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Casi controversi in materia di diritto delle successioni: quando la teoria si confronta con le esigenze della prassi

Creato il 17 dicembre 2012 da Ilnazionale @ilNazionale
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17 DICEMBRE – Il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Verona ha ospitato, lo scorso 14 dicembre, il convegno dal titolo Casi controversi in materia di diritto delle successioni: un’interessante occasione di avvicinamento tra il mondo accademico e la comunità dei professionisti forensi -soprattutto notai ed avvocati- che ha visto un’organizzazione tutta speciale, pensata per e con gli ex-allievi della facoltà.

da sinistra: Vincenzo Scaduto, Alessio Zaccaria e Bruno Piazzola

da sinistra: Vincenzo Scaduto, Alessio Zaccaria e Bruno Piazzola

In quest’ottica si è collocata l’introduzione del presidente del collegio dei corsi di studio, Stefano Troiano, che ha sottolineato soprattutto la necessità di una riscoperta dell’ambito successorio. “Il corso di diritto delle successioni si inserisce nel curriculum  notarile che ha sempre contraddistinto questa facoltà. Sebbene la distinzione in curricula sia stata abolita, i corsi di studio fortunatamente no, quindi la sostanza è rimasta la stessa. E’ un peccato che lo studio di questa disciplina non sia così diffuso in Italia, è un elemento sul quale dovremmo tutti riflettere”. Sulla stessa linea di pensiero si sono posti anche gli interventi dei presidenti dell’Ordine degli Avvocati e del Consiglio Notarile di Verona, Bruno Piazzola e Vincenzo Scaduto. Quest’ultimo, in particolare, ha ricordato l’importanza dell’approccio analitico ai casi da parte degli appartenenti alla categoria, così come lo stesso Alessio Zaccaria, decano della facoltà e ordinario di diritto privato, ribadisce l’importanza dello studio casistico del diritto durante gli studi universitari.

Il primo caso analizzato ha avuto ad oggetto la prescrizione dell’azione di riduzione ed è stato trattato da Mauro Tescaro, vero promotore dell’iniziativa e professore aggregato di diritto delle successioni. Egli ha osservato che il termine di prescrizione dell’azione in questione, nel silenzio della legge termine ordinario decennale, è oggetto di numerosi dibattiti sia in giurisprudenza che in dottrina. Materia del contendere è soprattutto il dies a quo, cioè il momento dal quale la prescrizione inizia a decorrere. “L’art. 2935 afferma che la prescrizione decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere ma, in riferimento all’azione di riduzione, si sono avuti almeno tre diversi orientamenti, tutti tra loro contrastanti”.  Il primo, quello tradizionale, afferma che il dies a quo coinciderebbe con il giorno stesso della morte della persona –il de cuius- la quale determina, nell’istante in cui ha luogo, anche l’apertura della successione. Nessun rilievo avrebbe invece il fatto che uno o più legittimari, eredi necessari del defunto, possano non essere venuti a conoscenza -anche in modo incolpevole- dell’esistenza di un testamento che violi il loro diritto alla legittima. “E’ un orientamento che si fonda sull’applicazione delle comuni convinzioni di dottrina e giurisprudenza –continua il relatore- per le quali avrebbero rilievo, in tema di prescrizione, solo gli impedimenti giuridici e non quelli di mero fatto, con l’eccezione dei casi tassativi previsti agli artt. 2941 e 2942”.

visuale dell'aula Magna della facoltà

visuale dell’aula Magna della facoltà

Il secondo orientamento, invece, si basa sulla sentenza della Cassazione n. 5920/1999 per la quale il dies a quo della prescrizione decorrerebbe dalla data di pubblicazione del testamento lesivo la legittima. Questo perché, laddove sia stato redatto un testamento, solo dalla data della sua pubblicazione gli eredi necessari potranno considerarsi effettivamente lesi nel proprio diritto a conseguire una quota dell’eredità del dante causa. A complicare il tutto si aggiunge presto, però, anche la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 20644/2004 che introduce una “terza via”, imponendo di distinguere tra violazioni derivanti da un’istituzione di erede piuttosto che da donazioni o legati. Nel primo caso; la prescrizione inizierebbe a decorrere dal momento di accettazione dell’eredità da parte del chiamato, che renderebbe effettivo un pregiudizio prima solo potenziale, nel secondo invece si avrebbe fin dalla morte del testatore, in considerazione del fatto che il legato non richiede alcuna accettazione, pur restando rinunciabile. Tescaro osserva, a questo riguardo, che: “Si tratta di un orientamento che tutela meglio il legittimario, ma resta criticabile in quanto introduce un’irragionevole distinzione tra disposizioni spesso difficili tra discriminare in concreto (…) Le Sezioni Unite hanno dato per scontato la centralità della lesione del diritto mentre non considerano la rilevanza dell’inerzia del titolare del diritto stesso”.

Ma il problema, secondo Mauro Tescaro, è più sottile: “Il fatto è che in Italia, attualmente, la disciplina della prescrizione appare inadeguata, talvolta perfino troppo rigida. Il termine di prescrizione ordinario è così lungo da tutelare tranquillamente anche l’inerte, mentre in Francia si compie in 5 anni e in Germania appena in 3. Anche quando, prima delle riforme dei rispettivi ordinamenti, questi Paesi vedevano un termine più lungo del nostro – addirittura trentennale- esistevano dei correttivi efficaci. Ecco allora che in Italia, invece, la maggioranza delle sentenze sacrifica la tutela dei diritti del singolo alla certezza del diritto in generale. Alcune arrivano perfino ad elaborare giustificazioni a posteriori per difendere certe scelte attinenti a singoli casi. Manca il coraggio di scardinare il sistema esistente e paradossalmente si creano più incertezze”.

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La soluzione, secondo il relatore, si potrebbe trovare nei concetti di autoresponsabilità e restituito in integrum. In effetti, nel suo studio monografico sulla decorrenza della prescrizione, ricorda che l’autore di un’azione o di un’omissione deve subirne i relativi effetti in quanto questi discendono dalla sua libertà decisionale e perché, sul piano etico, è vincolato alle conseguenze delle sue decisioni. Quello di autoresponsabilità è, per la precisione, un principio connesso al tema della responsabilità contrattuale, muovendosi dall’art. 1127, 1° comma, secondo il quale: “Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate”. Andando oltre al normale riferimento alla responsabilità verso terzi, l’autore ritiene tuttavia che il principio di autoresponsabilità possa applicarsi anche laddove un soggetto titolare di un diritto, pur senza compiere atti illeciti, tenga un comportamento lesivo dei propri interessi. Naturalmente l’autoresponsabilità è esclusa dal fatto che egli non abbia potuto osservare il comportamento richiesto, ad esempio qualora ignori certe circostanze di fatto fondamentali. Ma in questo caso soccorrerebbe appunto la restituito in integrum, intesa quale strumento che permette di esercitare il diritto per un ulteriore breve arco di tempo, necessario ad evitarne la prescrizione. E’, questo, un orientamento che la dottrina maggioritaria non sembra però seguire con interesse, anche se una ricostruzione del problema effettuata in tal senso sarebbe più coerente sotto il profilo logico.

Francesco Amabile (a sinistra) e Mauro Tescaro

Francesco Amabile e Mauro Tescaro

Alessio Zaccaria, presiedendo la seduta, ha poi dato la parola al notaio Francesco Amabile che ha risolto il secondo caso, attinente all’impiego del trust in ambito testamentario. Istituto tipico del diritto anglosassone, il trust vede un trasferimento di beni dal settlor ad altro soggetto, detto trustee, affinché quest’ultimo li amministri e ne trasferisca a sua volta il profitto o, al verificarsi di determinate condizioni, il diritto di proprietà a un terzo beneficiario. A differenza del vincolo di destinazione costituito per testamento, esso dà luogo ad una segregazione bilaterale dei beni e non unilaterale, aspetto che si desume dall’art. 2 della Convenzione de L’Aja del 1985, ratificata dall’Italia nel 1992. La differenza rispetto all’istituto della fondazione, invece, è dato dal fatto che quest’ultima deve perseguire fini di pubblica utilità mentre il trust può avere ad oggetto anche interessi egoistici.

Secondo la dottrina prevalente, inoltre, dovrebbe considerarsi ammissibile anche un trust interno, nel quale i beni sono situati in territorio italiano ed i soggetti coinvolti sono cittadini italiani, ma si dispone che la legge applicabile sia una legge straniera -con l’unico limite dell’osservanza delle norme imperative nel nostro ordinamento-. Il trust testamentario, allo stesso modo, potrà essere disciplinato dalla legge straniera con riguardo ai suoi effetti, ma dovrà rispettare la legge italiana per quanto attiene alla disciplina della successione. “Il suo limite fondamentale –continua Amabile- è dato dal fatto che non deve ledere il diritto alla legittima ma, anche se ciò avvenisse, la sanzione non sarebbe la nullità radicale del vincolo quanto piuttosto la sua inefficacia ipso iure. Secondo un altro orientamento, in questo caso lo si dovrà ritenere riducibile. Ad ogni modo, data la presenza di un trust testamentario e di soggetti legittimari, è preferibile prevedere un legato in sostituzione di legittima a favore di questi ultimi o una clausola di salvaguardia dei loro interessi”.

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Istituto diverso è invece il vincolo di destinazione di cui all’art. 2645-ter Cod. Civ, che permette di destinare -tramite atto pubblico- beni immobili e mobili registrati alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela, ad esempio a beneficio di persone con disabilità, pubbliche amministrazioni o altri enti. Già qui emerge una prima differenza rispetto al trust, che può avere ad oggetto qualsiasi bene. “Secondo il punto di vista economico –precisa infatti il notaio- andare oltre il tenore letterale della norma potrebbe inficiare la certezza negli affari. D’altra parte, però, si afferma anche che la natura di bene mobile non esclude la possibilità che esso venga ricompreso nel trust, sempre che si dia adeguata pubblicità al riguardo. Questo permette di costituire trust che abbiano ad oggetto anche partecipazioni societarie, titoli di credito ecc…”.

A ciò si aggiunge che la legge italiana, sempre all’art. 2645-ter C.C, prevede che il vincolo di destinazione non superi i novant’anni o la durata della vita della persona fisica che ne è beneficiaria. Nel trust, invece, la durata dipende dalle previsioni della legge regolatrice applicata. Nel caso di un vincolo di destinazione, inoltre, esso si costituisce solo tramite atto pubblico, mentre con il trust la forma dipende dalla natura dei beni oggetto del suo atto istitutivo. Gli elementi distintivi tra vincolo di destinazione e trust non sono di poco conto; anzi, paiono tali da indurre a concludere che i due istituti siano ben distinti. “Secondo parte della dottrina –precisa ulteriormente il notaio- il trust dovrebbe perseguire fini socialmente utili, secondo altri invece potrebbe limitarsi a raggiungere fini individuali, seppur non meramente patrimoniali. E’ responsabilità del notaio, quindi, valutarne la meritevolezza ed evitare atti di autodestinazione”. A differenza del fondo patrimoniale, la cui costituzione per testamento è espressamente prevista, riguardo alla costituzione di un trust testamentario la legge tace. “Se la norma non lo consente espressamente, però, neppure lo vieta” conclude Amabile “E’ chiaro quindi che si è alla presenza di un difetto di coordinamento nel dettame normativo”.

da sinistra: Riccardo Omodei-Salè, Alessia Fabbri e Stefano Troiano

da sinistra: Riccardo Omodei-Salè, Alessia Fabbri e Stefano Troiano

La parola è poi passata a Riccardo Omodei-Salè, professore aggregato di diritto privato, che ha invece trattato un caso in tema didecadenza dalla potestà dei genitori, vista quale nuova causa di indegnità a succedere. Al centro dell’attenzione, la modifica dell’art. 463 C.C avutasi con l.137/2005. Al nuovo comma 3-bis, infatti, si specifica che è escluso dalla successione in quanto indegno “chi, essendo decaduto dalla potestà genitoriale nei confronti della persona della cui successione si tratta a norma dell’art.330, non è stato reintegrato nella potestà alla data di apertura della successione medesima”. Tuttavia se, da un lato, la novella si è avuta per dare peso nella successione alla riprovevolezza dei comportamenti che comportano tale decadenza, dall’altro essa non è esente da critiche. “Leggendo il comma 3-bis –precisa infatti il relatore- si comprende che il riferimento all’art 330 C.C comprende un ampio numero di casi, da quello della mera mancanza di assistenza morale ai reati di incesto e violenza sessuale. Questo rilievo, unito al fatto che la cause di indegnità a succedere sono tassative, quindi insuscettibili di applicazione analogica, rende chiaro il rischio di una violazione del principio di eguaglianza”. Infatti non si capisce perché debba considerarsi decaduto dalla potestà genitoriale un padre che manchi di prestare assistenza morale al figlio magari in modo involontario, mentre non decade chi compie un omicidio colposo –si veda il primo comma dell’art.463 C.C-. “In tal modo si colpirebbe anche il genitore decaduto non per aver posto in essere un comportamento riprovevole verso il figlio minore ma, ad esempio, perché colpito da disagio psichico” conclude Omodei-Salè. Di qui la necessità di un’interpretazione che permetta di ridurre l’ambito di applicazione della novella, senza risultare però troppo restrittiva.

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“Prima del 2005 non sarebbe stato possibile reintegrare il genitore nella potestà dopo che il figlio avesse raggiunto la maggiore età –precisa ulteriormente-. Oggi, invece, questo si ammette nel caso in cui vengano verificate le condizioni ex art.332 C.C. L’art.466 contempla la possibilità di riabilitare l’indegno ma questo può avvenire solo da parte del figlio maggiorenne, perché la riabilitazione è personale”.

Omodei-Salè, che supporta la tesi per la quale l’indegnità opererebbe automaticamente –senza necessità di sentenze costitutive-, ha concluso il suo intervento con una proposta di intervento legislativo mirato perché, dice: “L’art. 463 comma 3-bis può sembrare perfino eccessivo rispetto all’interesse da tutelare. Meglio sarebbe allora ricorrere, come sostiene anche l’autorevole dottrina di Comporti e Moscati, allo strumento della diseredazione. Spagna, Germania, Austria ed altri Paesi conoscono sia l’istituto della diseredazione, nel caso in cui un proprio congiunto disattenda al principio di solidarietà familiare, sia quello dell’indegnità a succedere, nelle fattispecie più gravi”.

Infine, la parola è passata al notaio Alessia Fabbri, per confrontare i sistemi di trascrizione e intavolazione del diritto di abitazione del coniuge superstite. La spiegazione si è mossa dal caso in cui due persone risultino coniugate in regime di comunione dei beni, con un’abitazione familiare costruita sul terreno di proprietà esclusiva della moglie. Prima della morte, però, quest’ultima lascia tutti i suoi beni ai soli figli. “A favore del coniuge superstite –spiega il notaio- si costituisce un diritto di uso e abitazione sulla casa familiare. E’ la tesi del legato ex lege, definito dall’art. 540 Cod. Civ”.

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Nel caso in cui si intendesse lasciare tutte le proprie sostanze a soggetti diversi dal coniuge, precludendo a quest’ultimo la possibilità di esperire l’azione di riduzione, per evitare rimostranze si dovrebbe istituire un legato in sostituzione di legittima. “Ma anche qui –continua il notaio Fabbri- non mancano le incertezze. Ci si chiede infatti se tale legato comprenda già i diritti di uso e abitazione o se questi siano diritti ulteriori. Secondo un primo orientamento sarebbero effettivamente compresi, ma ciò va specificato. Adesso è stata anche depositata, al riguardo, un’ordinanza interlocutoria presso la Corte di Cassazione e siamo in attesa di conoscerne la risposta”. Il problema si complica se si guarda al caso di separazione tra coniugi. “Ex art. 548 C.C, il coniuge separato non perde comunque i propri diritti successori se la separazione è consensuale. In caso di divorzio, invece, gli spetterà un assegno vitalizio, sempre che fosse già titolare di un assegno di alimenti o di mantenimento”. Se passa a nuove nozze, poi, le posizioni dottrinarie sono discordanti, ma è coerente con l’impostazione del sistema normativo affermare che egli perderà i diritti successori rispetto all’ex coniuge defunto.

Per quanto riguarda la trascrizione dell’acquisto del legato, ex art. 2648 C.C, questa si dà sulla base di un estratto autentico del testamento. “Nella realtà ciò avviene presentando il certificato di morte, l’estratto del certificato di matrimonio ed infine quello di residenza. Nel sistema tavolare, invece, occorrerà presentare la dichiarazione di successione e fare ricorso in volontaria giurisdizione chiedendo l’intavolazione dei diritti di uso e abitazione. Se il diritto non viene iscritto non sarà opponibile. Esso viene considerato un gravame sul diritto di proprietà alla stregua, ad esempio, di un’ipoteca (…) Se poi, nel termine di tre anni, l’iscrizione al tavolare venisse impugnata, la conseguenza sarebbe la nullità della stessa, non solo l’obbligo di risarcire il danno come avviene nel sistema ordinario”.

Così si è conclusa una seduta preziosa per gli addetti ai lavori, che sanno bene come nessuna tematica giuridica si presti a soluzioni scontate e monolitiche.

Silvia Dal Maso


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