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Case editrici, scrittori e surrealismo – parte II

Creato il 30 gennaio 2013 da Sulromanzo

Case editrici, scrittori e surrealismo – parte IIA cura di Alberto Gherardi, Alessandro Greco, Morgan Palmas

(leggi la prima puntata)

Alessandro: Morgan, io penso molto semplicemente che, Mondadori, quando ha scelto di pubblicare “La resistenza tricolore”, era certa di farne un best seller e ci ha investito, anche molto. Il libro è stato lanciato in pompa magna su Panorama e ha ottenuto recensioni sui più pre(zzolati)-stigiosi portali di “letteratura”, perdonami le virgolette. Quanto alla responsabilità dei lettori, beh, la mia precedente risposta termina con un inequivocabile “i lettori hanno le loro colpe…”. I lettori, certo, sono responsabili dello squallore che oggi padroneggia in libreria, come i telespettatori sono responsabili del “successo” (vedi sopra) dei programmi spazzatura. Sono responsabili perché hanno un’arma incredibile contro queste trasmissioni, ma non la usano: il telecomando.

E hanno un’arma incredibile contro i libri-panettone: NON comprarli. NON leggerli. NON parlarne.

Il lettore medio italiano, però, non ha nessuna intenzione di leggere qualcosa che destabilizzi la propria autostima o qualcosa che non possa essere assorbito facilmente. Questo fa sì che gli editori pubblichino in continuazione libri di media lunghezza, “leggeri” e scarsamente impegnativi in termini di lettura e successiva riflessione. E i lettori medi italiani li riconosci subito, li senti dire “La solitudine dei numeri primi è un libro scritto molto bene, scorre…”, come se lo scrivere bene non fosse il minimo sindacale richiesto a uno scrittore. È chiaro poi che un editore intelligente (forse furbo sarebbe più adatto) come Newton & Compton prende un Harmony, 4.99 €, lo allunga di una cinquantina di pagine, gli cambia la copertina per alzare il posizionamento sullo scaffale e lo vende a 9.99 € dicendo che è scontato. E lo vende, eh? Ne vende decine di migliaia di copie. Mica bruscolini. Questo è. Clive Barnes disse: «La televisione è la prima cultura genuinamente democratica, la prima cultura disponibile a tutti e retta da ciò che la gente vuole. La cosa più terribile è ciò che la gente vuole».

Sostituisci televisione con letteratura e il gioco è fatto. Qui però, se me lo permetti, subentrano anche altri responsabili: gli scrittori. Appiattiti alle logiche del mercato non hanno più nessun interesse a scrivere per disturbare. La letteratura dovrebbe disturbare, non consolare. Invece, oggi, gli scrittori, pur di pubblicare sono disposti ad autocensurarsi, a limitarsi ad adeguarsi alle direttive dell’editor che a sua volta si piega alle direttive del “capo”. Tengo famiglia, siamo sempre lì.

Morgan: Non so se la letteratura debba disturbare o consolare o altro, se rifletto su quanto a me piace ho le idee chiare, tuttavia riconosco la faziosità del mio giudizio e quindi non estendibile all’intera categoria dei lettori. Ho la sensazione che ci si voglia sempre distinguere per sentirsi migliori. È un’operazione legittima, ma che non mi soddisfa.

L’editoria è in fermento, le nuove tecnologie imporranno chiusure di aziende e la nascita di startup innovative e, la storia insegna, in queste fasi di instabilità la tendenza è l’aggregazione fra gruppi di potere, fatto che già sta avvenendo, pensiamo al recente Consorzio Edicola Italiana, sei importanti gruppi editoriali italiani – Caltagirone Editore, Il Sole 24Ore, La Stampa, Gruppo Espresso, MondadorieRcs Mediagroup – che decidono in maniera ufficiale di unirsi per produrre un’edicola digitale, perché? Contro chi fanno guerra preventiva? Di che cosa hanno paura? Le conseguenze poi ci sono non solo in ambito giornalistico, perché quegli stessi gruppi sono protagonisti nella filiera dei libri. Voglio dire, in altre parole, che l’economia (traduzione: le logiche di mercato) schiaccia la creatività con forza, lasciando pochissimi margini di manovra. E gli scrittori, oltre ai lettori, subiscono le scelte a monte. O sbaglio Alberto?

Alberto: Temo ahimè che tu non stia sbagliando. E torno per un istante al mio discorso di prima, la mancanza di passione, di creatività: può essere fisiologico che il discorso economico non vada a braccetto della creatività, ma credo che un buon rapporto fra i due aspetti sia possibile e anzi debba essere sempre cercato. I due concetti non sono assolutamente antitetici. Nel commercio, un bravo venditore può riuscire a vendere anche la cacca, spiegando al dubbioso acquirente che miliardi di mosche non possono essersi sbagliate; ma non per questo quell’abile venditore è incapace di vendere bene cose migliori. A me pare che in Italia molti editori si siano concessi troppo con facilità alla coprofagia letteraria, come se il ricoprire il mondo d’infinite sfumature di marrone fosse per loro, mosche cieche, il modo migliore per sopravvivere.

Virando sul discorso degli scrittori, per un autore serio sentirsi valutato per la presunta vendibilità della propria opera e non per la sua qualità è assai mortificante. Mi sembra infatti un discorso più da tangenziale che da libreria o biblioteca.

Ma forse è tutto il concetto della “vendibilità” ad essere assurdo: non è il testo in sé che è vendibile o meno, sei tu editore a monte che decidi di fatto come e quanto venderlo. Al di fuori della cerchia di autori famosi, (che fanno storia a sé), qualsiasi altro autore italiano può vendere bene, discretamente o per nulla in un modo che è del tutto dipendente dalla visibilità che l’editore o una manifestazione, o un evento particolare, ha saputo o voluto dare a quel libro. Non ricordo libri italiani che abbiano fatto fortuna col romantico passaparola fra lettori, come si sussurra successe anni fa con “I ponti di Madison County” di Robert James Waller. In Italia hanno grande successo di vendita solo i libri che vengono da subito “attrezzati” per vendere tanto, vedi la Avallone o Paolo Giordano (per dirne due che agli occhi del lettore ingenuo parrebbero poderosi talenti esplosi dal nulla), e lasciamo perdere la barzelletta delle fotocopie dei fan che invasero Roma cadendo da tre metri sopra il cielo obbligando così l’editore a ripubblicare Moccia. Credo che qualsiasi altra bella ragazza con una scrittura decente avrebbe avuto lo stesso successo della Avallone, potendo contare sullo stesso battage pubblicitario e un celebre concorso vinto a tavolino. E credo che qualsiasi altro giovane dall’aspetto tormentato e dai buoni contatti avrebbe venduto come Giordano, potendo contare sullo stesso impeccabile lavoro editoriale e mediatico. Faccio un altro esempio: anni fa Rizzoli lanciò in pompa magna “Bilico”, un thriller scritto dalla sceneggiatrice di Dylan Dog che ahimè non ricordo come faccia di nome, pazienza; bene, a quel mediocre thriller (che comprai e lessi e recensii) regalarono una copertina gialla d’indubbio impatto e una mostruosa tiratura per un’opera prima. Invase letteralmente ogni libreria e ogni ripiano italico. Una cosa impressionante. Non rimase molto in bilico, a dire il vero. Crollò presto. Vendette molto meno di quel che si pensava, ma vendette comunque più del 95% dei libri pubblicati. Flop? Successo? L’uno e l’altro. Fu la qualità a stabilirne il successo/flop? Sì e no. Fu lo sforzo editoriale importante a garantire le vendite? Certamente sì. Se Bilico l’avessi scritto io o tu in modo identico, con le stesse scene e parole, probabilmente non sarebbe neppure stato pubblicato. Lì l’editore cavalcò il potenziale personaggio della giovane sceneggiatrice ombrosa e crudele che passava alla narrativa “adulta” (definizione che tra l’altro non mi trova d’accordo, certi fumetti sono capolavori della letteratura), non so se alla fine gli è andata bene, benino, male o malissimo, però l’ha fatto.

In buona sostanza, di cosa stiamo parlando con precisione? In un libro e in un autore l’editore o ci crede, o non ci crede. Se ci crede, dovrebbe anzitutto garantirne l’identità artistica e poi sbattersi per cercare di venderlo al meglio, non cambiarlo per un concetto estremamente aleatorio come la vendibilità, che è fattore iniziale del tutto indipendente da quello che è contenuto nelle pagine.

Il testo in sé può sì cambiare il risultato finale delle vendite, in meglio o in peggio, ma le vendite di un romanzo sono anzitutto stabilite dalla partenza, da come viene proposto al lettore. Se viene proposto in modalità Acciaio-Numeri primi-Bilico, vende di sicuro. Se viene proposto in modalità default, come capita alla stragrande maggioranza degli scrittori, quasi di sicuro vende poco o niente, e se va bene si ripaga la spesa della stampa.

E allora viene da chiedersi: come mai un editore pubblica male, cioè libri che sa che non venderanno perché neanche lui in fondo ci crede? È uno stupido che lavora a perdere? Mhm. Non è che qualcuno non ce la racconta giusta sull’attività editoriale? Ribadisco, perché pubblicare male tutti questi libri, e non pubblicarne invece pochi ma al meglio?

La verità è che il campo editoriale è un terreno minato pieno di contraddizioni e complicazioni ben poco logiche, e in fondo chiunque può dire una cosa e il contrario di quella cosa e avere una parte di ragione e una buona parte di torto. Io compreso.

A proposito, com’era la tua domanda?

Morgan: La creatività degli scrittori in questo difficile contesto economico. Grazie per esserti accorto che stavi divagando, non farlo mai più perché altrimenti passo il tuo indirizzo alla sceneggiatrice di Dylan Dog.

[La prossima puntata sarà online mercoledì 6 febbraio 2013]

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