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Carlo Fruttero: la mia cittadella del cinema

Creato il 03 dicembre 2011 da Pim

Carlo Fruttero. La mia cittadella del cinemaJPGDopo Franco Lucentini non poteva mancare Carlo Fruttero. Quest’articolo venne pubblicato sul numero 5 de La Rivista del Cinema, pubblicazione del Museo Nazionale del Cinema di Torino, nel giugno 2003. Mi è caro il riferimento alla sala all’aperto che funzionava nelle sere estive degli anni Cinquanta al Parco Michelotti perché la frequentavano i miei genitori. A detta di mamma, papà era romantico come un traliccio dell'Enel: al massimo la portava a vedere Ben Hur o qualche Maciste. Già tanto se le offriva il gelato...

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Carlo Fruttero. La mia cittadella del cinema
“Come molti, credo, non so immaginare la mia vita senza il cinema. Da mero spettatore, s'intende, perché non sono mai stato tentato dall'idea di lavorarci; troppa gente di mezzo, troppe parole, troppa volubilità. Troppa Roma, anche. Ma qualsiasi iniziativa a favore del cinema ha il mio voto favorevole, ancorché ininfluente, e questa Cittadella del Cinema che si vorrebbe costruire attorno al Museo della Mole mi pare una buona idea, già dall'insegna. Cosa metterci dentro? Ci penseranno gli addetti, gli esperti, ma per parte mia, mi piacerebbe contenesse - filologicamente ricostruito - uno di quei piccoli cinema di terza visione che mi procuravano ore e ore (non temo la parola) di felicità. Sedili di legno scrostati e sbatacchianti, cicche e cartacce sul linoleum logoro, il raggio del proiettore sempre offuscato dal fumo di sigarette vendute a pacchetti di cinque. Sonoro pessimo, urla e fischi quando la pellicola si rompeva, scricchiolio continuo di noccioline, e là, sul vecchio lenzuolo, l'incantamento. Di Pastrone e Cabiria e Za-la-Mort ho soltanto sentito parlare dai miei genitori. Io sono arrivato dopo il muto, quando la scuola ci portava ad applaudire i film patriottici o di propaganda fascista (che andava bene lo stesso, era pur sempre cinema). Un sei in latino, un sette in storia e geografia valevano Capitani coraggiosi o La primula rossa nei locali più vellutati del centro. Ma venute l'adolescenza e una certa indipendenza, nulla poteva impedirci di tornare a vedere quattordici volte il seno nudo di Clara Calamai nella Cena delle beffe. Era anche un modo di conoscere Torino e le sue remote periferie, percorse su quei piccoli tram rossi lungo viali interminabili.

La guerra portò qualche film tedesco, o meglio germanico (ne ricordo uno, Sei ore di permesso, chissà com'era), e però anche Quattro passi tra le nuvole, anche Ossessione. E nei cinemini di barriere bombardate dove, magari, ripetevano stancamente Luciano Serra pilota e Squadrone bianco, capitava che per una sera miracolosa, vuotando i cassetti, tirassero fuori Roberta o Scarface con Paul Muni. Eventi che tacitavano gloriosamente il suono tetro delle sirene dell'allarme aereo. L’angelo azzurro lo vidi soltanto dall'estate del 1945, al Cinema Corso, e da quell'immagine della candida coscia di Marlene tagliata dal nastro nero del reggicalze mi sarei lasciato trascinare nel peccato e nella abiezione come il povero professor Unrath.

Fu in quei pochi anni una vera orgia di cinema, i cineclub nascevano qua e là effimeri e gremitissimi, le ragazze ci correvano come alle palestre di oggi e la galanteria doveva passare obbligatoriamente per lo "specifico filmico", ti conveniva mostrare venerazione illimitata per Dziga Vertov se volevi spingerti oltre una sbrigativa stretta di mano. Andavamo a vedere due film al giorno e ne discutevamo dopo mezzanotte sulle panchine di corsi, giardini, verdi piazzette. Una febbre, una passione paragonabile soltanto a quella per la lettura. Alcuni poi si trasferirono a Roma per tentare sul serio la carriera. Altri si iscrissero al Centro Sperimentale, mitica scuola del cinema. C'era chi conosceva di seconda mano Antonioni, chi Fellini, chi Blasetti, e sperava di entrare in quei "giri" in cui si scrivevano sceneggiature, ci si offriva come garzone tuttofare nella bolgia delle produzioni. Alcuni riuscirono, molti dirottavano verso la radio, la televisione, il teatro.

Ma quel che si suol chiamare "fermento" c'era davvero e contagiava un po' tutti. E di tutti i cinema di quel tempo povero e felice che compongono la mia personale cittadella, mi è cara sommamente la sala all'aperto che funzionava d'estate al Parco Michelotti sotto i grandi platani e dove una volta un mio amico più vecchio e sfizioso di me mi portò non a vedere un film ma a sentire un cantante oramai canuto, Gino Pranzi, in una delle sue ultime esibizioni. Era stato lui a lanciare la canzone "Mamma, mormora la bambina...", e la cantava a pieni polmoni, senza la benché minima ironia, con gesti e tonalità altamente drammatiche, come se tutto fosse ancora fermo agli anni Venti. "Mamma tu compri soltanto balocchi per teee...!". Quando nacque, anni e anni dopo, la mia prima bambina non le feci certo mancare i balocchi. E per me neppure un dopobarba”.

(A mamma, che se non la portavo io a vedere Antonioni…)


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