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Carmelo Bene a dieci anni dalla morte

Creato il 16 marzo 2012 da Cultura Salentina

Carmelo Bene a dieci anni dalla morte
1.L’estremo saluto alla sua gente
Dieci anni fa, il 16 marzo 2002, moriva Carmelo Bene, attore, scrittore, regista teatrale e cinematografico, portatore di incandescenti “folgorazioni”, nuove teorie artistiche, ultimo genio creativo, che recitava allo stesso modo nelle cantine, sulle torri, nei palazzetti dello Sport e tra gli ori e i velluti della Scala, come una Callas travestita da clown. Fatemi il funerale da vivo, aveva chiesto ai suoi conterranei salentini un anno prima di morire. Era l’estate del 2001, ed era tornato in scena solo per loro, a Otranto, sua patria elettiva, dove aveva un mirabile appartamento che usava per lo più come cella di autosegregazione e dove forse, in cuor suo, sperava di morire, col viso rivolto ad oriente, per porre fine a quel simulacro di sé stesso che era in “un coma perpetuo e molto costoso”, come amava ripetere ai pochi amici che ancora aveva, nonostante il suo proverbiale carattareccio. Uno di questi era Florio Santini, che lo invitò nella sua casa “orientaleggiante” di Casamassella, e mi raccontò di averlo trovato gonfio come un otre, d’aspetto malatissimo, ma non domo. Dopo di me – gli disse – non ci sarà più teatro. Erano tutti segni, presagi del suo addio. Era, è stato, quello dell’estate 2001, l’estremo saluto alla sua gente dell’iper freudiano Amleto-Bene. Recitò alcuni brani dannunziani de “La figlia di Jorio”, ipnotizzando letteralmente il pubblico e ancora una volta si compì il miracolo, “l’evento”. Eravamo tutti in estasi di fronte al genio.

2. Genio salentino che sopravvisse a se stesso
Un genio che era sopravvissuto (a detta dei medici) a una serie impressionante di malattie da far fuori una mandria di tori: infarti, tumori, cirrosi, insonnie, emicranie, fegato che fa acqua e pipì he fa sangue, capace da ultimo di scrivere un poema, “il mal de’ fiori”, che frana nell’incontinenza babelica, in cui angeli e demoni sono tornati a confondersi e a somigliarsi come all’origine, un poema arduo e oscuro che Zanzotto definì “poesia stroboscopica, puro magma linguistico” e altri meno benevoli di lui “una vera e propria sfida oltraggiosa a tutta la poesia del novecento italiano”; per contro, c’è chi parlato di pastiche- capolavoro, altri, infine, parlano semplicemente di “virtuosismo linguistico”, atteso che ci sono versi in almeno una mezza dozzina di lingue e dialetti, salentino compreso. “Mi è costato più fatica del provenzale”, disse Carmelo, “ma sono forse le pagine più belle”. Carmelo Bene ottenne il premio della Fondazione Schlesinger, nel nome di Eugenio Montale, come “poeta dell’impossibile”. Ma ben altro avrebbe forse meritato, (ad esempio il Nobel per la letteratura sarebbe stato assai più pertinente darlo a lui che non a Fo) questo poeta della scena, costruttore di immagini-cristallo, pettinatore di comete, nostalgico dell’impossibile che aveva sete d’infinito, questo sensazionale istrione clown esibizionista folle iconoclasta sbadato maleducato che non ebbe mai rispetto per nulla e nessuno, che ha vituperato, massacrato, stuprato, dissacrato i testi classici… ma allo stesso tempo li ha resi così vitali e unici! Majakowsky, Byron, Dante, Leopardi, Manzoni, Campana, Dannunzio grazie a lui son diventati concerti di voce e anima, occasioni preziose per scoprire che cos’è veramente la poesia.. Ma Carmelo Bene si è sempre ben guardato … dall’ingraziarsi la gente, anzi spesso risultava decisamente antipatico e irritante con il suo atteggiamento da padreterno, con quegli occhi da zombi, con quel suo fare da imperatore assonnato o da pagliaccio vizioso.

Carmelo Bene a dieci anni dalla morte

3. La funzione di attore risucchiava completamente l’uomo

“Era folle, completamente pacciu”, – mi disse Ugo Tapparini, il pittore leccese dalle muse… ciccione che anticipò (a sua detta) Botero e che fu suo compagno di cordata alla fine degli anni cinquanta.”Era impossibile stargli dietro. La fortuna sua è stata quella di conoscere Lidya Mancinelli, l’ attrice romana, che era piena di soldi e lo sposò…altrimenti il suo talento sai dove se lo poteva ficcare”. Di aneddoti al riguardo i suoi amici di Campi, compagni di scuola, compagni di giuochi e di marachelle, che andarono a trovarlo a Roma apposta, me ne hanno raccontati tanti, da scriverci su un romanzo. Ma non dobbiamo sorprenderci di ciò, perché, come sovente capita ai geni e come osservò Cesare Garboli “la funzione dell’attore in lui risucchiava completamente l’uomo, gli rosicchiava ogni margine di esistenza senza che per questo l’attore diventasse una maschera, la sua maschera”. La maschera di un genio che partì da Campi Salentina non ancora diciassettenne e solo due anni dopo fece gridare al miracolo, interpretando, a Venezia, il Caligola di Camus in modo davvero stupefacente. Poi s’immerse in Nietzsche, Schuman, cavalcò Byron e seminò spaventi nel teatro ufficiale della capitale. E con una velocità diabolica scalò tutte le vette possibili, attore, regista, scrittore, cineasta, poeta, anticipò tutto e tutti. Lui cominciava sempre dove gli “altri” di solito finiscono. Regista dello spazio, anticipava la coscienza del vuoto, ora con gesti ieratici, ora facendo il clown, ora lo zombi vivente, ora medium travestita da attore, che combatteva “contro un vuoto fondato sull’illusione storicistica e sull’illusione formalistica”.

4. Sulle torri di Bologna con Dante e lo studente Peppe Serravezza
Un genio – diceva di sè stesso – che era stato cacciato dal paradiso; un genio che aveva ingurgitato tutto, in quantità industriale, alcol, fumo, donne e farmaci, che aveva fatto la rivoluzione degli anni sessanta-settanta o protestato a modo suo per la strage della stazione di Bologna (Peppe Serravezza, attuale Presidente della Lega Provinciale contro i Tumori di Lecce e allora studente in medicina, se lo ricorda arrampicato sulla torre degli Asinelli che recitava l’Ulisse di Dante alla sua maniera, sotto ipnosi). Era uno dei pochi italiani di cultura europea, osannato a Parigi, amato da Klossowsky e da Eduardo (“Veniva a vedermi in cantina, appollaiato come un corvo su uno dei tanti banchi”, ricorda Carmelo), che fu magnificato dai semiologi, circondato da donne bellissime, ma che ormai, da molti anni, sembrava inevitabilmente tramontato, declinato, out”.

5. Mi sento un ulivo sradicato che cammina
Quel genio triturato dal suo stesso genio, che sembrava perduto, “portato via su galassie tutte sue”, tornò a calcare le scene come un sopravvissuto a sé stesso,al suo mito, alla sua gloria, mostrandosi negli ultimi tempi molto più avvicinabile che non in passato. Quell’estate del 2001 ci ricevette nel suo appartamento di Otranto, in una vestaglia da camera finemente ricamata, e con l’aria di un Eliogabalo attempato. “Ho la morte addosso, ma non ne ho affatto paura. Ho detto agli amici salentini che è inutile aspettare. Vorrei mi faceste i funerali da vivo, qui ad Otranto. Non c’è bisogno di consegnare un cadavere in pubblico per meritare la dimenticanza.” Ma poi ci disse che spendeva un miliardo all’anno in medici e medicine, perché viveva la contraddizione di “essere in un coma perpetuo e molto costoso”. Del resto, disse candidamente che emotivamente era come un bambino: “Io non ho coscienza. Sono fuori dalla coscienza”.. Mi sento un ulivo sradicato che cammina

6. I canti orfici di Campana
Dopo il beffardo S:A:D.E: del ’72, il Riccardo III del ’77 (con sole donne sulla scena, tranne lui), l’Otello del ’79 (Un bianco truccato di nero), Il Macbeth swll’83, con una benda insanguinata intorno al polso, l’inquietante La cena delle beffe dell’89, era riapparso sulle scene dopo aver subito una serie infinita di interventi operatori, sempre uguale a se stesso e sempre diverso ed eccolo ancora stupire tutti con un altro prodigio teatrale, un altro evento, un miracolo che si ripete puntuale, nonostante tutto, come il sangue di San Gennaro: questa volta fa rinascere addirittura “Adelchi” che sembrava morto per sempre, lo fa rinascere nella fluttuante camicia bianca, lo fa riapparire nella scarna dimensione della parola ed ecco, finalmente, – dopo generazioni e generazioni di brutta scuola che li ha resi insentibili, rivalutati, rinati, o forse nati per la prima volta – i versi del Manzoni, che hanno respiro, che ci fanno emozionare. Chi l’avrebbe mai detto! Poi è la volta dei Canti Orfici di Campana, con il pubblico quasi costretto all’applauso dionisiaco tra urla di raccapriccio e di festa.

7. La Puglia è terra nomade
Infine (siamo in piena guerra Kosovo e Puglia Regione di Frontiera) eccolo al Piccinni di Bari con Leopardi a far delirare i corregionali: “Vengo con una spada di fuoco. Non per incendiare il teatro, ma per dire che il suo destino è quello di un Teatro fiammeggiante di futuro” (aveva detto in precedenza che il teatro era morto, n.d.r.), “così come il futuro delle molte Puglie e dei molti destini… Ma da una terra da sempre promessa ed espropriata da se a sé stessa, da questo altrove non ti puoi illudere di evadere…. Non si può abbandonare una Patria che consiste appunto in questa sua irrinunciabile eternità di trapianto…Io mi sento un ulivo sradicato che cammina …La Puglia è terra nomade, terra che si muove per vocazione, per tradizione”

8. “Io sono la parola che si fa canto”
E’ vero che il genio non è raziocinio e anzi “se non si pensa” – come disse Flaiano – “che il teatro debba essere anche una dichiarazione di follia” è inutile andare a vedere gli spettacoli di Bene che ti faranno al limite anche indignare, ma hanno qualcosa di impensabile, di magico, di affascinante. Il suo teatro non ha mai un punto di riferimento. Lo spettatore viene proiettato nel vuoto, gli viene a mancare di colpo il suolo della realtà su cui appoggiare i piedi. E’ una vertigine, il rito di uno schizoide“, e lo spettatore si chiede ma dove vuole arrivare? E lui, di rimando: “Non ci sono punti di arrivo. Non mi interessa dove arriva un uomo. Un uomo puo’ arrivare anche alla follia. Io non voglio più vedere nulla, basta questa fine della luce, questa fine della visione e poi questo farsi grattar via la pelle, questo farsi strappar via il volto, la maschera… non e’ che poi sotto la maschera ci sia il volto: no; il volto e’, ovviamente, una maschera infinita, composta da strati diversi di maschere strati diversi della stessa maschera…Io sono la parola che si fa canto o il canto che si fa parola. Io sono la storia inesistente, il filo aracneo assai tenue che lega fra di loro eroi erranti ed erratici sino alla meta assurda del loro originarsi…”
Il suo testo non significava nulla, ma significava… altrove.
“Abbiamo un genio, d’accordo”, – disse di lui Oreste del Buono – “ma che ce ne facciamo? …Un genio è inutile, ingombrante, preoccupante nella nostra stupida società, magari dannoso… Erano anni che non ce n’erano, bisogna eliminarlo…è un sopravvissuto….Ma da dove viene Carmelo? Dalla Puglia, anzi dal Salento.

Carmelo Bene a dieci anni dalla morte

9. Io sono postumo a me stesso
Il rapporto con il “suo” Salento è stato quasi sempre conflittuale, talora quasi sprezzante: “Devo dire che sono qui nel mio paese, Campi, dopo tanti anni, ma che nonostante tutti gli sforzi non capisco una sola parola della lingua che parlate”. La sua, come ha osservato acutamente Goffredo Fofi, è la storia di un fallimento, anzi di diversi fallimenti: Caligola, l’attrazione del nichilismo e della storia; Majakovskij, l’idea della Rivoluzione e della poesia; Pinocchio, o dell’impossibilità di diventare uomini, cioè eroi. Ma anche i suoi eroi preferiti, Achille e Amleto, rappresentano un fallimento. Rimane la solitudine ed è quella che attira l’artista, la solitudine della voce che si fa canto e poesia, o nostalgia, o ricordo di canto e di poesia.

10. La speranza è nell’asino che vola
Che cosa rimane oltre la solitudine? “Io più gente avevo intorno, più ho coltivato la mia solitudine…. Il mio non è lavoro, ma un lavorìo. Che è l’autodistruzione e cioè il contrario del narcisismo. Io levo dalla scena, non metto in scena. Una volta detestavo il prossimo quanto me stesso, adesso lo detesto più di me stesso… Non c’è nessuna speranza per l’umanità…Io sono postumo a me stesso, avviato altrove”.  Ma poi scopri, in realtà, che c’era per lui una possibile speranza di salvezza. Ed era riposta nell’ “asino che vola”, nell’Idiota Puro, ossia in San Giuseppe da Copertino – anima meridionale barocca, da lui esaltata. Nella “sua divina stupidità”, disse Bene, “si può realizzare un progetto di santità che vada oltre la sconfitta della storia e della vita”.

Roma, 12 marzo 2012 Augusto Benemeglio

Gallipoli, 2004


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