La casa poggia su un filo matematico,
di bruno verde lo copre l’insalata
all’età mia non dovrei vedere più le cose
che in un unico modo: quello visto, reale.
Poi riappaio prendendo la mia macchina
a me stessa da quell’angolo peggiore:
la solitudine, che mi scava le ossa
con l’uomo perso e malato giù in Etiopia.
Non sono più parole universali, le mie,
son delle case che ho abitato e vissuto
pur non ridendone mai.
Come se ci fosse dentro un’aura sacra
a compiangermi e ad illudermi
di poter essere migliore.
Di non poter ridere oltremodo
della parte mia peggiore.