizione in volume del Pasticciaccio (Garzanti, 1957), che stava rileggendo “per la centesima, o duecentesima volta”, come mi disse poi.
A me Gadda, il bulimico capace di bere diciotto uova di seguito, come testimoniano Ungaretti e Montale, sembrava assai distante da Dante, che lui stesso definisce un “grande pettegolo della storia”. Se mai era assimilabile, per certi aspetti fobici, al malinconico Manzoni, o al nostalgico Cervantes. Così dissi: “Professore, perché Gadda, e perché proprio quer pasticciaccio brutto de via Merulana?”

2. Il pasticciaccio
“Perché in quel libro c’è la vita, tutta la vita. Il brutto e il bello. Il nobile e l’osceno. L’intelligenza e la stupidità. Il dissennato e il ragionevole. La furberia e il candore. Tutto ciò che rende inaffidabile l’esistenza, ma anche nutre il piacere di vivere. La vita è un groviglio, uno “gnommero”, un pasticciaccio, appunto, ma non necessariamente immangiabile. Finisce sempre male, in tragedia, ma non si deve dimenticare quale commedia sappia essere se la si guarda da un punto di vista opposto. Solo uno come Gadda, un nevrotico con la mania della cronaca nera, uno che è allo stesso tempo ingegnere, filosofo, moralista, saggista, e anche psicanalista, uno scrittore assolutamente unico nel panorama di questo ventesimo secolo, forse il più grande dei nostri, anche se oggi lo leggono due o trecento persone in tutto, poteva scrivere il Pasticciaccio.
Per farlo bisognava innanzi tutto essere nevrotici ossessivi, con tutte le fobie, i furori, le difficoltà a vivere con gli “altri” (è questo il “vero inferno”, sosteneva Gadda), con una angoscia e un disperazione che non hanno mai fine; bisognava avere, “chiusi dentro il ventre”, come il Gonzalo della Cognizione del dolore, I sette peccati capitali, bisognava avere una deriva malinconica e respirare liricamente il male di vivere, dopo essere stati magari romantici presi a calci nel sedere dal destino e dunque dalla realtà, come afferma lui stesso.

3. Ciò che rimane della guerra: la merda
Ma cos’è la realtà?
“Una scarica di mitra è realtà, mi va bene, certo. Ma io chiedo al romanzo che dietro questi due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto… Il fatto in sé non è che il morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia”.
Questo residuo fecale della storia, confesso, che ora mi turba un po’ e mi fa pensare molto alla mia situazione “colonica” personale, ma anche al primo Gadda, sottotenente degli Alpini, acceso interventista, che sperimenta lo sfacelo italico nel suo “Giornale di guerra e prigionia”. Il tenente Gadda che guarda intorno a sé ciò che rimane della guerra: la merda. “Merde d’ogni qualità e consistenza, di tutte le dimensioni, forme, colori”, merde sparse nei dintorni immediate degli accampamenti: gialle, nere, cenere, scure, solide, ecc…”.

4. Era più tedesco che italiano
“Vede, – mi fa il professore Vallone -, per mentalità Gadda era più tedesco che italiano. Il pasticcio e il disordine lo annientavano. Dentro di lui c’erano ordine, esattezza, disciplina, geometria, ma anche Pasteur, Marco Polo, Livingstone, Stanley; c’erano Leibniz, Kant e Spinoza, ma anche il Belli, Dossi, Lucini, e il Parini, il Manzoni, il Porta, c’erano le aperture europee dei suoi interessi culturali, da Cervantese a Swift, da Proust a Gide. Celine, soprattutto. Ma direi anche Dickens e Dostoevskij. Poi Joyce, Svevo e la lezione di Freud sulla psiche umana, che Gadda studiò come scienza (“Uomini normali non ce ne sono: guardate alle radici e vedrete che pasticcio hanno in testa… La psicanalisi arriva alle radici dell’esistenza. Forse non le migliora, ma fa vedere cosa c’è sotto. Non è un bello spettacolo, ma questa è la vita”), quella del materialista Marx sull’interesse, e quella di Nietzsche sulla precarietà della verità. Il romanziere, per lui, era come investigatore, un uomo che fa il terzo grado ai personaggi per farli confessare, uno che mette in ordine lo “gnommero” caotico della realtà dell’esistenza, uno che sospetta il peggio in ogni evento e in ogni persona. Tanto a pensare il peggio – direbbe Andreotti – ci si azzecca quasi sempre. Ma poi, alla fine, l’ispettore Gadda-Ingravallo del “pasticciaccio” quasi si pente di aver scoperto la verità, la verità del cosiddetto uomo normale che è “un groppo o gomitolo, o groviglio o garbuglio di indecifrate nevrosi, talmente inscatolate le une dentro le altre da dar coagulo finalmente d’un ciottolo, d’un cervello infrangibile: sasso-cervello o sasso idolo”.

5. Gadda è un chirurgo
Sì, d’accordo, professore, uomo di vasta cultura, grande, grandissimo letterato e maestro di lingua, ma c’è pure chi dice che Gadda non è un narratore, e tanto meno un romanziere. E c’è anche chi l’accusa di eccessi tecnicistici, di intellettualismo fastidioso, di arduo preziosismo manieristico.
“Sono stupidaggini. Lui stesso rispose a questa accusa con una battuta, asserendo che il suo punto debole, per riuscire narratore, era quello di mancare di cupidità nel conoscere i fatti altrui, ovvero pettegolezzi. E per quanto riguarda la sua sovrana tecnica, ricordo che la Bibbia stessa non la ignora, e che comunque la tecnica non annulla la capacità magica dell’arte che crea e ricrea verità fondamentali. Gadda ha creato un suo modo di fare il romanzo, è un chirurgo che accosta e non sutura le parti, ma i suoi romanzi stanno bene in piedi, anche se non corrono spediti. Anzi fanno vortice come se fossero attratti dal profondo territorio oscuro dal quale Gadda ha inviato messaggi violenti e straripanti. Ogni pagina è un racconto, e i suoi romanzi sono racconti di racconti, somma che diventa moltiplicazione in una struttura centrifugata. Per questa sua prosa del molteplice, che affatica le meningi del lettore medio, oltreché per le asperità della lingua e la proliferazione dei dettagli, è destinato a non diventare mai un narratore popolare, anche se lui ribatte che è una superstizione romantica il darci a credere che la lingua nasca o debba nascere soltanto dal popolo. “Nasce dal popolo come nasce anche dai cavalli, che con il loro verso ci hanno suggerito il verbo nitrire, e i cani guaiolare o uggiolare… La lingua, specchio del totale essere, o del totale pensiero, viene da una cospirazione di forze, intellettive o spontanee, razionali o istintive, che promanano da tutta la universa vita della società e dai talora urgenti e angosciosi moti e interessi della stessa società… Le parole debbono essere feconde, non quelle sterili dei dannunziani o di scrittori smidollati come sono quasi sempre i narratori corrivi che fanno mercato della loro scrittura”.

continua>>

 

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