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Caro Daily Telegraph, ti spiego perché Baggio non me lo dovevi toccare

Creato il 05 agosto 2015 da Redatagli
Caro Daily Telegraph, ti spiego perché Baggio non me lo dovevi toccare

Come alcuni di voi avranno letto, in questi giorni il Daily Telegraph ha pubblicato una curiosa lista dei venti giocatori più sopravvalutati della storia del football.
Nessun giro di parole: questa lista colpisce noi calciofili d’Italia diretti al cuore. E non mi riferisco né al primo posto di Mario Balotelli – anche se sarebbe da discutere con chi ha stilato la classifica come si possa giudicare così nettamente un ragazzo la cui carriera professionistica conta meno di 10 anni di attività – né il quarto di Zlatan Ibrahimovic, che pure deve la sua grandezza agli anni di Torino e soprattutto Milano.
In una lista in cui fanno capolino il brasiliano Denilson, il colombiano Asprilla, lo spagnolo Sergio Ramos e l’ex Napoli Lavezzi, al dodicesimo posto spunta un nome caro a ogni tifoso italiano che abbia un’età superiore ai 25 anni: Roberto Baggio.

Come si possa accomunare il nome di Baggio non solo a una lista simile, ma a un concetto che esprima qualcosa meno della perfezione calcistica è un fatto razionalmente non comprensibile. Pur conscio della difficoltà nell’instaurare comparazioni tra epoche (sportive) differenti non esito a dire che Baggio (Roberto) è il miglior calciatore della storia del calcio italiano e forse l’unico vero fuoriclasse apparentabile alla nobile stirpe dei Messi, dei Maradona e dei Ronaldo (Luis Nazario e Cristiano) del calcio nostrano, almeno nei tempi moderni (dagli anni Ottanta in poi).
La motivazione addotta dal quotidiano inglese si riferisce ai fallimenti internazionali del Divin Codino, reo di non aver consegnato al suo paese la Coppa del Mondo 1994 e, anzi, di aver calciato alto uno dei rigori di quella maledettissima finale americana (se volete farvi del male, eccolo qui).

La tesi, come si sual dire, non sta in piedi. Primo perché dallo sbagliare un rigore all’essere dei sopravvalutati passa la stessa differenza che c’è tra il non riuscire a scalare l’Everest e definirsi zoppi. Secondo, perché il calcio e lo sport attuali hanno abituato il pubblico all’idea che solo i numeri, i record e le vittorie siano importanti e che l’unico modo per raccontare chi arriva secondo sia definirlo come l’ultimo, in ordine cronologico, degli sconfitti.
C’è una narrazione superomistica attorno ai cosiddetti vincenti, trainata dagli sponsor che focalizzano le proprie attenzioni sulle esperienze dei singoli atleti - vere e proprie aziende - francamente insostenibile: lo sport, lasciatemelo dire, è molto altro.

Non che i numeri di Baggio siano modesti: i 205 gol in Serie A sono un dato eccellente che diventa straordinario quando si considera la mole di infortuni che ha scandito la carriera dell’ex giocatore, tra le altre, di Juventus, Milan e Inter.
Lo scarsissimo timing con cui si trasferiva da una squadra all’altra ha fatto sì che in qualche caso la squadra da lui abbandonata conoscesse il meglio nella stagione successiva: celebre l’addio alla prima Juve di Lippi che con Baggio (infortunato) vinse il primo scudetto, ma che, dopo la sua cessione, sollevò la Champions League contro l’Ajax.

La carriera di Baggio conosce, a mio avviso, la sua personalissima sliding doors nella primavera del 1995, quando la società torinese decide di non prolungare il contratto al 28enne di Caldogno e di puntare sul giovane Del Piero. Fino a quel momento, la sua storia juventina ha viaggiato a cifre insostenibili per il calcio italiano: 141 presenze e 78 gol sono un traguardo ragguardevole per qualsiasi centravanti, figuriamoci per uno che di mestiere giostra su tutto il fronte d’attacco.
Le successive esperienze raccontano di incomprensioni con molti allenatori (Sacchi, Tabarez, Lippi e Capello) e della fortuna ottenuta in realtà calcistiche di secondo piano del nord Italia (Bologna e Brescia).
Baggio vive la bellezza del piccolo calcio di provincia – che poi tanto piccolo, se pensiamo al Bologna di fine anni Novanta o al Brescia di Pirlo, Hubner e Baggio, non era.
Una storia che oggi non riusciremmo mai a raccontare, con i fantapetrodollari a convertire i nostri campioni all’esperienza di vita in America o in Australia.

(Ma come?! Come colonna sonora, tra tutte le possibili,
niente di meglio che
The winner takes it all degli Abba?
Ma allora lo fate apposta!)

Il finale di carriera di Baggio – e non parlo degli ultimi mesi, ma degli ultimi anni – è stato magnifico, il migliore possibile, forse gli ha costruito una sorta di immunità dal contro-tifo che l’aver giocato con le maglie di Fiorentina, Juventus, Milan e Inter gli avrebbe potuto garantire, ma certamente non gli ha regalato i trofei che avrebbe meritato.
Sacchi ama spesso dire che quasi tutti i grandi giocatori possiedono delle controindicazioni e ogni volta il riferimento a Baggio pare evidente.
Baggio, forse, aveva delle controindicazioni, ma queste lo hanno reso ancora più bello, più vicino e lontano allo stesso tempo, per le sue debolezze fisiche (se solo quelle ginocchia non fossero state di cristallo) e per la sua tecnica inarrivabile, e d’altronde hanno reso possibile proprio quel finale.
Senza quel carattere di non facile interpretazione agli occhi dei suoi allenatori, senza quella difficile collocazione tattica – Baggio ha osato essere un trequartista/seconda punta negli anni del 4-4-2 sacchiano! -, senza gli infortuni che ne hanno ostacolato buona parte della carriera, Baggio non sarebbe mai stato Baggio.

Baggio era il migliore della sua generazione e di quella successiva. La sua rivalità con Del Piero ha scandito il Mondiale di Francia ’98, la sua mancata convocazione ai mondiali asiatici del 2002 ha attirato su Trapattoni le ire di ogni tifoso italiano. Baggio veniva dall’ennesimo infortunio e da un recupero lampo e aveva dimostrato sul campo di meritare il suo quarto mondiale.

Attorno alla Nazionale ruota gran parte della carriera di Baggio. Al Mondiale italiano del 1990 si fa spazio il posto tra i grandi del calcio mondiale, anche se è oscurato dalla parabola di Schillaci. Nel quadriennio successivo gioca un calcio inarrivabile.
Alla Juve vince una Coppa Uefa ed è tra coloro che aiutano il club bianconero nella risalita verso il calcio che conta dopo i fasti degli anni Ottanta e un post Platini che, invece, ha lasciato a desiderare.
Il Mondiale del 1994 lo consacra come il miglior giocatore del pianeta (e vi arriva da Pallone d’Oro in carica), ma quel rigore sbagliato nella finale di Pasadena gli toglie il secondo riconoscimento consecutivo della rivista France Football (andrà al bulgaro Stoichkov).

Baggio, in maniera meno drammatica, ricorda Pantani: una carriera mai completamente passata dalla potenza all’atto. Come il Pirata romagnolo, Baggio era un talento puro – se vi state ricordando un Baggio lento e fragile, fate attenzione: quello era il Baggio di Brescia, a fine carriera e con le ginocchia che non farebbero invidia ai vostri nonni.
Il Baggio di Firenze e Torino era forte, rapido ed esplosivo – un po’ anarchico e in possesso di un dribbling folle e straordinario allo stesso tempo.
Come Pantani, la sua incapacità ad accettare un sistema di regole che, ingiustamente o meno (non è questo il punto), gli impediva di esprimersi come avrebbe potuto – la squalifica dal Giro 1999 per l’allora maglia Rosa e la convivenza tattica con molti allenatori – lo ha penalizzato impoverendo una palmares che altrimenti avrebbe poco da invidiare ai fenomeni del calcio attuale.

E alla fine si ritorna al punto iniziale, a una carriera che, a livello di trofei, non è stata all’altezza delle premesse e delle aspettative. È davvero questo l’unica pietra di paragone che vogliamo adottare per raccontare lo sport?
La mia sensazione è che, così facendo, la rincorsa ai big numbers e alla certezza del dato numerico (specie se a effetto), per quanto indicativa e importante, smarrisca il senso più profondo della competizione sportiva che comprende i numeri e non li subisce.
Mettere in dubbio il dieci dalla storia più tortuosa e travagliata del calcio italiano è un delitto per chi ama questo sport che non è fatto di soli numeri; e benché quelli di Baggio siano straordinari, il Divin Codino ha raccontato molto altro a ogni appassionato di calcio e di sport.

Maurizio Riguzzi
@twitTagli 


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