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Caro Diario, Eccoti le Mie Stardust Memories

Creato il 10 dicembre 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Mario Turco10 dicembre 2013 

La cosa che mi piace fare più di tutte è guardare film! L’unica forma con cui permetto ancora alla vita di avvicinarsi a me è quella cinematografica. La realtà mi annoia: l’uomo politico continua a fare gli stessi sbagli da millenni, l’uomo sociale continua a imbozzolarsi in un egotismo fatto di tela insensibile, l’uomo comune spreca il suo esiguo tempo in un chiacchiericcio malevolo. Il massimo della partecipazione che riesco a concedere a una questione arriva alle due ore medie di un’opera cinematografica. Non riesco più a interessarmi a nessuno se non me lo si presenta in un campo/controcampo, seguendolo con una camera a mano o una steadycam, tagliandolo in un primissimo piano, significandolo insomma con i modi della tecnica cinematografica. Da quando il cinema digitale ha raggiunto l’onnipotenza semantica attuale, fatta da un’ormai perfetta compenetrazione tra immagine (ricreabile ex-novo ma soprattutto modificabile), suono e scrittura, non esiste più questione che non possa venire compendiata dalla sua semiotica. Il cinema può dire tutto anche se ancora non l’ha fatto. Il cinema può anche creare tutto, come uno dei tanti Dèi monoteisti, ma questa è un’altra riflessione. Il curioso caso dello slittamento metonimico da parte di tanto pubblico (e questo è comprensibile) e tanta critica (e questo è meno comprensibile) dell’identità del cinema narrativo con quello tout-court ha fatto sì che ogni qual volta un autore esca dal tracciato di fabula/intreccio venga tacciato di snobistica inafferrabilità o di narcisistico ripiegamento su sé stesso.

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Al contrario vi sono molti casi letterari e cinematografici in cui lo schermo di un racconto oggettivo nasconde la più faziosa delle visioni. Tale processo può sfociare nella fidelizzazione più bieca come nella più innocua persuasione ma è pur sempre una comoda soluzione. È quando ci si espone in prima persona nelle proprie opere, quando si cancella lo sfondo affascinante del ritmo cinematografico a favore di una gassosa nube di riflessioni spesso non logiche né compiute che si ricerca in maniera forse fastidiosa ma incisiva la presa di pensiero dello spettatore. Alcuni registi più di altri, che possiedono un’irrefutabile vena di auto-compiacimento, si prestano con più decisione a questa modalità di cinema. Qui mi soffermerò in particolare su due dei più rispettati e bistrattati: Woody Allen e Nanni Moretti. Ed in particolare su due film che si sviluppano attorno al tema autobiografico: Stardust Memories (1980) di Allen e Caro diario (1994) di Moretti. Attorno all’autobiografia e non dentro: entrambi i registi non sono interessati all’indicizzazione della loro vita né a un momentaneo fissaggio su pellicola. Essi partono dalle loro esperienze, dai frammenti di un successo arriso ad entrambi sin da giovani, da un congenito pessimismo filosofico che si trovano a dover affrontare nel periodo di stasi creativa ed esistenziale in cui incorrono ad una pressoché simile età.

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Anche Woody Allen era infatti “uno splendido quarantenne” quando girò il suo film più personale e immeritamente dileggiato come un pallido e troppo rispettoso omaggio ai suoi maestri Bergman e Fellini. In confronto a Moretti che in Caro diario abbandonò definitivamente l’eteronimo Michele Apicella per un ancor più radicale Io semi-documentaristico, Allen negò con forza che il protagonista Sandy Bates fosse ritagliato sulla sua figura. È una contrapposizione che vale la pena approfondire. Il regista italiano sfronda di (quasi) ogni residuo narrativo la sua opera dividendole in tre spezzoni autonomi: In vespa, Isole, Medici. Tre episodi che indagano ognuno a modo proprio le possibilità creative che possono scaturire dal rimestamento di ricordi, sensazioni e idee personali. Il primo è quello più propriamente diaristico, aperto non a caso sul dettaglio della penna di Nanni intento a scrivere che «la cosa che mi piace fare più di tutte è girare in Vespa!». Da notare l’uso ironico della dislocazione a destra e del punto esclamativo, espedienti di una scrittura rilassata che il protagonista di Palombella rossa avrebbe censurato con una celebre battuta e un altrettanto celebre schiaffo. Nell’agosto assolato di una Roma deserta Nanni percorre le vie meno battute della città eterna lasciando che la mente si perda in una sorta di flusso di coscienza, montato però secondo i canoni rigorosi del suo cinema.

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Continua insomma a fare quello che ha sempre fatto: distilla gag al fulmicotone che, oscillando tra la vanità e la critica, permettano ai suoi tanti contemporanei e colleghi di pensiero di aderire o distanziarsi dalle istanze che egli rappresenta. Dato che lo scorrere del tempo dà più tessitura al singolo filo di un’epoca, è ancora più straniante l’effetto, a distanza di vent’anni dalla sua formulazione, di quell’aforisma di Moretti che a un allora indifferente e giovane Giulio Base dichiara di credere «alle persone ma non alla maggioranza delle persone». Lo dichiara nel 1994 a un collega di belle speranze che avrebbe poi diretto Vittorio Gassman nella sua ultima interpretazione e, a distanza di vent’anni con ancor più significato, lo dichiara al regista di fiction televisiva di invadente profumo chiesofilo (Don Matteo). In questo primo spezzone c’è un improvviso sussulto narrativo, quello dell’intuizione di un film fatto di sole inquadrature di case che raccontano tramite elegiaci carrelli laterali tante contraddizioni italiane. Inaspettato è pure l’inchino reverenziale alla memoria di Pier Paolo Pasolini. Nanni si fa riprendere in un piano sequenza muto di sei minuti mentre si reca con la sua Vespa all’Idroscalo di Ostia, luogo dove avvenne il brutale assassinio del poeta. Si lascia perfino andare alla perfetta costruzione di una scena-madre (che aveva dissacrato in un auto-affondo di un altro suo lungometraggio) accompagnando la sua escursione con la musica di Keith Jarrett.

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In mezzo a tanti titoli di giornali strillati (ripresi in’inquadratura precedente a questa scena e che ne danno il significato) ecco allora un invito pacato alla conoscenza dei “luoghi” reali e letterari di un così aberrante misfatto, piuttosto che la costruzione di statue astruse lasciate marcire nell’incuria degradante. Il secondo segmento di Caro diario, Isole, subodora un certo manierismo morettiano degli esordi. Ad essere graffiato non è più il confuso ideologismo giovanile dei primi anni Settanta ma un certo intellettualismo che si rinchiude in una vita eremitica fatta di soli studi. È un’aspirazione all’autarchia che il regista romano ha sentito da giovane, sente con fascino ancora adesso e continuerà ad agognare per tutta la vita. Il suo amico Gerardo è allora una sua possibile degenerazione, un monstrum che Moretti sarebbe potuto diventare davvero se avesse percorso con fermezza quella strada. Tutto l’episodio è giocato in questo contrasto tra il ciò che sarebbe potuto essere e il ciò che è. Nel corso degli anni Nanni è stato irretito da tanta bruttezza ma anche piacevolmente colpito da tanto contrasto. Ha imparato non più a ridere ma a sorridere dei difetti umani, si veda la tenera sequenza dei telefoni sull’isola di Salina.

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Perfino il rapporto con la TV è vissuto con meno elitarismo di un tempo. Se da una parte resta la mordacità per un eccessivo istupidimento (la grottesca richiesta di Gerardo che in un grandioso spettacolo naturale quale il vulcano di Stromboli pensa solo ad ottenere qualche anticipazione di Beautiful), resta dall’altra la possibilità che in mezzo al marasma catodico si possa cogliere a volte qualche piccola perla (la splendida scena di Nanni al bar che su uno schermo svogliatamente e perennemente acceso coglie per puro caso la Mangano ballare e si diverte a sua volta ad andare dietro a quella coreografia). Il cinema è comunque sempre al centro dell’interesse del regista. Già in questo secondo segmento Moretti lo utilizza come metafora della megalomania del sindaco di Stromboli che vorrebbe rendere ancora più bella la sua isola facendola risaltare dalla fotografia di Storaro e dalla musica di Morricone. La realtà ormai vista solo come set: è l’utopia impossibile di noi cinefili che neghittosamente la ripudiamo per pusillanimità. Il dolore, la noia, la difficoltà di comunicazione dietro uno schermo e noi davanti a vederli scorrere da una comoda poltroncina.

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Una sorta di operazione che fa lo stesso Moretti nell’ultimo episodio del film, Medici. Racconta un anno di malattia in mezz’ora, comprimendo cioè una porzione di vita in pochi momenti (cinematografici) significativi. Una parabola dal lieto fine scontato (Nanni non avrebbe altrimenti mai girato questo diario!), iniziata con il documento reale dell’ultima seduta di chemioterapia. Messo in quel contesto, anche quel singolo frammento di vero quotidiano assume però un aspetto recitato. Il regista circoscrive un lasso di realtà relativamente breve in un’inquadratura perfettamente digeribile, lo piega ai fini del suo apologo sull’incomunicabilità che sussiste tra medici e pazienti e tra tante altre categorie di persone. Elimina cioè i tempi morti della dolorosa riabilitazione e, a latere, della vita per “farla filare come un treno” (come diceva un altro appassionato cinefilo come Truffaut). Con una simile prospettiva anche Woody Allen girò il suo film migliore degli anni Ottanta. Uno degli assunti di base di Stardust Memories è proprio il rapporto col cinema, in particolare con quello di alcuni dei più importanti registi europei.

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Non siamo dalle parti dello scippo derivativo, come lamentato da alcuni critici americani che probabilmente si sentivano schiacciati dall’importanza culturale della vecchia Europa tanto da credere blasfemo un qualunque avvicinamento a quelle forme artistiche, quanto a una loro riproposizione in chiave autobiografica. Il regista americano fa propria un pezzetto d’ansia di Guido Anselmi (protagonista di ), sogna ad occhi aperti soggetti simili a quelli dell’alter ego felliniano e ne infittisce le trame amorose. Qui Allen spadroneggia con la sua consumata malizia rendendo fascinose le tre donne che incrociano il suo cammino ma rendendo indimenticabile soprattutto Charlotte Rampling della quale resta indelebile lo sguardo che rivolge a Sandy mentre fa una normale colazione di una domenica di primavera. L’autore newyorchese è meno sperimentale di quello italiano. Egli con questo film non intende indagare i limiti del cinema narrativo poiché pur in un’opera particolare come questa non li mette mai in discussione.

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Le memorie pur tra qualche slalom seguono infatti un percorso canonico. L’inizio e la fine sono nettamente delineabili, semmai è il percorso di crisi ad occupare quasi tutto il lasso temporale del film ma questo non ne inficia appunto la struttura. Allen in realtà mette in scena sé stesso e il suo personaggio rendendoli volutamente indistinguibili. Come sempre gli interessa fare cinema, avere soggetti comici per le sue battute, conoscere bene la materia interessante da irridere, indipendentemente dalla provenienza. Anche con lui possiamo divertirci a scovare le analogie con i fatti veri della sua vita, di quel tempo o persino futuri (la Rampling che lo rimprovera di aver flirtato con una tredicenne anticipa l’onta delle accuse di pedofilia), a costo di non farcene sviare. L’incontro con gli alieni in Stardust Memories è allora altamente emblematico: non importa che Allen non faccia più i film specificamente comici degli inizi, a noi questo tipo di cinema narrato in prima persona piace.

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