Magazine Attualità

“Cattivi maestri”, ovvero, a proposito di un “morbus mathematicorum (ma non solo!) recens”

Creato il 17 giugno 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
“Cattivi maestri”, ovvero, a proposito di un “morbus mathematicorum (ma non solo!) recens”di Umberto Bartocci.
"La metodologia è oggi così affollata di ragionamenti raffinati e vuoti che è estremamente difficile percepire i semplici errori alla base. [...] In questa situazione l'unica risposta è la superficialità: quando la complessità
perde contenuto, l'unico modo di conservare il contatto con la realtà è di essere rozzi e superficiali, e tale io intendo essere"
(Paul K. Feyerabend)
1. Preambolo
Sulla porta del mio studio, presso il Dipartimento di Matematica dell'Università di Perugia, campeggia, da tanti anni, una scritta: "Di fronte all'attuale situazione nel campo delle scienze, c'è da chiedersi se molti scienziati sono diventati stupidi, o se molti stupidi sono diventati scienziati".

A distanza di tempo, non rammento a chi debba riconoscere il merito di tale osservazione, mentre ricordo invece bene l'impressione che mi fece l'amico Roberto Monti - una vita da fisico spesa a combattere coraggiosamente contro la teoria della relatività - quando lo udii affermare (doveva essere intorno al 1980): "O sono stupido io o sono stupidi gli altri, io so di non essere stupido etc.", e specialmente l'effetto che produssero nel mio animo tali parole. Vale a dire, l'uscita da un periodo di "letargia", che pure mi aveva prima condotto a una laurea in Matematica (senza riportare mai un voto inferiore al massimo, caso non comune prima del 1968), e poi a diventare professore ordinario di Geometria a trent'anni. Oggi, che mi sento più "maturo" su vari importanti argomenti, e soprattutto capace di pensiero "autonomo" (forse manchevole, ma sicuramente non etero-diretto), sono assai meno stimato e gradito nel mio ambiente, ma posso testimoniare che entrambe le osservazioni, che tanto mi colpirono all'inizio di una lunga avventura nel campo dell'"eresia scientifica", erano dotate di qualche fondamento. Ciò nonostante, non ritengo però che ci sia una particolare concentrazione di stupidità diciamo per esempio tra i "professori". Non solo, ma che in generale le persone davvero stupide sono relativamente rare(1). Una contraddizione? No, bensì l'esistenza di una sorta di "stupidità limitata", che si nota pienamente dispiegata soltanto in alcune situazioni, non sempre. Scopo di queste riflessioni - che prendono origine da un'occasione contingente (fare da relatore a una tesi di laurea su questioni logico-fondazionali, e un rinnovato interesse nei confronti di certi temi a seguito della recente pubblicazione di un libro su Goedel, e delle corrispondenti numerose recensioni, trattandosi di un'operazione editoriale ben pianificata e pubblicizzata intorno a un libro di quelli che "contano"), e che non pretendono né di rivolgersi a degli "specialisti", proponendo mirabili avanzamenti nel campo delle loro conoscenze tecniche, né alla gran parte degli studenti "bravi", per lo più ansiosi di ottenere borse di studio, posti di dottorato, etc., e di prendere infine il posto dei loro professori - è soltanto quello di offrire un modesto contributo personale a una possibile spiegazione di tale "mistero". La circostanza che io sia un matematico confina forzatamente l'analisi che segue al campo di tale materia (parzialmente anche alla fisica), ma non mi sembra che dalla premessa vadano esenti "storici" che sembrano non saper immaginare alcuna soluzione verosimile per taluni punti oscuri della loro disciplina, e offrono talora ricostruzioni manifestamente autocontraddittorie(2); "filosofi", che appaiono a volte unicamente capaci di giocare con parole prive di significato (o che lo hanno perduto), e soprattutto di non essere più in grado di distinguere tra questioni marginali e quelle invece meritevoli di attenzione(3); "psicologi", che ammantano di competenza "scientifica" le loro "perizie" nei vari tribunali, concorrendo così significativamente ad aumentare il disordine e l'eclisse della "giustizia"; "economisti" o "sociologi", tutti infatuati dalla modellistica matematica e dal "rigore scientifico", ma il cui ruolo più precipuo sembra soltanto quello di essere sempre disponibili a inventare buone ragioni per giustificare le decisioni del "potere" del momento, e così via...

2. Posizione del problema: la matematica secondo Hilbert

In tutte le scuole di matematica del regno, pardon, dell'impero, si esaltano oggi la filosofia della geometria di David Hilbert, e il suo approccio astratto-assiomatico-formale alla matematica, che così viene descritto in un importante testo divulgativo:

"Per Hilbert l'intera matematica non è che il repertorio dei teoremi matematici storicamente dati, repertorio logicamente articolato e diviso in rubriche opportunamente ordinate che sono le teorie assiomatiche. Non esiste contenuto specifico, intuizione fondamentale, ma una pura intelaiatura logica, una rete che collega enunciati a enunciati, teorie a teorie. Sono appunto queste ultime le unità in cui si articola il discorso matematico e non i concetti o i costrutti [...]"(4)

Partendo dal "folle" convincimento del grande padre di Goettingen - che viene sintetizzato in modo significativo con le sue parole ossessivamente ripetute: "Si deve poter dire ogni volta, in luogo di <<punti, rette, piani>>, <<tavoli, sedie, boccali di birra>>"(5), ma della cui insensatezza sembra paradossalmente sempre meno ci si renda conto, più esse vengono ripetute da tutti i professori di geometria a nuove generazioni di studenti, in una sorta di evidentemente efficace lavaggio del cervello(6) - si inizia ogni corso elencando liste di "assiomi" da imparare a memoria, e ci si dimentica che codeste liste debbono essere considerate soltanto come il punto di arrivo di un "corretto" itinerario matematico, e non già quello di partenza, ovvero, di indagare adeguatamente il perché di quegli assiomi, a quali catene di osservazioni e descrizioni di "enti del pensiero" essi sono correlati. Ma principalmente si omette di attirare l'attenzione dello sfortunato discente sul vero significato di quel termine, "astratto", ripetuto con tanta sicumera: di grazia, astratto da cosa?

Evidentemente, astratto dall'uomo, dalla sua "intuizione pura", e una mancata consapevolezza di ciò rende impossibile concepire piuttosto la matematica PRIMA come investigazione delle leggi dell'intelletto (ovviamente umano), e POI come studio di tutti i possibili pensieri di una mente infinita (vedi le "Riflessioni..." citate nella nota 3), o comprendere che aveva molta più ragione Gottlob Frege quando, deluso dalla sua prima infatuazione per il programma logico-formalista, scriveva proprio a Hilbert che: "Io chiamo assiomi [della geometria] quelle proposizioni, che sono vere, che però non possono essere dimostrate, perché la loro conoscenza scaturisce da una [altra] fonte di conoscenza, diversa da quella logica, che si può chiamare l'intuizione spaziale"(7).

Del resto, Hilbert purtroppo non fu il solo a rappresentare questa esaltazione nichilistica e autodistruttiva del pensiero umano(8), avendo trovato dalla sua parte altri "grandi" ma ambigui personaggi come il "convenzionalista" Poincaré, il quale cancella in quattro e quattr'otto tutta l'analisi kantiana asserendo che: "Gli assiomi geometrici non sono né giudizi sintetici a priori né fatti sperimentali. Sono posizioni che riposano sopra un accordo. Tra tutte le posizioni possibili, la nostra scelta viene guidata da fatti sperimentali. Ma essa rimane libera, ed è limitata solo dalla necessità di evitare ogni contraddizione [...] L'esperienza ci guida in questa scelta, ma non ci costringe. Essa non ci fa conoscere quale geometria è la più vera, bensì soltanto quale è la più comoda"(9).

Si potrebbe dire: "amen", quello che è avvenuto è avvenuto, chi ha "vinto" ha vinto, e invitare a "rassegnarsi", se il sistema proposto dai vincitori fosse almeno sopportabile. Ma la speranza, e la fiducia nella ragione dell'uomo, sono immortali, e la situazione, soprattutto dell'attuale "didattica della matematica", è tale da stimolare una reazione. Cominciamo allora invitando a riflettere su una circostanza, e cioè sul fatto che i docenti usualmente ANCORA OGGI, per rendere più facile da ingoiare agli studenti principianti la pillola, insistono sui tre requisiti che, secondo il maestro, "debbono essere rispettati nella costruzione assiomatica di ogni teoria matematica", e cioè:

1) indipendenza,

2) completezza,

3) non contraddittorietà(10).

Lasciamo da parte il primo, che ha un carattere più estetico-economico che non sostanziale, e veniamo agli altri due. E' chiaro che la non contraddittorietà prende il posto della "verità", o della "certezza", laddove il secondo corrisponde alla pretesa di ingabbiare in una descrizione nominalistica assoluta gli enti ideali, geometrici, aritmetici, etc., di cui il matematico voglia trattare, in un modo che deve essere, appunto, assiomatico: inutile cercare altri assiomi, nessuna proprietà è sfuggita alla nostra "definizione". Ma fissiamo per il momento la nostra attenzione sul terzo, che in tempi di "crisi delle ideologie" sembra quello davvero più urgente e fondamentale, prima di essere costretti a ritirarsi nella definizione della matematica fornita da un altro grande genio-maestro del Novecento, secondo il quale "la matematica pura è quella scienza in cui non sappiamo di che cosa stiamo parlando o se ciò che stiamo dicendo è vero"(11). Ricordo il mio professore di Algebra del I anno (a cui in ogni caso debbo tanto, in particolare un interesse verso la matematica intesa più sotto un punto di vista "filosofico", che non tecnico-algoritmico), il quale faceva a questo punto il seguente (comune) discorsetto: "Della non contraddittorietà di una teoria assiomatica siamo certi quando di essa riusciamo a costruire un esempio, un <<modello>>, e poiché questi esempi riposano tutti in ultima analisi sull'aritmetica, ecco che è sufficiente garantirci la coerenza di questa, per essere sicuri che la matematica che stiamo facendo sarà libera da ogni contraddizione".

Argomentazione alquanto banale, e semplice da capire, negli anni '60 ancora la stessa che pensò Hilbert, quando propose (nella seconda delle sue celebrate 23 "congetture", o meglio sarebbe dire "inviti a risolvere problemi", durante il Congresso Internazionale dei Matematici svoltosi a Parigi esattamente all'inizio del secolo; il primo invito era dedicato alla possibilità di "bene ordinare" il continuo) la questione:

"But above all I wish to designate the following as the most important among the numerous questions which can be asked with regard to the axioms: To prove that they are not contradictory, that is, that a finite number of logical steps based upon them can never lead to contradictory results. In geometry, the proof of compatibility of the axioms can be effected by constructing a suitable field of numbers, such that analogous relations between the numbers of this field correspond to the geometrical axioms. Any contradiction in the deductions from the geometrical axioms must thereupon be recognizable in the arithmetic of this field of numbers. In this way the desired proof for the compatibility of the geometrical axioms is made to depend upon the theorem of the compatibility of the arithmetical axioms. On the other hand a direct method is needed for the proof of the compatibility of the arithmetical axioms"(12).

"So far, so good", intercalava sempre uno dei miei professori di Cambridge, e lo dico anch'io a questo punto, osservando che questo tipo di "filosofia della didattica" continua a essere efficacemente utilizzata (allo scrivente ci sono voluti anni per guarirne), nonostante il fatto che, un po' più cresciuti, gli studenti comincino a sentir parlare dei famosi "teoremi di incompletezza" (1931), prodotto di un altro "grande" intelletto del '900, e cioè Kurt Goedel. Sottolineiamo che, letteralmente, ne sentiranno solo parlare, l'approfondimento e la dimostrazione di essi essendo riservata forse neanche a 1 su 100 dei futuri matematici...

Già la denominazione sotto cui vengono ricordati questi teoremi fa comprendere che si tratta di qualcosa che ha, almeno apparentemente, a che fare con il precedente punto 2, ma che in realtà, e forse a sorpresa, ha anche a che fare con il più essenziale punto 3. Ecco allora perché si parla di teoremi, al plurale: ce ne sono DUE, seppur tra essi collegati, che riguardano entrambi gli aspetti fondazionali in questione.

3. Una prima risposta a Hilbert: i teoremi di incompletezza di Goedel

Diamo il loro enunciato con le parole di Jean-Yves Girard(13) (cercheremo di far parlare il più possibile "altri", per evitare le prevedibili accuse di volontari e maliziosi travisamenti).

Teorema 1. Se T è coerente, esiste un enunciato universale vero ma non dimostrabile in T.

(qui T rappresenta "una teoria matematica non specificata", loc. cit., p. 121)

Teorema 2. Se T è coerente, allora l'enunciato universale Coer(T), che enuncia la coerenza di T, non è dimostrabile in T.

Facciamo adesso l'ipotesi (peraltro "ragionevole", la sfiducia dello scrivente nei confronti dei suoi colleghi non si spinge tanto fino a supporre il contrario) che i teoremi di cui trattasi siano ineccepibili da un punto di vista "tecnico". Al di là però della loro eventuale correttezza formale, il problema fondamentale con cui ogni vero "filosofo" è chiamato a confrontarsi consiste nel tentativo di dare decente risposta all'ineludibile domanda: qual è l'insegnamento che possiamo trarre dalle enunciate affermazioni?

E' chiaro che, quando ci si accinge a discutere il precedente interrogativo, si è di necessità forzati ad abbandonare il campo della matematica in senso stretto, nel quale certo "valgono" i predetti teoremi, e addentrarci invece in quello della meta-matematica, ovvero l'ambito dei "discorsi sulla matematica", ed è di fatto a tale ordine di considerazioni che si riferiscono le ripetute celebrazioni dei risultati del genio di Goedel. Essi sono richiamati a giustificare, in piena atmosfera "relativistica", le più bizzarre affermazioni sulla matematica, sia da parte dei membri di un "partito" che dell'opposto, accomunati entrambi comunque da una smania apologetica seconda forse soltanto al "servo encomio" tributato all'altro grande genio dello stesso periodo storico-filosofico, quell'Einstein che di Goedel fu amico e collega alcuni anni a Princeton(14). "I teoremi di incompletezza di Goedel rappresentano una delle scoperte scientifiche più sorprendenti e affascinanti di questo secolo. Una di quelle scoperte che sembrano rilevanti per campi insospettabili della scienza e della filosofia", così si afferma, con entusiasmo degno di miglior causa, in una recentissima recensione al libro di John W. Dawson, "Dilemmi Logici - La vita e l'opera di Kurt Goedel" (Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2001)(15). Stessa musica in Nagel & Newman: " [il lavoro di Goedel] è una pietra miliare nella storia della logica e della matematica [...] le conclusioni cui Goedel arrivò sono oggi riconosciute come rivoluzionarie nel loro vasto significato filosofico [...] le scoperte di Goedel, perciò, hanno distrutto preconcetti profondamente radicati e hanno deluso antiche speranze"(16), etc..

Della grancassa pubblicitaria è parte integrante una strategia di dissuasione all'approfondimento, che si concretizza in reiterati proclami di "difficoltà". Secondo gli autori appena citati: "Il tipo di ragionamento adottato nella <<prova>> era così nuovo ai tempi della sua pubblicazione, che soltanto coloro che avevano una profonda conoscenza della letteratura tecnica in questo campo altamente specializzato potevano seguire l'argomentazione con facilità"; "Il lavoro di Goedel è difficile. E' necessario assimilare bene quarantasei definizioni preliminari, insieme con molti teoremi preliminari assai importanti"; "I dettagli delle dimostrazioni di Goedel, nel suo articolo che ha fatto epoca, sono troppo difficili da comprendere senza una notevole preparazione matematica" (loc. cit., rispettivamente pp. 16, 18 e 78 - non andrebbe però dimenticato che, come si ammette giocoforza, l'articolo in oggetto era in realtà "relativamente breve", loc. cit. p. 15).

Si sarebbe tentati appunto di "fidarsi" del parere espresso in modo unanime (o quasi) da autorevoli rappresentanti della "comunità scientifica", e di non stare a faticare tanto remando contro corrente, e per di più con scarso profitto, ma fortunatamente ogni tanto il "fronte" si incrina, anche solo a livello divulgativo. Girard (autore di un saggio "serio", non "cattivo" e polemico come quello presente - che però è in realtà soltanto "addolorato") attenua i giudizi precedenti, informandoci che: "Può sembrare paradossale dichiarare senza mezzi termini che la difficoltà tecnica del teorema è sopravvalutata [...] la complessità di un argomento è spesso il risultato della mancanza di chiarezza concettuale" (loc. cit., p. 120)(17). Girard ci ragguaglia inoltre così sinteticamente sul senso generale delle brillanti argomentazioni della sopraffina "logica" di cui stiamo parlando.

"La diagonalizzazione permette a Goedel di esibire un enunciato universale A che è letteralmente la stessa cosa che <<A non è dimostrabile in T>>. In altre parole, A è <<Io non sono dimostrabile>>. Ora, supponendo T coerente, se A fosse dimostrabile, allora A sarebbe vero, ma visto che A enuncia la propria indimostrabilità, non sarebbe dimostrabile: una contraddizione. Quindi A non è dimostrabile e, nuovamente, visto che A enuncia la propria indimostrabilità, A è vero. Questo è il primo teorema di incompletezza" (loc. cit., pp. 123-124).

(déjà vu? ma certo, per chi ricordi la brillantezza di un'altra delle già citate "glorie" del pensiero matematico del XX secolo, il famoso "paradosso" sulla teoria degli insiemi che Russell inviò a Frege nel 1902 - vedi il paragrafo 7. Ma forse possiamo anche risalire indietro nel tempo, fino a gingillarci con altre non meno notevoli piacevolezze, quali l'antico "dilemma del mentitore": <<un ateniese dice: gli ateniesi mentono sempre; sta mentendo l'ateniese mentre pronuncia tale dichiarazione?>>, o la storiella del barbiere di un villaggio che fa la barba a tutti i maschi del villaggio che non se la fanno da sé: chi fa la barba al barbiere?!)

"4. La riflessione [Titolo del paragrafo; qui il termine è da intendersi nel senso di un raggio di luce che si riflette, nel nostro caso di un "autopensarsi", o "autofondarsi" che dir si voglia, e non dell'atto di una persona che medita su qualcosa, in effetti ce ne vorrebbero... - nota dello scrivente] - Il teorema di Goedel dimostra (informalmente, ma rigorosamente) l'implicazione Coer(T) -> A (se T è coerente, allora A è vero). Questa dimostrazione può a sua volta essere formalizzata nella matematica, in effetti in T. Siccome T dimostra Coer(T) -> A , se dimostrasse anche Coer(T) , dimostrerebbe A , ciò che è escluso dal primo teorema. Si ottiene così il secondo teorema di incompletezza" (loc. cit., pp. 124-125).

(con il segno grafico -> abbiamo cercato di rendere il simbolo logico di implicazione, "se ... allora").

Sulla base di tali asserzioni, troviamo cuore per chiederci quello che avremmo dovuto chiederci (pretendere) sin dall'inizio senza tanta "soggezione": si tratta davvero di grandi scoperte, di un raggiungimento di superiori stati della conoscenza, che prima dell'apparire di simili meravigliose conquiste del pensiero non ci si sarebbe ragionevolmente aspettati di poter attingere?

4. La "verità" (o la "certezza") della matematica

Cerchiamo allora di approfondire un poco il significato dei due teoremi di Goedel, in ordine alla questione di cui in titolo, continuando a seguire il metodo di confrontare le asserzioni dei divulgatori.

Secondo Girard: "La distinzione tra verità e dimostrabilità resterà senza dubbio la scoperta principale del lavoro di Goedel" (loc. cit., p. 120). Il primo teorema di incompletezza si può descrivere in effetti anche con le seguenti parole: "In maniera informale il primo teorema di incompletezza afferma che l'aritmetica del primo ordine, se è corretta (non è possibile dimostrare al suo interno contraddizioni), allora è incompleta (esistono enunciati veri, ma non dimostrabili al suo interno)"(18).

Intanto sottolineiamo come nella precedente nuova enunciazione del primo teorema di Goedel si trovi opportunamente la necessaria specificazione "del primo ordine", vale a dire una "limitazione" imposta a priori al "linguaggio" sulla quale ci sarebbe già molto da discutere. La "dimostrabilità", come la precisa Goedel sulla scorta delle indicazioni hilbertiane, è una sorta di automatismo algoritmico, eseguibile anche da una "macchina", che non "giudica", non può dirsi personalmente soddisfatta oppure no, un tentativo di rendere "assoluta" una verità a costo di renderla però "disumana" (in un gioco continuo di contrasti apparenti, assoluto/relativo, la cui presenza rende difficile individuare i principi filosofici alla base del "gioco"). Fa capolino qui la volontà di eliminare un'altra fondamentale dualità, quella tra res cogitans e res extensa, che troviamo in seguito alla base di tutto il "programma" della cosiddetta Intelligenza Artificiale Forte, che consiste in sostanza nella pretesa di "dimostrare" l'identità uomo-macchina di Turing(19). Non ci sarebbe molto da stupirsi dell'esistenza di un enunciato che contempli, seppur con un numero finito di parole, la necessità di un accertamento meccanico di infiniti casi: che possa appunto essere "vero", ma non "dimostrabile" nel senso specificato(20). Di fronte a tali "precisazioni", ci sarebbe semmai da stupirsi per il fatto che i matematici riescano talora a dimostrare qualche teorema, piuttosto che del viceversa. Per esprimere la stessa sensazione con altre parole, la concezione di dimostrazione adottata da Goedel - e quindi unico concetto nei cui confronti il suo teorema è in grado di insegnarci qualcosa - appare limitata rispetto alle potenzialità dell'umano intelletto (ma ovviamente non di una macchina, e per conseguenza dei programmi degli informatici!), alla ricerca di "argomentazioni universalmente convincenti e condivisibili". Ciò traspare anche nel passo seguente:

"In realtà il <<significato>> dei teoremi di incompletezza è ancora oggi oggetto di controversie ed interpretazioni. [...] L'importanza del lavoro di Goedel per l'Intelligenza Artificiale è nota al pubblico per il fortunato libro di D. Hofstaedter, "Goedel, Escher, Bach". Una tesi, dovuta originariamente a J. R. Lucas, poi ripresa e sviluppata nel libro di R. Penrose, "La mente nuova dell'imperatore", vede nel primo teorema di incompletezza una conferma dell'idea che le operazioni della mente umana non siano riducibili a quelle di una macchina di Turing, cioè della descrizione astratta (da limiti di spazio e tempo) di un calcolatore. Nel corso della dimostrazione del primo teorema di incompletezza Goedel costruì una proposizione G che risultava indecidibile, ed era la causa dell'incompletezza. Il ragionamento di Lucas è il seguente: poiché la mente umana può <<vedere>> che la proposizione G di Goedel è vera, essa possiede dei <<poteri>> speciali diversi da quelli di un calcolatore, le cui operazioni sono riconducibili a quelle della logica"(21).

Ma passiamo a commenti sul secondo teorema di incompletezza, quello che appare di gran lunga più rilevante ai nostri fini, anche se, come abbiamo visto, quasi un "corollario" del primo. Lo enunciamo di nuovo con le parole:

Teorema 2′ - "Il secondo teorema di incompletezza afferma, sempre in maniera informale, che la coerenza assoluta dell'aritmetica del primo ordine non è dimostrabile"(22).

Un'ulteriore interpretazione la troviamo nel testo citato nella nota 4 (p. 318): "In altri termini: in una teoria sufficientemente potente e noncontraddittoria (in particolare nell'aritmetica) non è dimostrabile la noncontraddittorietà della teoria stessa"(23).

A parte la sostituzione della precedente inspecificata teoria T con l'aritmetica (per noi marginale, ma necessaria ai fini di un'enunciazione più precisa, poiché esistono invece teorie "complete" di cui si può dimostrare la coerenza, per esempio quelle che ammettono un "modello" finito), nella formulazione "informale" 2′ mancano sia l'assunzione relativa alla "coerenza" della teoria sotto esame, sia l'enfasi sulla circostanza che la dimostrazione desiderata risulta impossibile ALL'INTERNO della stessa teoria (è però presente opportunamente, come abbiamo già detto, la specificazione relativa al "primo ordine"). Il secondo teorema di Goedel suona in effetti come qualcosa del tipo seguente: "Se T è coerente, allora la sua coerenza non è dimostrabile all'interno di T".

Alla ricerca di un "senso", di un insegnamento che si possa ricavare da tutto ciò, osserviamo per cominciare che la situazione non è così chiara come l'utilizzo del teorema nelle divulgazioni (disinformazioni) lascerebbe credere. Un paio di citazioni da fonti affidabili lasceranno capire come stanno in verità le cose.

"Questo secondo risultato di Goedel è tuttavia piuttosto problematico: sono infatti numerosi e attuali gli studi per cercare di caratterizzare meglio che cosa si debba intendere per <<proposizione che esprime la coerenza di una teoria>>. In effetti sono state trovate alcune proposizioni di questo tipo che risultano essere dimostrabili nella teoria stessa: d'altra parte ciò non SEMBRA essere in contrasto con il risultato di Goedel proprio perché la determinazione del fatto che tali proposizioni esprimano la coerenza della teoria, sfrutta ipotesi più forti di quelle implicite nella teoria stessa"(24).

"Conviene qui anticipare che l'enunciazione del teorema di Goedel sopra data non è del tutto adeguata in vista di recenti risultati di Solomon Feferman [...] La situazione messa in luce da Feferman è grosso modo la seguente: siccome in generale esistono più formule di una teoria formale sufficientemente potente che possono esprimere formalmente uno stesso concetto o proprietà metamatematica, egli mostra come alcuni risultati - e in particolare proprio il secondo teorema di Goedel - possono dipendere per quanto riguarda la loro validità proprio dalla scelta effettuata, ossia dalla formula che si è assunta per esprimere un dato concetto, in questo caso la non contraddittorietà [...] La questione, di evidente interesse, è attualmente oggetto di studio"(25).

Alle due precedenti aggiungiamo un'altra citazione, che ragguaglia i più volenterosi sui risultati di un certo Gentzen, la cui fama non ha però mai raggiunto quella di Goedel.

"Nel 1936 Gentzen ha dimostrato la non contraddittorietà dell'aritmetica con l'ausilio dell'<<induzione transfinita>> [...] Più tardi anche Ackermenn per altra via, ma sempre utilizzando una consimile <<induzione transfinita>>, ha dato un fondamento alla non contraddittorietà dell'aritmetica. Gentzen sostiene la tesi (a nostro avviso, con ragione) che la sua dimostrazione è oltremodo <<costruttiva>>. Con ciò il problema posto da Hilbert sarebbe, nonostante tutto, risolto, se pure non nella forma originariamente prevista"(26).

Di fronte a questo stato di cose, comunque poco chiaro per non esperti, l'attenzione dei commentatori va tutta sul fatto che l'asserto di Goedel obbliga a riconoscere che la coerenza di una teoria T può essere dimostrata soltanto uscendo al di fuori del dominio della teoria stessa, ovvero per esempio aggiungendo agli "assiomi" dell'aritmetica T degli altri assiomi, fino a costituire una nuova teoria T' che include T. All'interno di T' si dimostra la coerenza di T, ma chi ci assicura quella di T'? La questione si riproporrebbe tal quale, bisognerebbe uscire da T' in una più ampia teoria T", etc., in una sorta di regresso all'infinito senza fine, una catena illimitata e indeterminata di "cause", che non risponde affatto alle esigenze di "certezza" che l'hanno originata (e bisognerebbe comunque chiedersi: quanto davvero "sincere" tali esigenze? Chi sentiva, e per quali motivi, l'impellente bisogno di "dimostrare" che l'aritmetica non è contraddittoria?).

Fin qui niente di male, e in effetti più che a una grande scoperta "fondazionale" sembrerebbe che ci si trovi di fronte a una "dimostrazione" di qualcosa che poteva dirsi a priori "naturale", altro che inatteso. C'era bisogno di appoggiarsi sull'autorità di qualche grande, e ai più inaccessibile, risultato, per essere convinti di un'asserzione così scontata? E' ovvio che una "dimostrazione" di un asserto, che non è accettato immediatamente come evidente, si poggia sempre di necessità su talune "premesse": la verità si propaga da un nucleo di proposizioni a un altro, e se si vuole abbracciare con uno sguardo d'insieme l'intero "sistema", alla ricerca di una sua eventuale "verità complessiva" (in un senso che bisognerebbe specificare in modo opportuno), ecco che essa dovrà necessariamente dipendere da una "base". Ovvero, da un insieme di asserzioni primitive (descrittive) aventi riferimento all'ente oggetto di studio, la cui certezza sarà manifesta in proporzione a una chiara individuazione concettuale dell'ente stesso, e in ultima analisi - trattandosi di "oggetti" che, sia pure non materiali, non abbisognano di alcun nostro riconoscimento nominalistico per la loro esistenza - alla corrispondenza di detto ente a categorie fondanti del pensiero pensante. Se poi quell'insieme di proposizioni connotative, oppure una singola di esse, sia davvero il più semplice possibile, e se riesca a cogliere, nello sviluppo del processo deduttivo, l'intera conoscenza dell'ente, è questione relativamente marginale, che nulla ha a che fare con il problema della sua "esistenza" come oggetto della nostra meditazione, e quindi della certezza delle conclusioni cui si perviene attraverso un suo utilizzo. Molto più istruttive appaiono nello stesso contesto le riflessioni che Cartesio pone all'origine del suo tentativo di costruire (costruirsi) una concezione del mondo soddisfacente, le famose idee chiare e distinte ("è certo che noi non prenderemo mai il falso per vero, fino a che non giudicheremo se non di ciò che percepiamo chiaramente e distintamente"), la cui certezza si propaga attraverso "Quelle lunghe catene di ragioni, tutte semplici e facili, di cui sogliono valersi i geometri per giungere a conchiudere le loro più difficili dimostrazioni", e che alcuni concetti si complicano anziché chiarirsi quando si cerchi di volerli "risolvere" esclusivamente nell'ambito del linguaggio: "vi sono delle nozioni di per se stesse così chiare, che le si oscura volendole definire alla maniera della scuola, e che non s'acquistano con lo studio, ma nascono con noi"(27).

Il discorso andrebbe quindi correttamente centrato non tanto sull'analisi logica di Goedel, e sugli "spazi di libertà" conquistati grazie a lui (infinite teorie, nessuna delle quali completa, e quindi "definitiva", una vera pacchia per i "relativisti")(28), quanto sulla pretesa di Hilbert di auto-fondazione formale della matematica, una pretesa che Girard, "dal punto di vista filosofico", definisce "spaventosa" (loc. cit. p. 117), accomunandola fondatamente alle cosiddette "prove ontologiche", "che dimostra[no] l'esistenza di Dio soltanto a coloro che ne sono già convinti" (loc. cit. p. 114 - per non dire di quelle che alla fine persuadono di ateismo i più fervidi credenti!), e che appare indubbio sintomo di un'involuzione morbosa del pensiero scientifico post darwinista, una sindrome che peggiorerà nel corso del tempo fino ai nostri giorni, e che abbiamo appunto qui cercato di illustrare-denunciare.

Infatti, parlando terra terra, a un ordinario fruitore della matematica(29): ma cosa mai ci ha insegnato di tanto entusiasmante il riverito maestro? Il problema a cui ha dato risposta negativa - ovvero, ripetiamo, dimostrare la coerenza della matematica poggiandosi su quella dell'aritmetica - era tanto essenziale, da doverci davvero rassegnare, allorché non si riesca a "dimostrare" proprio niente, a quella "perdita della certezza" a cui ci invita un altro famoso divulgatore?(30)

Ribadiamo che la richiesta preliminare di Hilbert avrebbe potuto (dovuto) essere respinta a priori come "insensata". A parte il fatto che, ripetiamo, richiede di fornire una "dimostrazione" di qualcosa di cui si potrebbe obiettare si ha già assoluta certezza (e che anzi è questa certezza che viene utilizzata come criterio di paragone, o fondamento, per altre certezze, che ad essa possono essere ricondotte), sfugge a Hilbert un primo "giro vizioso" in cui si incappa in questo genere di speculazioni fantamatematiche. Se la teoria T di cui si richiede di dimostrare la coerenza fosse non coerente, allora si potrebbe all'interno di essa dimostrare TUTTO(31), e quindi ANCHE la sua stessa coerenza. Come dire che, sin da subito, si sarebbe potuto obiettare che una dimostrazione di coerenza, diciamola D, non "significherebbe" proprio nulla, in quanto resteremmo sempre nel dubbio se siamo nel caso <T coerente + D>, oppure nel caso <T non coerente + D>.

Ma vediamo cosa possiamo aggiungere a questa elementare constatazione logica grazie a Goedel. Questi ci insegna che il primo caso (e parliamo pure di dimostrazioni "interne", e soddisfacenti i criteri prima accennati) in realtà non può darsi, ovvero che da un'eventuale esibizione di una dimostrazione interna della coerenza dell'aritmetica, noi dovremmo dedurre piuttosto che essa è incoerente! Detto che per fortuna nessuno - a quanto ne sappiamo - ha finora mai preteso di aver elaborato una tale dimostrazione "interna", e che quindi la nostra ragione può continuare a prestare fede tranquillamente nella convinzione espressa da Cusano con le parole "Nihil certi habemus in nostra scientia nisi nostram mathematicam" (De Possest, 1460), formulate all'inizio dell'avventura scientifica di cui quelli che stiamo esaminando sono gli ultimi sorprendenti (?!) esiti, vediamo come la situazione si presti a essere viepiù "confusa", utilizzando gli stessi "fatti" logici per una sorta di nuovo inestricabile giro vizioso, in cui si trova ad essere intrappolato l'intelletto di chi, comune mortale, voglia tentare di capire comunque qualcosa di queste problematiche senza diventare uno specialista di logica matematica.

Partiamo ancora una volta dalla domanda tanto rilevante per Hilbert, senza stare a perderci in troppe "sottigliezze" formali, e note ormai le conclusioni di Goedel: si può dimostrare oppure no questa dannata coerenza? Se rispondiamo di sì, siamo costretti a concludere, grazie al secondo teorema di Goedel, che la teoria di cui abbiamo appena supposto di poter esibire una prova di coerenza è in realtà incoerente. Se rispondiamo di no, allora siamo sicuri viceversa, anche senza Goedel, che la nostra teoria è senz'altro coerente, in quanto una teoria contraddittoria permetterebbe, come abbiamo detto prima, di dimostrare tutto, quindi anche la propria incoerenza (se questo enunciato è formalizzabile, come pare ci insegni Goedel, all'interno della teoria stessa). Insomma, ci si ritrova di fronte a una situazione tale e quale il "dilemma del mentitore" dianzi citato, e, anche se è chiaro che il precedente "bisticcio" si verifica soltanto attraverso "sillogismi" costruiti con parole identiche che hanno però significati diversi (che la smania definitoria della logica matematica moderna in effetti chiarisce e differenzia anche a livello terminologico, distinguendo tra matematica, metamatematica, verità, decidibilità, validità, semantica, etc.), pure appare incontestabile che la "logica" che viene comunemente usata dai matematici nelle dimostrazioni dei teoremi che insegnano agli studenti ogni giorno non è diversa da quella che abbiamo appena utilizzato. Come dire che questa "logica ordinaria" la si può usare solo in modo condizionato? E chi decide dove, e fino a qual punto? C'è sempre bisogno di un maestro (una delle "guide del tramonto") che dia il necessario placet, questo si può fare-dire, e questo invece no?

5. Goedelite ed Hilbertite...

Come abbiamo visto, si è costretti ad ammettere che in ogni caso la situazione non appare trasparente come ci si sarebbe sentiti in diritto di aspettarsi, in ordine a interpretazione di tanto rilevanti risultati, neppure a livello delle "interpretazioni" che vengono fornite dagli "specialisti". Secondo Mangione (loc. cit. nella nota 4, p. 318), "il secondo teorema di Goedel significa senz'altro la non realizzabilità di principio del programma di Hilbert di una dimostrazione finitista della coerenza dell'aritmetica". Dello stesso avviso appaiono essere sia Cozzoli (il quale aggiunge che però non tutti sono d'accordo su questo punto: "I teoremi di incompletezza, il secondo in particolare, di Goedel posero fine a questo [di Hilbert] ambizioso obiettivo. [...] Soltanto una minoranza di studiosi, si veda il recente libro di M. Detlefsen, Hilbert Program, ritengono che il progetto di Hilbert sia in realtà riuscito"), sia Girard (le sue parole d'esordio, a presentazione del testo di Nagel & Newman - loc. cit. nella nota 7 - affermano che: "Il testo divulgativo di N. & N. dà un'idea chiara delle tecniche e delle problematiche formaliste, ma la filosofia che in modo più o meno evidente lo ispira è il neo-positivismo, intimamente legato proprio a quel formalismo che Goedel confuta; il punto di vista degli autori è quindi perlomeno... discutibile", loc. cit., p. 111). Quest'ultimo autore prosegue su tale linea "critica" informandoci onestamente che: "Non vi è nulla di sorprendente nel fatto che il programma di Hilbert sia sopravvissuto alla critica devastante di Goedel [...] non vediamo ogni giorno falsi profeti convinti di truffa attorniati da seguaci beati? Piuttosto, quello che veramente non ci si poteva aspettare è che la continuazione del programma desse dei risultati eccezionali. [...] [anche] l'incompletezza non ha avuto conseguenze profonde in matematica. I matematici hanno ben presto deciso (e con un certo successo) d'ignorare i problemi dei fondamenti. [...] Il fallimento del tentativo di Hilbert e il relativo insuccesso dei paradigmi concorrenti (intuizionismo) hanno lasciato un senso di abbandono nella comunità dei logici. Infatti, messa da parte la teoria dei modelli, di impostazione molto algebrica, ritroviamo un po' ovunque in logica l'ossessione dei fondamenti e una ideologia riduzionistica più o meno dichiarata" (loc. cit. pp. 126, 129, 130).

Nonostante tale riconosciuto scarso effetto "pratico", è certo però che la divulgazione, e le celebrazioni, sono rimaste invariate, anzi cresciute nel corso degli anni (anche la scienza costruisce e riverisce i suoi "miti"). "Goedelite", la battezza buffamente Girard ("Una misura del successo di Goedel è data dalla sua grande diffusione, grazie ai mass-media, in ambienti molto lontani da quello ristretto in cui si elaborò e si discusse il risultato" - loc. cit. p. 132), e noi ci adegueremo, aggiungendo anzi tante altre "affezioni" dello stesso tipo, Hilbertite, Einsteinianite, etc., tutte fatali malattie dell'intelletto, con le scuole e le università a fare da principali fonti di contagio, e di diffusione perenne dell'epidemia(32).

Le constatazioni di Girard permettono di tornare sulla questione "filosofica" che maggiormente ci sta a cuore, in quanto si sarebbe a prima vista tentati di credere che, basandoci almeno sulla "maggioranza" delle opinioni, i risultati di Goedel abbiano ostacolato la diffusione della Hilbertite, portando acqua al mulino "giusto". Ovvero, che se non si condivide la concezione della matematica sottesa al programma hilbertiano, e poiché Goedel ha "dimostrato" che esso riposava su un fraintendimento ingenuo delle difficoltà fondazionali, si dovrebbe allora essere entusiasti del lavoro del logico austriaco, e diventare affetti da Goedelite. Resta però quel "paradosso" che Girard notava, cioè la sopravvivenza della Hilbertite: un semplice fenomeno sociologico di isteresi? Ingenui seguaci che non si accorgono di che autentici panni veste il maestro? Il paradosso è secondo noi meno tale di quanto sembri, e non del tutto spiegabile nei termini indicati da Girard. In effetti, i due personaggi sono celebrati sullo STESSO ALTARE, e da parte delle STESSE PERSONE: l'Hilbertite non solo non è scomparsa, ma chi ne è affetto mostra anche evidenti sintomi di Goedelite, e viceversa.

Un ulteriore "paradosso", frutto di un fraintendimento fra tanta complessità di un pensiero così elevato, che impedisce di scorgere alcune sostanziali differenze di posizione, o da una parte o dall'altra? NO, perché mentre Frege si rende conto per esempio che l'unica alternativa percorribile è di rimandare la più autentica fondazione della matematica alle intuizioni ordinarie di spazio e tempo dell'intelletto umano, perfettamente e coerentemente descritte da "aritmetica" e "geometria euclidea"(33), Goedel sembra capace unicamente di dire a tale riguardo che "la logica moderna ha il merito di averci reso consapevoli che le intuizioni di base del nostro pensiero sono autocontraddittorie" (cito purtroppo all'incirca, a memoria). Ciò vuol dire che, se vogliamo capire di fronte a quale fenomeno intellettuale ci si trovi, dobbiamo individuare i punti fondamentali che accomunano Hilbert, Goedel, e tutti i loro "seguaci": e cioè un rifiuto su base darwinista del ruolo fondante dell'intuizione, più oltre ancora, della dualità cartesiana tra materia e spirito. E' in siffatte negazioni di principio che si può ravvisare l'unitarietà di una filosofia (della scienza, ma non solo) che trionfa nel secolo scorso, al di là delle molteplici apparenze con cui essa prende forma: tutte ansiose comunque di proclamare la fine dell'età della Ragione (vedi nota 30), l'incomprensibilità dell'esperienza umana, la necessità di affidarsi a delle guide "sicure" per non ritrovarsi "sbandati"(34).

6. A proposito di Einsteinianite...

Ci sembra opportuno introdurre un ulteriore collegamento, invisibile ai più, tra Hilbertite e Goedelite, tramite l'introduzione appunto della Einsteinianite, a ribadire la fondatezza delle considerazioni precedenti. Esso consiste nel notare che Hilbert è l'autentico "padre" ANCHE di quel sovvertimento del ruolo fondante dell'intuizione ordinaria nella FISICA che è costituito dalla teoria della relatività. Una costruzione matematicamente e logicamente ineccepibile ("ovviamente", nonostante la maggior parte delle "critiche", inevitabilmente destinate a non essere prese in alcuna considerazione, pretenda il contrario), ciò nondimeno da altri punti di vista "assurda", nel senso di teoria che rinuncia a priori a ogni capacità di "spiegazione" dei fenomeni naturali, in quanto distrugge alla radice proprio quelle categorie mentali (spazio, tempo e in un certo senso anche causalità(35)) che sole possono costituire quella adaequatio intellectus et rei, che è, o dovrebbe essere, lo scopo ultimo di ogni sforzo di umana conoscenza.

Goedel, come c'era peraltro da aspettarsi, è altrettanto entusiasta di Hilbert della nuova teoria astratta dello spazio-tempo, al punto da lavorarci sopra da matematico "professionista", fino a produrre un modello di spazio-tempo relativistico in cui esistono curve temporali chiuse, ovvero traiettorie (sequenze continue di "eventi") orientate in ogni punto verso il futuro, che però tornano indietro al punto (evento) di partenza. Secondo le parole di Cozzoli (loc. cit. nella nota 15): "Fra i risultati meno noti di Goedel vi è anche un modello astronomico della teoria della relatività nel quale esistono linee temporali chiuse. Risulterebbe quindi possibile tornare indietro nel tempo. Modello di cui Goedel sperava i fisici dessero un giorno una conferma empirica". Come dire che, invece di dedurre dai suoi risultati matematici l'implausibilità fisica di una teoria che li consentiva (e la teoria viene in effetti corredata successivamente, da parte di scienziati più "prudenti", di altri opportuni "assiomi", onde evitare tali spiacevolezze), il nostro grande genio sperava che fosse possibile un giorno realizzarli sperimentalmente! Né è il solo sul cammino verso le folli fantaspeculazioni della fisica moderna, che fanno ritrovare sulla stessa strada seri scienziati ortodossi e spiritisti, ufologi, assertori di fenomeni quali telepatia, bilocazione, appunto viaggi nel tempo, "libero arbitrio" degli elettroni, e quant'altro, con comprensibile grande dispiacere da parte dei primi, i quali comunque se la sono cercata...

L'infatuazione per la relatività-relativismo è quindi un altro elemento che accomuna Hilbert, Goedel, e naturalmente Einstein, un vero e proprio periglioso "triangolo delle Bermude", posto purtroppo a fondamento della mirabile scienza novecentesca. E ciò è vero nonostante una certa ostilità-diffidenza (rivalità?) che albergava tra i primi due: un particolare invero marginale, che rischia però di far classificare come divergenza ciò che è invece sostanziale unità, e quindi di non far cogliere l'autentica essenza dell'intero quadro a molti ricercatori miopi, agli "specialisti" che si avvicinano troppo ai loro oggetti di studio. Pochi sanno per esempio che, dopo che Einstein le aveva pubblicate in forma errata nel 1914 (errori decisivi furono segnalati dal nostro Tullio Levi-Civita, il che dette origine a una corrispondenza e collaborazione attiva, per quanto riguardava l'aspetto matematico delle questioni, tra i due), Hilbert fu il primo (sia pure per pochi giorni) a presentare (alla Società Scientifica di Goettingen) le equazioni corrette della teoria della relatività generale (o meglio: teoria relativistica della gravitazione). Ciò avvenne in effetti il 20 novembre 1916, laddove quelle di Einstein furono presentate all'Accademia Prussiana delle Scienze soltanto 5 giorni dopo. Tutti i dettagli della vicenda si possono ritrovare nella biografia di Einstein scritta da Abraham Pais (loc. cit. nella nota 14, p. 257), strumento utilissimo ancorché agiografico. Pais riferisce in nota di un commento pungente di Einstein a Hilbert, indirizzato a Ehrenfest: "I don't like Hilbert's presentation ... unnecessarily special ... unnecessarily complicated ... not honest in structure (vision of the Uebermensch [Superuomo] by means of camouflaging the methods)" (p. 261). Possiamo dire, per una volta tanto: parole sante! Un rimprovero che si potrebbe rivolgere a molti matematici, grandi e piccoli...

Ancora qualche cenno sulla questione per evitare equivoci. Il legame ideale tra i "morbi" di cui stiamo parlando non è di tipo "orizzontale":

Einsteinianite -> Hilbertite -> Goedelite ,

bensì di tipo "verticale":

Hilbertite

/ \

Einsteinianite Goedelite .

Infatti, anche se i fisici non amano riconoscerlo, è la neo-fondazione astratta della matematica (di cui abbiamo trattato nella nota 8) l'elemento ideale che apre le porte all'accettazione e alla propaganda a favore della teoria della relatività, e non viceversa, anche se naturalmente il mito Einstein funziona pubblicitariamente assai più del mito Hilbert, e la relatività può invero considerarsi il "paradigma" più rappresentativo della filosofia scientifica del XX secolo(36) - così come il darwinismo lo è per il XIX secolo.

Tra i pochi che vedono le cose come stanno, overo "Physics in the shadow of mathematics", c'è Lewis Pyenson, con il suo ottimo "The Young Einstein - The advent of relativity" (Adam Hilger Ltd, Bristol and Boston, 1985, p. 101), il quale ricostruisce anche l'ambiente accademico di Goettingen fornendo una serie di dati altrimenti difficili da rintracciare. Questo autore scrive per esempio (p. 183): "The Goettingen atmosphere created by Klein and sustained by dozens of his HAND-PICKED professors, instructors, and assistants encouraged the belief, to introduce the frequently reported remark by David Hilbert, that physics was too important to be left to physicists" (enfasi aggiunta), a sottolineare in genere, molto giustamente, che gli "astrattisti" di Goettingen videro come il cacio sui maccheroni l'opportunità che si presentava loro, attraverso l'ardita proposta dell'oscuro impiegato dell'Ufficio Brevetti di Berna, che in una diversa situazione ideologica sarebbe forse rimasto meritatamente tale(37), di dimostrare, con tutto il peso dell'autorità che possedevano, "the usefulness of unconventional mathematics for the physicist" (p. 83). Con questo non si vuol sostenere che la scomparsa della razionalita' e dell'intuizione pure in fisica sia stata decretata a tavolino (in questo campo c'è comunque da fare i conti con una "realtà" sperimentale, e se certe osservazioni avessero dato una conferma dell'etere, come tutti si aspettavano alla fine dell'800, la "nuova matematica" avrebbe cercato di porsi alla guida anche di queste teorizzazioni), ma non si può non ritenere che Hilbert & C. siano stati ben contenti per come si sarebbero messe le cose, grazie al suggerimento einsteiniano di cancellare l'etere anche a costo di modificare lo spazio-tempo...

Così, nelle parole di Hilbert (1913) la relatività - una teoria che NON aveva al tempo, e non ha tuttora, alcuna conferma sperimentale DIRETTA della sua fondamentale assunzione ("principio di relatività") che i moti uniformi non hanno effetti fisici (38) (per non dire delle ambiguità e dei fraintendimenti con cui vengono presentate come "verifiche" indirette della relatività esperimenti e fenomeni che andrebbero invece esaminati con molta maggiore attenzione critica) - diventava "the boldest and most powerful scientific idea since David Hume's critique of the concept of causality" (Pyenson, loc. cit., p. 183). A proposito di questo "concise summary of the Goettingen approach to physical reality", ispirato dall'intento di ottenere "5000 marks to finance guest professorships", nel libro di Pyenson leggiamo anche che: "Hilbert then mentioned the role of experiment in the genesis of relativity, thoroughly confusing the contributions of Walter Kaufmann, Max Abraham, and Albert Michelson. It did not matter, for Hilbert introduced these names ONLY BECAUSE ALL HAD BEEN ASSOCIATED FOR A TIME WITH HIS UNIVERSITY" (enfasi aggiunta)(39).

Osserviamo a riguardo di affermazioni così perentorie, un vero e proprio "proclama" a favore della relatività, che quando si tratta di giudizi scientifici si è abituati a considerarli "obiettivi", almeno per una parte rilevante, sicché diventa assai istruttivo riscontrare che queste opinioni di Hilbert non erano al tempo parimenti condivise da altri "scienziati", nonostante la fama di cui godevano Goettingen e i suoi uomini (naturalmente, fino a che l'atmosfera culturale non cambiò in tutto il mondo dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, a segnare da allora l'accettazione incondizionata della relatività, e del suo autore come "genio della fisica", addirittura il più grande del secolo, se non di tutti i tempi - ma questo è un altro discorso, per il quale vedi per esempio il nostro "Albert Einstein e Olinto De Pretto: la vera storia della formula più famosa del mondo", Ed. Andromeda, Bologna, 1999). Strumento assai utile a questo proposito è il libro di Roberto Maiocchi, "Einstein in Italia - La scienza e la filosofia italiane di fronte alla teoria della relatività" (Ed. Franco Angeli, Milano, 1985, pp. 66-67), nel quale troviamo interessanti notizie quali le seguenti (e si notino bene le DATE: non siamo a ridosso del primo periodo della relatività, bensì nel pieno della propaganda pro Einstein che aveva portato alle famose "conferme" di Eddington del 1919, e poi al Nobel del 1921-1922, nella cui motivazione nonostante tutto il battage pubblicitario la relatività non potette essere citata - a proposito della "imparzialità" di Eddington & C., in questa come in successive occasioni, vedi ancora una volta quanto ne racconta, brillantemente e rigorosamente, Marco Mamone Capria, loc. cit. nella nota 17, p. 338 e segg.).

"Giovanni Boccardi, valente astronomo torinese, nel 1921 dichiarava: <<Dall'accanimento (è la parola) che alcuni mettono a sostenere la nuova teoria si deve dire che vincoli più forti di quelli scientifici leghino lo Einstein ai suoi partigiani. Così si spiega il cancan che oggi stordisce tutto il mondo>>. Più allusivo fu Somigliana [Carlo Somigliana (1860-1955), illustre docente di Fisica Matematica presso l'Ateneo di Torino dal 1905 al 1935]: <<Quando si tratta della relatività anche uomini educati al rigorismo delle scienze esatte, si lasciano trasportare ad espressioni di un'illimitata fede aprioristica, talvolta di un mistico entusiasmo, di cui non abbiamo mai avuto esempio nel campo scientifico. E ciò fa pensare che esista alla radice di questo movimento d'idee qualche fatto anormale, che turba la serena visione delle cose".

Oltre ai precedenti, si potrebbero menzionare anche i nomi di Cesare Burali-Forti e Tommaso Boggio, "due buoni meccanici classici", i quali in un loro libro "scritto nel 1924 in stile polemicamente colorito" affermano che: "La filosofia potrà giustificare lo spazio-tempo della relatività, ma la matematica, la scienza sperimentale ed il senso comune non lo giustificano affatto" (peccato per quel riferimento alquanto dispregiativo alla "filosofia", visto che viceversa soltanto essa può essere la base di partenza per una seria contestazione della fisica relativistica - una contestazione che però per essere anche "efficace" non potrà che svilupparsi poi sul piano sperimentale, ed è difficile che possano occuparsene direttamente dei non "addetti ai lavori" - come peraltro quel rifarsi degli autori al "senso comune" dimostra)(40).

In merito alle numerose critiche, e soprattutto allusioni-sospetti, Maiocchi sostiene che: "Facile era dimostrare l'inconsistenza di questa tesi", citando all'uopo la replica di un altro noto matematico del tempo, Guido Fubini(41), al Boccardi: "Io non so quali interessi possono accomunare gli astronomi anglo-sassoni, Hilbert, il massimo matematico vivente e, per non citare altri, il Klein", ma mostrando con ciò di essere apparentato al Fubini, seppure a distanza di oltre mezzo secolo, da una qual certa mancanza potremmo dire di "immaginazione storiografica". Senza entrare troppo in particolari, non è difficile supporre invece che si trattasse di un "gruppo" ben organizzato, i cui componenti erano legati da alcuni vincoli e principi fondamentali, al di là di occasionali divergenze di "corrente". Alcuni di questi addirittura esponenti di spicco di una sorta di "élite nera", quali il Bertrand Russell qui spesso nominato, sostenitore dei benefici sociali di un condizionamento psicologico di massa. "Gli psicologi del futuro dovranno avere classi di bambini ai quali dovranno, con metodi diversi, inculcare la convinzione che la neve è nera [...] l'infuenza della famiglia è di ostacolo [...] non si può far molto se l'indottrinamento non inizia prima dell'età di dieci anni", da "The Impact of Science on Society" (Simon & Schuster, New York, 1953, pp. 29-30). Un testo questo ispirato al darwinista "disprezzo della vita umana [che ne] costituisce la spina dorsale: <<La vita è un fenomeno insignificante, breve e transitorio [...] che non potrebbe creare turbamento se non fosse perché uno vi è personalmente coinvolto>>. Al disprezzo dell'uomo segue l'avversione e la frode dell'inutilità della scienza: <<La scienza ha aumentato il controllo dell'uomo sulla natura, e si può supporre che essa sia in grado di migliorare le sue condizioni di vita. Questo sarebbe vero se l'uomo fosse un essere razionale, ma, purtroppo, non è altro che un groviglio di istinti e di passioni>>" (citazioni da Franco Adessa, "O.N.U. Gioco al massacro", Ed. Civiltà, Brescia, 1996, pp. 14, 16, 19-20 - si veda ancora quanto si dice sullo stesso argomento in

http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/APPABORT.htm).

Non c'è dubbio che dietro siffatte considerazioni si possano avvertire forti echi di "darwinismo", e che questo abbia influenza decisiva anche sulle concezioni socio-economiche del nostro tempo, a suggerire la concezione dell'uomo come "animale", e della società umana come "gregge" (o "mandria"), il cui controllo è da affidare ad una "casta" di benevolenti pastori (o cow-boys) (si veda anche quanto si dice al riguardo nella nota 24 dell'ultimo lavoro citato nella nota 17).

Concludiamo questo sommario paragrafo dichiarando che ai rari e coraggiosi esponenti della "resistenza" a uno stato di cose sempre peggiore andrebbe dedicato, con grande riconoscenza, uno studio apposito, ma andiamo avanti lungo questa nostra personale via crucis...

7. Cronofobia e paradossi della teoria degli insiemi

Prima di tirare un po' le somme di questo itinerario attraverso gli "orrori" del pensiero scientifico (e non) del Novecento, dedichiamo una breve digressione a un altro aspetto filosofico che accomuna Einsteinianite e Hilbertite (ma meglio sarebbe dire nel presente caso Cantorite), vale a dire la cronofobia(42). Cos'è infatti la teoria della relatività se non la proposta di inquadrare ogni esperienza possibile in un continuo spazio-temporale, o "spazio degli eventi", nel quale si manifesta un "disprezzo" del tempo come categoria autonoma dell'intelletto, "confondendolo" indecorosamente con lo spazio, riducendolo a "dimensione" come le altre, e facendo così scempio di ogni distinzione tra discreto e continuo, tra passato, presente e futuro, e della cosiddetta "freccia temporale", l'irreversibilità del tempo ben nota a ogni essere umano? Abbiamo già visto per esempio tracce di questa ulteriore afflizione dell'intelletto in coloro che sono seriamente condotti(43) a immaginare la possibilità di quei viaggi nel tempo (oggi familiari a tutti tramite alcuni film hollywoodiani), nei quali si va alla caccia di un padre perché non generi un figlio e possa così essere modificato il futuro da cui si proviene, e possiamo aggiungere a queste anche le "favole" sul tempo che scorre più lentamente per degli astronauti, che ritornano sul pianeta d'origine dopo pochi anni, e trovano che lì sono invece passati secoli: tutto ciò ha sempre la stessa matrice nello spazio-tempo di Einstein-Minkowski.

Si potrebbe cercare di approfondire l'analisi delle radici di tale cronofobia, che hanno verosimilmente a che fare con lo stesso tipo di "rifiuto" cui abbiamo accennato nel paragrafo 5, e cioè la negazione stessa dello "spirito", perché così come la materia sta allo spazio (lo spazio inteso come categoria dell'intelletto necessaria per la comprensione dell'estensione), lo spirito sembra stare al tempo (inteso allora come categoria dell'intelletto necessaria per la comprensione della "durata" del pensiero, ovvero dell'autocoscienza, del "cogito" cartesiano - niente a che fare con il "movimento" fisico, che numerosi commentatori richiamano a questo punto inopportunamente), ma limitiamoci all'oggetto precipuo della nostra discussione, facendo vedere come tracce evidenti di cronofobia si riscontrano anche nella teoria degli insiemi, e nei noti paradossi che ne hanno sin dal primo momento accompagnato la storia. Cos'è per esempio infatti il paradosso del mentitore se non un ennesimo caso di un sofisma che si fonda su una ambiguità relativa al "tempo" con cui viene formulata l'affermazione? Cosa significa dire "io mento sempre", in una sorta di presente continuo, con cui si pretenderebbe di comprendere il passato (ho sempre mentito), e il futuro (mentirò sempre)? E che cos'è l'altra grande questione russelliana dell'insieme di tutti gli insiemi che non contengono se stesso come insieme, quando è viceversa "ovvio" che nessun insieme X può mai contenere se stesso come insieme, in quanto l'atto del pensiero che ne comprende gli elementi, e li costituisce in una collettività, PRECEDE necessariamente la considerazione di X?(44)

A ulteriore esemplificazione, mi pare opportuno accennare anche a un altro "paradosso" significativo di questo traviamento, un'induzione dal futuro verso il passato che conduce ovviamente a un risultato manifestamente assurdo, e dovrebbe risalire proprio a Goedel, se ben ricordo. Dunque, un giudice condanna a morte un imputato, diciamo un certo sabato, e gli comunica che lui verrà appeso per il collo finché morte non sopravvenga, in una delle mattine di lì a sette giorni. In segno di clemenza (o il contrario!), per farlo dormire tranquillo anche l'ultima notte, non lo informa sul giorno preciso in cui avrà luogo l'esecuzione, che dovrà arrivare "a sorpresa". Il condannato riflette allora così: sabato mattina non potrò essere impiccato, perché se il boia non sarà venuto a prendermi il venerdì mattina, allora sarei certo a quel punto di dover morire la mattina seguente, e non dormirei tranquillo la notte tra il venerdì e il sabato. Escluso quindi che l'esecuzione possa avvenire il sabato, è chiaro che essa non potrà avvenire neanche la mattina di venerdì, perché se il giovedì sera fossi ancora vivo, allora sarei sicuro che l'esecuzione sarebbe fissata per la mattina successiva, e non sarebbe quindi per me una sorpresa. Escluso quindi anche il venerdì, posso procedere per induzione a ritroso, fino a escludere TUTTE le mattine da qui a sette giorni, sicché la pena, con quella clausola, non potrà venire applicata mai (è ovvio però che il boia arriva per esempio all'alba del mercoledì; che grazie al suo "ragionamento" il reo non se lo aspetta; che l'esecuzione "a sorpresa" può aver luogo senza problemi "logici", nell'assoluto rispetto della clausola aggiunta dalla "benevolenza" del giudice).

L'ignorare, nei detti casi come altrove, la realtà di "processi generativi", in cui la distinzione tra concetti-padri e concetti-figli è essenziale, appare essere una vera e propria "deformazione professionale", all'origine di una miriade di "misfatti", soprattutto di tipo didattico. Infatti, una deprecabile inconsapevolezza di questo genere di peccato, ovvero della possibile introduzione di "inversioni temporali", sembra essere diventata ormai comune tra i matematici, e li conduce a considerare "indifferente" la sostituzione di un insieme di assiomi S con un altro S', se riescono a provare logicamente l'<<equivalenza>> dei due, e quindi a considerare definizioni "identiche" quelle che sono in realtà soltanto equivalenti - o, analogamente, identiche strutture che sono invece soltanto "isomorfe", qualche volta addirittura secondo un "verso" ben determinato - senza sforzarsi di individuare, alla luce della ragione(45), l'eventuale corretto ORDINE con cui i concetti si succedono nel presentarsi all'attenzione dell'intelletto che li esamina, e ne analizza le reciproche connessioni e eventuali dipendenze. E' poco noto (come molte altre cose che abbiamo qui al contrario ritenuto "importanti") che Galileo distingue invece brillantemente, in un suo passo scarsamente apprezzato (appunto, se ne propongono ossessivamente ben altri all'attenzione degli allievi), tra "definizione" e "teorema", come diremmo oggi, ma quale docente mostra di apprezzare ai nostri giorni, nella sua "didattica", certe lapalissiane considerazioni?

"Dico poi, che per dare una difinizione delle suddette grandezze proporzionali la quale produca nell'animo del lettore qualche concetto aggiustato alla natura di esse grandezze proporzionali, dovremmo prendere una delle loro passioni, ma però la più facile di tutte e quella per appunto che si stimi la più intelligibile anco dal volgo non introdotto nelle matematiche. Così fece Euclide stesso in molt'altri luoghi. Sovvengavi che egli non disse, il cerchio essere una figura piana, dentro la quale segandosi due rette, il rettangolo sotto le parti dell'una sia sempre uguale al rettangolo sotto le parti dell'altra; ovvero, dentro la quale tutti i quadrilateri abbiano gli angoli opposti uguali a due retti. Quand'anche così avesse detto, sarebbero state buone difinizioni: ma mentre egli sapeva un'altra passione del cerchio, più intelligibile della precedente e più facile da formarsene concetto, chi non s'accorge che egli fece assai meglio a mettere avanti quella più chiara e più evidente come difinizione, per cavar poi da essa quell'altre più recondite e dimostrarle come conclusioni?" (Principio di giornata aggiunta ai "Discorsi e Dimostrazioni matematiche intorno a due nuove Scienze", Giornata quinta, Sopra le definizioni delle proporzioni d'Euclide - Ed. Boringhieri, Torino, 1958, p. 439).

La presuntuosa "didattica della matematica" del XX secolo ("materia" alla quale non si era mai "pensato" prima) ha l'ambizione di voler insegnare come si fa ad insegnare, ma dimentica che, se è forse discutibile la validità incondizionata della perentoria affermazione di Francesco Severi, "chi sa, sa insegnare", è senz'altro vera l'implicazione opposta, "chi non sa, non sa (o non può, non dovrebbe) insegnare". Sovente i "professori" pretendono oggi di supplire alla conoscenza e alla meditazione sugli argomenti da chiarire ai loro studenti con simpatia, socievolezza, bonarietà, e altre simili doti "politiche", al punto di assomigliare molto più a dei funzionari addetti alle relazioni pubbliche che non a cultori-conservatori di qualche disciplina (e ci fosse quanto meno un "amore" autentico nei confronti di certe problematiche, con la conseguenza che passano per "eccentrici", e "scocciatori", proprio gli appassionati!).

8. Conclusioni "istruttive", ovvero, una possibile morale della storia

Il sospetto che dovrebbe assalire inevitabilmente chi si è spinto fino a questo punto è che tutto un sistema di pensiero sia stato eretto allo scopo di convenire infine con Bertrand Russell (e più in generale con i fautori della "crisi della ragione") quando sostiene che:

"La logica era una volta l'arte di trarre conclusioni: oggi è diventata invece l'arte di astenersi dalle conclusioni, perché si è visto che le conseguenze che noi ci sentiamo naturalmente portati a trarre non sono quasi mai valide. Concludo perciò che la logica dovrebbe essere insegnata nelle scuole allo scopo di insegnare agli uomini a non ragionare: giacché se ragionano, ragionano quasi certamente in maniera sbagliata"(46).

Bella conclusione invero, per una vicenda che si era aperta all'insegna della ragione intesa come "luce", a liberare gli uomini dalle tenebre dell'oscurantismo, della superstizione, della soggezione (di tutti i tipi, economica, intellettuale, etc. - peccato che pochi docenti se ne rendano conto, e continuino, pur da "illuministi", a venerare nel loro personale Olimpo "maestri" che non lo meritano troppo), e spendiamo qualche parola in più per discutere se sia del tutto illegittimo immaginare che quanto precede non sia stato un frutto esclusivo del "caso", ma abbia avuto (beninteso OLTRE al caso, elemento comunque ineliminabile dalle umane vicende) una ben precisa regia, con determinate finalità socio-politiche.

Maurizio Blondet, nel suo straordinario "Gli <<Adelphi>> della Dissoluzione - Strategie culturali del potere iniziatico" (Ed. Ares, Milano, 1994 - un libro che è "illuminante" sin dal titolo) mette in evidenza il ruolo di una possibile "occulta influenza culturale esercitata dietro le quinte da un'oligarchia intellettuale" (loc. cit. p. 241), che ha anche, e soprattutto "scopi sociali e politici [...] di controllo sociale, attraverso la diffusione di opportuni états d'esprit". Alle prevedibili obiezioni di chi troppo superficialmente nega una tale possibilità, o perché gli sembra inverosimile (non realmente praticabile) il fatto in sé, o perché non riesce a immaginare gli effettivi contorni di ciò che può agitarsi "dietro le quinte", oppure ancora perché vede all'azione nella storia complesse dinamiche di "principi opposti", anziché la mano di una guida-volontà attenta, replichiamo che esse originano principalmente in "mancanza di immaginazione", e che non è invero così difficile contemplare una strategia che abbia alla sua base una sorta di "hegelismo": ovvero, che ci si infiltri e si sostengano anche schieramenti opposti, per scagliarli l'uno contro l'altro e ottenere così il cambiamento desiderato. A beneficio del lettore, dedichiamo all'argomento qualche ulteriore citazione dallo studio testè citato (che, con il senno di poi, ha un sapore alquanto "profetico"!), seppure con la certezza, dovuta a lunga esperienza, che non si riuscirà a fare alcuna breccia, a far sorgere alcun "dubbio", nelle coscienze "irriducibili" alla contemplazione di certe probabili modalità del divenire della storia moderna (una specificazione quest'ultima sulla quale si potrebbe insistere con efficacia, ma non è il caso in uno scritto limitato come questo).

"<<Può darsi anche che molte correnti di idee, per quanto totalmente divergenti, abbiano avuto un'origine analoga e siano destinate a favorire quella specie di gioco d'equilibrio che caratterizza una particolarissima politica; in quest'ordine di cose, si commetterebbe un grave errore fermandosi alle apparenze [...]>> [...] Qui, si tratta di un'arte di governo: di un'arte di governo <<particolarissima>>, ma le cui manifestazioni sono <<più frequenti di quanto si creda>> [...] Saprà meditare per conto suo sulle plurime utilizzazioni politiche consentite dalla diffusione deliberata di <<errori opposti>> da parte dei non meglio identificati <<altri>>. Saprà di sicuro, senza il mio invito, riflettere su che cosa significhi [...] l'espressione balance of powers [...] Ma, poi, mi auguro sarà in grado di applicare la lezione al più vasto mondo: agli eventi mondiali del ventesimo secolo, che paiono implicare straordinarie capacità mondiali di controllo degli stati d'animo collettivi, in vista di scopi anch'essi mondiali. [...] Polarizzazioni appositamente create di <<correnti di idee totalmente divergenti>> [...] Non avrà bisogno di me per indirizzare le sue riflessioni su quel che nel dopoguerra ha consentito la stabilità di un certo potere: la confrontation tra gli Stati Uniti e Unione Sovietica. Confrontation che non significava affatto inimicizia, ma un limitato containment che era, nello stesso tempo, un sostenere l'avversario a cui si dichiarava di opporsi. [...] Sono già in via di formazione - e alimentati con adeguati mezzi finanziari e politici - gli adatti état[s] d'esprit da cui si spera di coagulare la futura <<opposizione>>. Lei ha esplorato un limitato settore di questo lavorìo. Indovinerà che ben altro è in gioco, specie se rifletta come l'emergere del <<fondamentalismo>> nell'Islam [...] sia propiziato da strategie occidentali, anzi addirittura atlantiche. Se questo preluda a una contrapposizione finale del secolarismo occidentale [...] lanciato a tutta forza contro ogni <<fondamentalismo>> o ciò che si converrà bollare come tale [...] dipenderà dalle circostanze. <<Esiste anche il caso in questo mondo>> [...] e appunto al caso la grande strategia del balance of powers sa adattare le sue azioni. Può anche darsi che il Nuovo Ordine Mondiale non possa avviarsi a un epocale clash of civilizations, come alcuni insiders già auspicano in America, ma si limiti a sgranare stermini e genocidi locali, killing fields per poveri straccioni [...] In ogni caso, farà bene a tener per sé le sue riflessioni [...] Un'accusa è sempre pronta, a squalificare e ridicolizzare chi esprime ad alta voce le idee che io sommessamente le scrivo: quella di <<complottista>>, di allucinato immaginatore di complotti universali. A queste lapidazioni moderne si prestano volontari precisi ambienti giornalistici; espressione di una categoria umana tra le più artificiali, la più ridicolmente sicura di <<vivere>> in proprio, mentre è la più totalmente <<vissuta>> e agitata dalle idee correnti, dagli états d'esprit dominanti, dai climi culturali egemoni che <<Altri>> hanno pur diffuso nell'aria. [...] è inutile lottare in posizione frontale contro quelle che, nelle cerchie esperte a influire sulle mutevoli psicologie collettive, le <<atmosfere>>, gli Zeitgeist imperiosi dell'attualità, si chiamano appunto <<le potenze dell'aria>>" (loc. cit., pp. 243-249; il lungo brano contiene al proprio interno un'ulteriore citazione, da René Guénon, "Errore dello spiritismo", Ed. Rusconi, Milano, 1974).

Come non farsi venire alla mente echi di quanto letto in altra fonte innominabile, ritenuta comunemente oggi frutto di mistificazione e di paranoia?

"Si vanteranno della propria erudizione e metteranno in pratica, senza verificarle, le cognizioni ottenute dalla scienza, che i nostri agenti scodellarono loro allo scopo prefisso di educarne le menti secondo le nostre direttive. Non crediate che le nostre asserzioni siano parole vane: notate il successo di Darwin, di Marx e di Nietzsche, che fu intieramente preparato da noi. L'AZIONE DEMORALIZZATRICE di queste scienze dovrebbe certamente esserci evidente [...] è per noi essenziale di studiare e di tener presente l'attuale andamento del pensiero" (P. II - enfasi aggiunta).

"Date le condizioni attuali della scienza, che segue una linea tracciata da noi, la plebe, nella sua ignoranza, crede ciecamente nelle parole stampate e nelle illusioni erronee opportunamente ispirate da noi" (P. III).

E' indubbio che si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un "gioco" che sembra svolgersi contemporaneamente su due o più tavoli, e che l'identità, e la forza, dei giocatori principali può solo essere immaginata da parte di "outsiders", ma torniamo alle nostre questioni scientifiche, per concludere affermando che quanto abbiamo qui delineato mostra che sarebbe avvenuta una gigantesca "eterogenesi", rispetto a quello che era il primo programma dell'<<illuminismo>>(47). PROGRAMMA a cui ci piace fare riferimento da ultimo ancora con splendide parole del Galileo di Brecht (loc. cit. nella nota 1), per chiudere questo scritto con una tonalità di SPERANZA - e senza dimenticare l'ammonimento pratico, sempre dello stesso personaggio, che la "verità" non può farsi strada senza il nostro massimo impegno: "La verità riesce a imporsi solo nella misura in cui noi la imponiamo; la vittoria della ragione non può essere che la vittoria di coloro che ragionano" (loc. cit., VIII).

"G. [...] Io credo nell'uomo, e questo vuol dire che credo nella sua ragione! [...]

F. Allora stammi a sentire: io non ci credo. In quarant'anni di esistenza tra gli uomini, non ho fatto che constatare come siano refrattari alla ragione. [...] digli una frase ragionevole, appoggiala con sette argomenti, e ti rideranno sul muso.

G. Non è vero. E' una calunnia. [...] Solo i morti non si lasciano smuovere da un argomento valido. [...] Sì io credo alla serena supremazia della ragione tra gli uomini. [...] Il pensare è uno dei massimi piaceri concessi al genere umano."

Note
1 Nonostante quanto assai spiritosamente venga affermato da Carlo M. Cipolla in "Le leggi fondamentali della stupidità umana" ("Allegro ma non troppo", Ed. Il Mulino, Bologna, 1993). Come avremo modo di argomentare meglio in seguito, la "stupidità" più frequentemente non è altro invece che la manifestazione di una, spesso involontaria-inconsapevole, soggezione a états d'esprit accuratamente coltivati. Sembra descrivere meglio la condizione usuale delle persone "ordinarie" il Galileo di Brecht (che citeremo ancora nell'ultimo paragrafo), quando sostiene che: "[...] dicono che un asino è un cavallo quando vogliono venderlo, e che un cavallo è un asino quando vogliono comprarlo" ("Vita di Galileo", III).

2 Noam Chomsky ad esempio parla (tra l'altro) di questo fenomeno in un'intervista apparsa su "Rolling Stone", Maggio 1992, ricordando come da bambino avesse avuto spesso la tentazione di alzarsi a dire, di fronte a qualche affermazione del suo insegnante relativa alla storia americana (così assurda che gli veniva da ridere): "That's really foolish. Nobody could believe that. The facts are the other way round", aggiungendo di essere stato già da allora consapevole della circostanza che agendo così spontaneamente avrebbe corso il serio rischio di andare a finire nei guai. Nelle righe successive Chomsky si occupa del condizionamento e della selezione accademica, nei quali sembrano invero giocare una parte non trascurabile l'inclinazione all'<<obbedienza>> e alla <<sottomissione>>.

3 Mi piace citare un esempio specifico (sullo stesso tema si veda anche la nota 6). "Poniamo la domanda: ha senso in un contesto tanto drammatico e precario quale è quello attuale e così ingombro di oggetti concreti - l'aggressività, la morte, la paura, la regressione, la difesa, l'offesa e la distruzione - introdurre il fattore K in-A, costante in-Assenza, catalizzatore dematerializzante, che ha origine in una post-evoluzione, dove ogni oggetto - e pensiero - ha in sé il non essere, il già finito e l'ulteriore, essendo privo di necessità e perciò di qualunque meccanismo di auto-conservazione?". Non cito la fonte di questo "pensiero" per pudore, e, a beneficio di chi mi accusasse di avere scelto il precedente passo con particolare malizia, ne propongo subito un altro, che non sembra affatto sfigurare rispetto al primo. "Il fatto che si possa dire che la prova deve mostrare il sussistere di una relazione interna è in rapporto con questo. Perché la relazione interna è l'operazione che produce una struttura dall'altra, considerata equivalente all'immagine di questo stesso passaggio - così che il passaggio conforme a questa successione di immagini è, eo ipso, un passaggio conforme a quelle regole di operazione". Citare in questo caso la fonte è invece d'uopo, perché si tratta di un altro di quei "successi" incredibili, e quindi da ritenersi necessariamente "pilotati", su cui ci diffonderemo alquanto nel seguito di questo articolo. Il "personaggio" in questione è Ludwig Wittgenstein, e la precedente è l'ultima delle considerazioni contenute nelle sue "Osservazioni sopra i fondamenti della matematica" (pubblicate in italiano niente meno che, oppure ovviamente, da Einaudi - Torino, 1971 - nella "Biblioteca di cultura filosofica"). Bella cultura invero, e begli spunti di riflessione, la cui meditazione chiarisce senz'altro la natura dei detti "fondamenti". Altro che le sciocchezze proposte sul medesimo soggetto dallo scrivente ("Riflessioni sui fondamenti della matematica, ed oltre", http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/RIFL.html), un somaro presuntuoso che pretenderebbe che le sue osservazioni vengano messe alla pari di così elevata "filosofia". Conosco bene ahimé, per esperienza diretta, quanto "male" possano aver arrecato talune opere a professorali intelletti: scritti inqualificabili, che sarebbero stati considerati "ridicoli" come meritavano, se non fosse per l'autorevolezza degli autori, e soprattutto del loro "ambiente"...

4 Corrado Mangione, "La logica nel ventesimo secolo (I)", in Ludovico Geymonat, "Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico", Vol. VIII, Ed. Garzanti, Milano, nuova edizione 1976, p. 212.

5 Herbert Meschkowski, "Mutamenti nel pensiero matematico", Ed. Boringhieri, Torino, 1973, p. 85.

6 Così si esprime al riguardo Hans Reichenbach ("La nascita della filosofia scientifica", Ed. Il Mulino, Bologna, 1974, p. 15), in circostanza che non possiamo non ritenere "analoga", sia pure immaginando lo scandalo con cui quest'autore avrebbe reagito al nostro accostamento! "Ecco un passo tratto dagli scritti di un famoso filosofo [...] Posti di fronte a simili creazioni linguistiche, molti lettori finiranno per spazientirsi. Non riuscendo a cavarne fuori alcun significato, mediteranno forse di buttare il libro nel fuoco [...] Lo studente di filosofia, invece, per lo più non rimane sconcertato nel leggere cose del genere. Al contrario, considerando il passo citato, egli probabilmente crederà di non riuscire a comprenderlo PER PROPRIA COLPA e ne ripeterà la lettura fino a convincersi di averlo capito. A questo punto egli riterrà affatto ovvio che la ragione sia un materiale infinito, base della vita naturale e spirituale, nonché, conseguentemente, sostanza di tutte le cose. Finirà così per abituarsi a tale modo di parlare, dimenticando ogni possibile critica del lettore meno <<colto>>" (enfasi aggiunta).

7 Loc. cit. nella nota 5, p. 87. Strano destino invero quello di Frege, che nonostante il "pentimento", esemplarmente illustrato nell'espressione scelta qui a far da titolo, continua a essere ovunque citato come uno dei padri fondatori dell'impostazione logicista, e a vedere il suo nome accomunato per esempio a quello di Russell. Qui non ci occuperemo di "filosofia della geometria", e di quell'altra scempiaggine che è l'esaltazione corrente della "scoperta" delle cosiddette geometrie non euclidee, ma non possiamo non sottolineare nel presente contesto come sia un'altra monumentale sciocchezza quanto scrivono a tale proposito Ernest Nagel e James R. Newman, autori di un fortunato testo divulgativo sul teorema di Goedel ("La prova di Goedel", Ed. Boringhieri, Torino, 1974, p. 17): "per quasi duemila anni gli studiosi hanno creduto, senza il minimo dubbio, che [gli assiomi della geometria] fossero vere proprietà dello spazio fisico". Ecco liquidata in due parole per esempio tutta la filosofia di Kant, a far credere che nessuno abbia mai saputo apprezzare la distinzione tra "reale" e "pensato"! Del resto, sono proprio i matematici e i fisici "moderni" - nel senso di post 1872, come diremo nella nota successiva - ad alimentare ogni confusione in proposito, ignorando la dialettica feconda tra le due citate "polarità": i secondi, rinchiudendo le loro teorie in spazi fittizi di simboli e cifre; i primi, chiamando oggi comunemente numeri "reali" quei "numeri" che di "reale" in senso proprio non hanno nulla, e includendo tra essi anche i numeri "irrazionali", favorendo così in modo subliminale l'opinione che il reale possa essere appunto irrazionale!

8 Per quanto riguarda la matematica, una gigantesca mistificazione pretende che la "rivoluzione fondazionale" in parola (da Weierstrass - e la sua "scuola" di Berlino, che comprendeva Cantor, Dedekind, etc. - in poi, a far data precisamente dal 1872, anno della pubblicazione dei primi lavori sull'artificiale costruzione aritmetica dei numeri reali, mirante a espungere la presenza essenziale dell'intuizione geometrica nella "teoria della misura") sia riconducibile a esigenze di RIGORE, come se non fosse stata "rigorosa" la matematica di Laplace, di Cauchy, o dello stesso Gauss (il quale deve comunque forse considerarsi un "precursore" del partito degli innovatori), e come se altrettanto rigore non avrebbe potuto ottenersi mediante un'impostazione geometrica! Tale ordine di motivazioni occulta così la più probabile autentica radice di tale movimento di idee, ovvero l'influenza su di esso della "filosofia darwinista" (la prima pubblicazione delle opere di Darwin risale al 1859). Di fronte alla nuova "concezione del mondo", si presentavano due sole possibilità, escludendo il suo netto rifiuto: ammettere che la matematica sia una costruzione eminentemente "culturale" (evolutiva), dipendente quindi da condizioni di tempo e di luogo; sganciare la matematica da ogni "umanità", concepita ormai come animalità-bestialità, rendendola una struttura "trascendente" di puri segni e simboli privi di un immediato "significato" (ma capaci quindi potenzialmente di condurre a una "comunicazione" con specie pensanti non-umane), accentuando così il processo di deantropocentrizzazione che caratterizza storicamente l'affermazione del pensiero scientifico moderno. Un gruppo (all'inizio assai ristretto) di matematici condizionati dal successo del darwinismo imboccarono la seconda strada, e delle conseguenze di tale scelta stiamo appunto qui a discutere. Un esempio significativo di tale "dipendenza" concettuale lo si ritrova alla p. 24 dell'opera di Nagel & Newman citata nella nota precedente: "Un terreno di rigorosa astrazione, spoglio di tutte le caratteristiche che ci sono familiari, è certamente difficile da percorrere. In cambio, però, offre una nuova libertà di movimento e dei panorami mai visti. Mediante la intensificata formalizzazione della matematica, la mente dell'uomo si è emancipata dalle restrizioni che la comune interpretazione delle espressioni imponeva per la costruzione di nuovi sistemi di postulati [...] Alcuni di tali sistemi, bisogna ammetterlo, non si prestarono a interpretazioni così ovviamente intuitive (cioè, evidenti per il buon senso) come quelle della geometria euclidea, ma questo fatto non provocò alcun allarme. L'intuizione, innanzitutto, è una facoltà elastica: i nostri bambini, probabilmente, non avranno alcuna difficoltà ad accettare come intuitivamente ovvi i paradossi della relatività [...] Inoltre, come tutti sappiamo, l'intuizione non è una guida sicura: non si può usarla convenientemente come criterio di verità o di opportunità nell'indagine scientifica". Due punti da sottolineare. Primo, la connessione appena accennata, ma non per questo meno efficace, con il concetto di "libertà", a mostrare quanto ci sia anche di sottinteso "politico" in talune impostazioni (questa è proprio la matematica delle "democrazie occidentali", dove tutti i "pareri" sono leciti, purché naturalmente "politically correct", secondo un ideale di "tolleranza" appunto non assoluta; una restrizione apparentemente encomiabile, ma che limita di fatto le opinioni al campo dell'inessenziale). Secondo, ecco qui far capolino la "teoria" per antonomasia, la relatività, in un rimando intellettuale, e pubblicitario, di cui avremo modo di riparlare. Concludiamo la nota dimostrando come certe argomentazioni rimbalzino dall'uno all'altro degli apologeti della "nuova scienza". In un fortunato testo di R.L. Faber ("Differential Geometry and Relativity Theory", M. Dekker, 1983, p. 110) si sostiene che la colpa dell'ostilità ancor oggi presente alle concezioni einsteiniane dello spazio e del tempo sia imputabile alla circostanza che "idee preconcette di spazio e di tempo sono state impiantate nelle nostre menti e rinforzate per tanti anni", etc.. Ma si potrebbe obiettare: impiantate e rinforzate da parte di chi? (c'è forse un partito organizzato dei "conservatori", così come c'è quello dei "modernisti"?). E poi, se provassimo davvero a costringere fin dall'inizio dei loro studi i pensieri dei nostri figli negli schemi di geometrie non-euclidee e di spazi curvi, avremo forse finalmente generato una NUOVA UMANITA'? L'astrazione di stampo darwinista è davvero il clima ideologico all'interno del quale diventa comprensibile gran parte della storia contemporanea, e soprattutto l'apatia con la quale certe guide politiche hanno potuto compiere atti che sembrano trascendere le capacità di male di un singolo essere umano (sullo stesso argomento vedi anche il paragrafo 6).

9 Loc. cit. nella nota 5, p. 88. Si tratta della citazione di un famoso passo contenuto in "La Science et l'Hypothèse", Ed. Flammarion, Paris, 1902.

10 Loc. cit. nella nota 5, p. 85.

11 Si tratta, come tutti sanno, di Bertrand Russell. La citazione è ripresa da Nagel & Newman, loc. cit. nella nota 7, p. 24.

12 Da "Mathematical Problems. Lecture delivered before the International Congress of Mathematicians at Paris in 1900″, in "Mathematical Developments Arising from Hilbert Problems", Proc. of Symposia in Pure Mathematics, Am. Math. Soc., Vol. 28, 1976. In effetti già questa pretesa di ricondurre tutto alla sola aritmetica è, come abbiamo accennato nella nota 8, un'altra scempiaggine (come se fosse sensato il ritenere per esempio che dagli assiomi descrittivi dell'aritmetica possano venir fuori, quasi per incanto, quelli della geometria, questa sì che sarebbe una vera "eterogenesi" - vedi la nota 47), figlia di un "riduzionismo" esagerato, che va molto al di là dell'esigenza legittima di non moltiplicare gli enti praeter necessitatem, e impedisce di prendere consapevolezza della "naturale" fondazione dualista della matematica: aritmetica-geometria, ordine-forma, tempo-spazio, discreto-continuo Il "logicista pentito" Frege di cui alla nota 7 non esitava a dichiarare i suoi illustri ex compagni di cordata affetti da quel "morbus mathematicorum recens" che abbiamo scelto come titolo, ovvero formalismo, riduzionismo, etc.. Peccato che l'epidemia si sia propagata senza che nessuno - ma non sono mancati i "caduti" in questa battaglia - sia stato capace di porvi rimedio, prima di tutto individuando le cause generali alla radice del conflitto. La conseguenza della vittoria della "parte avversa" è che si inizia ogni curriculum matematico dalla teoria degli insiemi, il "paradiso" che, sempre secondo Hilbert, Cantor aveva creato per i matematici, ma anche l'unico esempio, in 2500 anni di storia, di una teoria matematica che aveva, e sin dal suo primo apparire, prodotto "paradossi" in gran copia (argomento che affronteremo un po' più in dettaglio nel paragrafo 7).

13 "Il sogno del segno o il fallimento del riduzionismo", appendice a Nagel & Newman, loc. cit. nella nota 7, ma stavolta Ed. Bollati Boringhieri, Torino, ristampa maggio 2000 della seconda edizione accresciuta 1992.

14 Non a caso in "la Repubblica" del 13.2.2002, p. 43, una fotografia dei nostri due "eroi" troneggia sul titolo "Goedel - Il tormentato genio matematico che passeggiava con Einstein". L'articolo in oggetto, inteso a presentare un libro di cui presto diremo, inizia con le parole: "Li chiamavano<< i due di Princeton>>. E per le strade di Princeton, negli anni Cinquanta, era spesso possibile vederli passeggiare intenti a discutere animatamente in tedesco". Esempio di stucchevole agiografia che ricorda all'autore di queste righe un nuovo passo, ugualmente compreso di attonita ammirazione di fronte a un'altra illustre "coppia", questa volta però di fisici: "Einstein and Bohr finally met in the spring of 1920, in Berlin. At that time, they both had already been widely recognized as men of destiny who would leave their indelible marks on the physics of the twentieth century. The impact of their encounter was intense and went well beyond a meeting of minds only" (Abraham Pais, "Subtle is the Lord... The Science and the Life of Albert Einstein", Oxford University Press, 1982, p. 416). C'è veramente di che farsi venire le lacrime agli occhi, soprattutto pensando agli sfortunati abitanti di Hiroshima e Nagasaki, che ai due personaggi in oggetto debbono molto delle loro sventure.

15 Daniele Cozzoli, di prossima uscita su "Sapere" (recensione ricevuta in anteprima per gentile concessione della rivista on line "Galileo - Giornale di Scienza e Problemi Globali", http://www.galileonet.it).

16 Loc. cit. nella nota 7, pp. 15-18. Celebrazioni del tutto simili, come abbiamo già visto in parte, per le geometrie non euclidee, la relatività, etc.: un "partito" che celebra continuamente e monotonamente se stesso, senza neppure rendersi conto della propria stucchevole autoreferenzialità.

17 La situazione rimanda (ancora una volta non a caso) a un'analoga "controversia", quella sulla "difficoltà" della relatività ristretta. Secondo Guido Castelnuovo (grande matematico invero, ma purtroppo anche tra i primi italiani che si precipitarono a esaltare e divulgare le piacevolezze teoriche moderniste che provenivano d'oltralpe) si trattava infatti di una teoria "in gran parte accessibile a chi ricordi i fondamenti della matematica e della fisica che vengono forniti dall'insegnamento secondario" (nella Prefazione a "Spazio e tempo secondo le vedute di A. Einstein", Ed. Zanichelli, Bologna, 1922 - certo, scuole di altri tempi, si potrebbe dire, dopo aver conosciuto quelle post sessantottine, ma l'affermazione non è troppo lontana dal vero), laddove invece Emile Borel (altro insigne matematico), a scoraggiare sprovveduti tentativi di una confutazione della teoria di Einstein, sottolinea invece che: "We must not expect, however, the systematic detractors of the theory of relativity to disarm at once. [...] Those who have undertaken the task of refuting the theory do not realize that [...] there exist a vast number of studies, published either in special journals or as separate works, and that those innumerable purely technical studies constitute a coherent mass which it is very difficult to shake or unsettle. It is not by discussing the terms of a review article, or even of a small work like the present, that one can hope to demolish a theory the essentials of which can only be explained with the help of numerous developments and innumerable mathematical formulae" ("Space & Time", Dover Publ., 1960, pp. 193-194). Si potrebbe aggiungere che l'osservazione di Nagel e Newman con cui inizia la presente nota buffamente accomuna una volta di più "logica goedeliana" e "logica relativisica" (uno dei temi conduttori di questo scritto) pure sotto tale (marginale?!) aspetto: si tratta di livelli di pensiero così raffinati che nessuno può arrivare a capire veramente! Il lettore interessato ad approfondire la questione potrebbe assai utilmente giovarsi della lettura del paragrafo "Una teoria compresa da tre sole persone" (Marco Mamone Capria,"La crisi delle concezioni ordinarie di spazio e di tempo", in "La costruzione dell'immagine scientifica del mondo - Mutamenti nella concezione dell'uomo e del cosmo dalla scoperta dell'America alla Meccanica quantistica", Ed. Città del Sole, Napoli, 1999, p. 345), che delinea i particolari di un celebre aneddoto. Quando un fisico disse a Eddington: "lei è una delle sole tre persone al mondo che capiscono la teoria della relatività", l'astronomo relativista mostrò una certa esitazione, giustificando il suo imbarazzo con le parole: "mi sto chiedendo chi sia la terza". Mamone Capria rievoca anche brillantemente l'atmosfera di eccitazione quando il Presidente della Royal Society annunziò solennemente, 6 novembre 1919, che le previsioni della relatività generale di Einstein erano state appunto verificate da Eddington - i cui "ritocchi" dei dati a favore di Enstein vengono accuratamente documentati - nonostante il Presidente poi "dovette confessare che nessuno era ancora riuscito a enunciare in un linguaggio chiaro che cosa la teoria di Einstein fosse veramente" (loc. cit., pp. 340-341). Una situazione in perfetto parallelismo con quanto Voltaire testimonia a proposito del successo delle teorie di Newton ("Sono molto poche a Londra le persone che leggono Descartes, le cui opere in realtà sono diventate inutili; molto pochi anche quelli che leggono Newton, perché occorre essere molto dotti per comprenderlo; ciò nonostante tutti ne parlano" - "Lettere Inglesi", XIV Lettera, Ed. Boringhieri, Torino, 1958), a riprova che dietro talune "affermazioni scientifiche" si celano implicitamente delle motivazioni d'ordine generale assai più rilevanti, e sono ben queste quelle che tutti comprendono, senza stare a impantanarsi in "dettagli" di tipo specialistico (vedi per esempio quanto osserva lo storico della massoneria Aldo Mola in ordine all'affermazione del darwinismo - citato in "Alle origini della modernità: il <<programma di ricerca>> cartesiano quale tentativo di sintesi tra nuova scienza e vecchia religione" ( http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/st/ARTMOSCH.htm).

18 Cozzoli, loc. cit. nella nota 15.

19 Si veda la brillante critica che di questo punto di vista viene offerta dal filosofo Rocco Vittorio Macrì, in "Relativismo e pensiero debole: la perdita del fondamento", Episteme, N. 1, 2000, e in "La fisica unifenomenica cartesiana e il punto debole dell'Intelligenza Artificiale forte", Episteme, N. 4, 2001 ( http://www.robotics.it/episteme).

20 Prendiamo per esempio il cosiddetto Grande (o Ultimo) Teorema di Fermat, dimostrato recentemente (1995) da Andrew Wiles, secondo il quale, per ogni x,y,z,n numeri naturali (i numeri 1, 2, 3, ... dell'aritmetica ordinaria - lo 0 vi è stato non a caso escluso), con n > 2 , risulta x^n+y^n-z^n un numero intero (relativo, cioè con segno) diverso da zero (il simbolo ^ indica l'elevazione a potenza). In una sola riga si rimanda a un numero infinito di controlli. A ulteriore conferma dell'intuizione della possibile esistenza di verità non dimostrabili, non sembra fuor di luogo aggiungere che, pur accettando un'infinità di verifiche, le capacità di un qualsiasi linguaggio non possono trascendere la sfera del "numerabile", ovvero di un insieme infinito che possa essere ordinato nella sequenza: primo, secondo, terzo, ... , laddove invece si può avere a che fare in matematica, e in modo del tutto "naturale", con totalità che numerabili non sono, quali l'insieme dei sottoinsiemi degli stessi numeri naturali, o quello dei "punti" di una "retta" (una volta che si concepisca questa come un "continuo", ovvero tale che si "veda" almeno un punto contenuto in tutti gli elementi di una successione di segmenti decrescenti). Come dire che un "semplice" sottoinsieme numerico, dotato di certe ricercate proprietà, potrebbe ben "esistere" (ed essere quindi "vera" una certa asserzione), senza però che esso sia "raggiungibile" attraverso la limitata adeguatezza espressiva del linguaggio, ovvero che esso sia "non definibile" (né intensivamente né ostensivamente, come all'autore di queste righe piace dire), e della cui "esistenza" non si potrebbe quindi essere certi se non "indirettamente".

21 Cozzoli, loc. cit. nella nota 15. Nel presente contesto appare opportuno citare però anche John F. Sowa ("Conceptual Structures - Information Processing in Mind and Machine" - Addison-Wesley Publ., 1984), il quale sottolinea alcune fondamentali divergenze tra il modo di operare - sia pur sempre logico - dell'intelletto umano, e la "modellizzazione" che di esso pretende di aver fornito la moderna logica matematica: "From the time of Aristotle to the nineteenth century, the traditional purpose of logic was to characterize the forms of reasoning in ordinary thought and language. In the first major work on symbolic logic, Boole (1854) called his rules the laws of thought. Even Frege (1870), who invented the first complete theory of first-order logic, called his notation Begriffsschrift (concept writing). In the Principia Mathematica, however, Whitehead and Russell (1910) codified symbolic logic in its present form as a system for reducing mathematics to logic. Since then, mathematicians have developed logic into forms that are far removed from ordinary language. Shortly after the Principia was published, Lewis (1912) objected to interpreting the operators Ú and -> as the equivalent of English conjunctions or and if-then. [...] A second weakness of symbolic logic as an approximation to natural language is its extensionality. [...] Deductive reasoning is a third area where symbolic logic diverges from the way people think. [...] A fourth area where symbolic logic differs from natural language is in the syntax of formulas and the use of variables [...]" (loc. cit., paragrafo 1.6 Symbolic Logic and Common Sense, pp. 17-22).

22 Cozzoli, loc. cit. nella nota 15.

23 E' curioso aggiungere che Mangione fornisce ai non esperti la seguente interessante informazione: "La dimostrazione di questo secondo risultato è solo schizzata nella memoria di Goedel e ne viene promessa una completa esplicitazione in un successivo lavoro che tuttavia non è stato più pubblicato".

24 Edoardo Ballo, dalla "Presentazione" del testo di Nagel & Newman citato nella nota 7 (p. 9 - enfasi aggiunta).

25 Loc. cit. nella nota 4, p. 318. Si sarebbe curiosi di sapere qualcosa di più, a distanza ormai di un quarto di secolo, sull'esito di quegli attuali studi cui qui si accenna, ma si tratta di questione che non viene reclamizzata, sicché lo scrivente non ne sa purtroppo nulla.

26 Loc. cit. nella nota 5, pp. 155-156.

27 Citazioni dai Principi 43 e 10 della Parte I dei "Principia Philosophiae", e da "Il Discorso del Metodo", Parte II.

28 Nagel & Newman chiudono la loro opera (loc. cit, nella nota 7) con le parole: "Il teorema in questione indica che la struttura e la potenza della mente umana sono di gran lunga più complesse e sottili di qualunque macchina non vivente finora immaginata. [...] E' un motivo non per avvilire, ma per apprezzare ancora una volta la potenza della ragione creativa".

29 Il pensiero dello scrivente va a questo punto ad alcune parole del compianto Giovanni Melzi, il quale notava che, se è vero che "l'enorme complessità della ricerca umana ha creato per forza di cose una casta di specialisti votati alla raccolta, alla decifrazione e all'interpretazione dei documenti nonché alla elaborazione del linguaggio capace di esprimere soluzioni nuove", è altrettanto vero che i prodotti di tale attività dovrebbero essere comprensibili a beneficio di tutti, giacché "se non tutti siamo tenuti ad essere giardinieri o botanici, tutti abbiamo bisogno delle piante e dei loro fiori" ("Le idee matematiche del XX secolo", Ed. Borla, Roma, p. 10).

30 Il riferimento è al libro di Morris Kline "Matematica: la perdita della certezza" (Ed. Mondadori, Milano, 1985). "Oggi è evidente - dice Morris Kline, il noto storico della matematica - che l'idea di un corpo di argomentazioni infallibile e universalmente accettato, la grandiosa matematica dell'Ottocento, orgoglio del genere umano, è una grande illusione, La speranza di trovare leggi e standard oggettivi e infallibili si è dissolta: l'età della Ragione è ormai finita" (da "La Stampa", 5 maggio 2001, "Una matematica dal volto umano", di Federico Peiretti).

31 Spieghiamo questa caratteristica di un sistema incoerente con le parole di Nagel & Newman, loc. cit. nella nota 7, p. 60: "Appare così chiaramente che, se la formula S insieme con la sua contraddittoria -S fosse deducibile dagli assiomi, qualsiasi formula sarebbe deducibile dagli assiomi. In breve, se il calcolo non è coerente, ogni formula è un teorema, il che equivale a dire che da un insieme contraddittorio di assiomi è possibile dedurre una qualsiasi formula".

32 Oggi si potrebbe naturalmente parlare anche di frattalite (raro incontrare qualcuno che sappia dire esattamente cosa sono i frattali, o a che cosa "servano" nell'"economia", nei "fondamenti", della matematica, ma quasi tutti i docenti li citano con ossequiosa ammirazione, e ne sfornano numerosi esempi con i loro programmini al PC, anche se è dubbio che si tratti davvero di "frattali" - diventerebbe un discorso interessante approfondire pure la storia del personaggio Mandelbrot, i suoi legami con il "gruppo" di cui ci siamo qui sommariamente occupati, e la possibile funzionalità sociologica della propaganda a favore delle sue "scoperte" all'accettazione di caos e complessità prossimi venturi...), per non dire di americanite, aziendite, pariopportunite, liberomercatite, etc..

33 A QUESTO "paradigma concorrente", che non coincide affatto con l'intuizionismo, non si fa quasi mai cenno, un ulteriore esempio di quella rete di "false dicotomie" nella quale restano impigliati molti intelletti. Se non si è darwinisti, allora si deve essere per forza creazionisti in senso biblico-letterale, e quindi "ridicoli"; se non si è con gli USA, si è dalla parte dei terroristi islamici, gli esempi si possono moltiplicare a piacere. Per tornare al caso in esame, così è in effetti definito l'intuizionismo nell'ottimo "libretto" di Ettore Casari, "la filosofia della matematica del '900″ (Ed. Sansoni, Firenze, 1973, pp. 15-16): "Assai più radicale la posizione di quegli studiosi che si dicono <<intuizionisti>> o <<neo-intuizionisti>> e che, almeno per certi versi, assai meglio dei predicativisti si possono considerare gli eredi diretti di coloro che, principalmente nel quadro generale della tematica riduzionista, rappresentarono nell'Ottocento il punto di vista costitutivo nel contesto del problema delle entità matematiche [...] Per questi intuizionisti [...] l'idea di una totalità in sé conclusa dei risultati di un processo generativo è priva di senso. Il processo e le sue possibilità sono l'unica cosa che c'è [...] Esistenza di un ente non può significare sua eventuale possibilità, ma soltanto sua avvenuta costituzione [...] Se ne ricava che, in particolare, la stessa logica proposizionale, questo fondamento <<semplicissimo>> della logica, è da rivedere. In particolare non può essere accettata quella legge [...] che è nota come <<legge del terzo escluso>> [...]". Un punto di vista alquanto particolare, dunque, da collocarsi correttamente, come osserva bene il citato autore, sempre nell'ambito della prospettiva riduzionista. Un punto di vista condiviso da pochissimi, e forse peggiore di quella concezione oggi "comune" della matematica che qui stiamo criticando, e che priva l'alternativa tradizionale che ci sembra assai più conveniente (soprattutto a fini "didattici") perfino della possibilità di ricevere un NOME adeguato (ma non accade forse lo stesso fenomeno per esempio nel caso degli oppositori di corrotte inefficienti forme di "democrazia parlamentare", che sono tutti genericamente compresi sotto il nome di "nemici della democrazia", per non dire di peggio?!).

34 Per evitare equivoci, specifichiamo di ritenere che nessuna "filosofia", neanche la nostra, possa avanzare mai pretese di cogenza assoluta, erga omnes e nunc et semper. Si tratta infatti dell'edificazione di "sistemi" nei quali un essere umano tenta di inquadrare convenientemente le proprie convinzioni ed esperienze, influenzato evidentemente dalle "simpatie" che le prime e le seconde fanno in lui sedimentare nel corso degli anni. In altre parole, ogni "visione generale del mondo" è, in linea di principio, lecita e rispettabile, un giudizio di valore sull'una o l'altra di esse dovendosi di necessità limitare alle qualità di coerenza interna e di capacità esplicativa esibite (oltre che onestà-indipendenza). Può darsi che l'uomo sia solamente uno dei tanti "animali", la vita un casuale fenomeno di vecchiaia di una natura "indifferente", la modificazione relativistica dello spazio-tempo più adeguata alle intime strutture dell'universo, perché quindi tanto astio da parte di chi scrive nei confronti di legittimi sistemi "rivali"? Primo, perché si tratta di filosofie che vengono imposte in modo "occulto", nel senso che molti (per esempio tra gli insegnanti) le professano e le diffondono in modo inconsapevole, difendendone alcune (apparentemente "innocue") conseguenze, senza essere coscienti dei principi, e delle catene di connessioni, da cui esse provengono (quando mai, insegnando matematica in un certo modo per tanti anni, mi sono reso conto per esempio di stare facendo professione di "evoluzionismo"?). Secondo, perché il loro successo non è basato su alcuna "superiorità scientifica", per intenderci di tipo logico-fattuale, come viceversa una grande operazione propagandistica induce a far credere, allo scopo di conferire maggiore autorevolezza a quanto in sostanza non è altro che un punto di vista, un'ipotesi, come un'altra. L'evidente (ulteriore) "paradosso" risultante è che, in un sistema che si autodefinisce "liberale", su taluni argomenti fondamentali si riscontrano invece maggioranze di tipo "bulgaro": "tutti" condividono gli stessi principi di fondo, o giudizi di valore, "tutti" insegnano che certe cose sono più "giuste" di altre, insomma, un'atmosfera di elevatissima omogeneità culturale che dovrebbe essere in sé alquanto sospetta.

35 La questione della "causalità" in teoria della relatività è piuttosto complessa, e non è possibile qui neppure accennarne. Se può dirsi in effetti che né nella relatività ristretta, né in quella generale, la causalità sia messa davvero a rischio, pure è certo che Einstein apre ai fisici il vaso di Pandora dal quale esce anche la critica aperta alla causalità che troviamo successivamente nella teoria dei quanti. E' inusuale da parte dei commentatori sottolineare le forti connessioni tra scomparsa del concetto di etere - dovuta comunque ad Einstein (pure alle relazioni non sempre "facili" tra Einstein e il concetto di etere non è possibile qui accennare: si veda per esempio quanto se ne dice nella pagina web http://itis.volta.alessandria.it/episteme/ep3-24.htm, a proposito della presentazione del libro di Ludwik Kostro, "Einstein and the Ether", Apeiron, Montreal, 2000) - e le teorie quantistiche, nella forma in cui queste si imposero, a seguito di un lungo dibattito (in realtà mai del tutto spentosi, perché quello che è troppo è troppo: vedi per esempio Franco Selleri, "La causalità impossibile - L'interpretazione realistica della fisica dei quanti", Ed. Jaca Book, Milano, 1988; peccato che la libera discussione sulle "interpretazioni" delle teorie quantistiche sia stata generalmente "accettata", mentre quella sulla relatività sia invece quasi "tabù"), nel corso del quale Einstein, a parziale ma tardivo riscatto, si schierò dalla parte perdente dei "critici".

36 Anche per la sua (indebita ma non troppo; vedi per esempio quanto se ne dice in Lewis S. Feuer, "Le radici sociali della teoria della relatività di Einstein", in "Einstein e la sua generazione - Nascita e sviluppo di teorie scientifiche", Ed. Il Mulino, Bologna, 1990) connessione con il "relativismo", su cui si fonda l'ideologia del "politically correct" fondamento delle "democrazie occidentali" (vedi anche la nota 8). Viene ripetuto fino alla nausea che queste non saranno forse l'optimum di una struttura sociale-politica, ma sono comunque il "meglio", quanto a rispetto della libertà e dei diritti umani, che la storia sia stata finora in grado di esibire sul suo palcoscenico, constatazione che, seppur vera, nulla toglie a chi ne evidenzia le caratteristiche negative, e vorrebbe quindi teorizzare forme di superamento.

37 Ricordiamo che Einstein risultò, al termine dei suoi studi, il peggiore dei laureati del 1900, e che fu definito "lazy dog" da Hermann Minkowski (l'architetto formalista della teoria della relatività, un altro degli "uomini di Goettingen"), il quale l'aveva conosciuto bene quando Einstein era stato suo studente a Zurigo (vedi Pyenson, loc. cit., p. 81: "[Minkowski] was surprised that Einstein had been able to formulate the special theory of relativity"; Pais, loc. cit. nella nota 14, pp. 44-45, che incappa però in qualche inesattezza).

38 Ciò va enfatizzato con forza, dal momento che viceversa tutti, o quasi tutti, i critici della relatività vedono invece nel II principio della teoria (quello famoso sulla "invarianza" della velocità della luce) la vera sconvolgente, e spiacevole, novità da essa introdotta, sicché si affannano a costruire teorie, e "trasformazioni", nelle quali è salvo il I principio (considerato quasi "sacrosanto", nella misura in cui si tratta di una convinzione "antica", che viene fatta risalire comunemente a Galileo - ma vedi quanto si accenna al riguardo nella nota 1 in "Most common misunderstandings about Special Relativity", http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/ERRORSVF.htm - e che Einstein si limita semplicemente a riprendere alla lettera, descrivendone però sviluppi imprevisti), ma non il II. Questo può considerarsi invece una sorta di convenzione operativa "secondaria" (addirittura una conseguenza necessaria del I principio e della teoria elettromagnetica di Maxwell), peraltro in pieno accordo, nell'esatta formulazione che ne dette Einstein nel suo primo fondamentale lavoro del 1905, con la "teoria dell'etere". I "guai" logici cominciano soltanto quando si unisce tale formulazione con il I principio!

39 Sottolineiamo, perché pochi lo sanno, che il "Maichelson" del famoso esperimento, premio Nobel per la Fisica nel 1907, non è un americano, come si potrebbe arguire dalla comune pronuncia del suo cognome (e dal fatto che le sue celebrate osservazioni ebbero luogo in quel paese), bensì un "tedesco", che aveva cominciato il suo lavoro sperimentale a Potsdam, sempre sotto la "protezione" benevola di Hilbert (per quanto riguarda il ruolo di "Potsdam" nella costruzione della teoria della relatività, vedi quanto se ne dice in "<<Efficere Deos>> - A proposito della costruzione del <<mito>> Einstein", http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/EFFIC.htm).

40 "Espaces courbes. Critique de la relativité", Torino. La presentazione qui citata di questo lavoro proviene dalla Prefazione del fisico Carlo Bernardini alla ristampa anastatica (Ed. Zanichelli, Bologna, 1981) del libro di Guido Castelnuovo di cui alla nota 17. Buffo notare che in http://www.imss.fi.it/milleanni/cronologia/cronscm/iscm1900.html (Cronologia Scienze matematiche e fisiche - Mille anni di scienza in Italia, a cura dell'Istituto e Museo di Storia della Scienza, Firenze), a proposito dell'opera in questione si dica soltanto: "1923 Cesare Burali-Forti e Tommaso Boggio pubblicano <<Espaces courbes>>, opera in cui per la prima volta si esprime la relatività generale attraverso il calcolo differenziale assoluto senza coordinate, ovvero in un linguaggio del tutto invariante". A parte il particolare della data (il 1924 risulta anche nella relativa scheda presso la Biblioteca Nazionale di Torino), il titolo viene riportato soltanto a metà, e si presenta il punto di vista degli autori in modo da lasciare intendere che fosse favorevole alla relatività. Sarà stato il Bernardini ad aver confuso un libro con un altro?!

41 Guido Fubini Ghiron (1879-1943) fu professore di Analisi Matematica al Politecnico di Torino. Costretto a lasciare l'Italia nel 1938 a seguito delle "leggi razziali", trovò rifugio a Princeton (presso l'Institute for Advanced Study), dove rimase fino alla morte.

42 Rocco Vittorio Macrì, nel primo dei saggi citati nella nota 19, preferisce parlare invece, seguendo Maritain, di una "modernità [...] affetta da una <<cronolatria epistemologica>>", a caratterizzare "un'epoca nella quale <<ci si accontenta di verità parziali e provvisorie>>, forzatamente <<costretti a costatare la frammentarietà di proposte che elevano l'effimero al rango di valore>>",ma è chiaro che ENTRAMBE le connotazioni hanno senso, e non sono tra loro contraddittorie.

43 Non stiamo scherzando: è di qualche mese fa l'annuncio che alcuni fisici sarebbero riusciti a far tornare indietro qualcosa nel tempo, sia pure per un periodo brevissimo, e che sperano comunque di riuscire a fare di più qualcosa nel "futuro" (ma se ci riusciranno, come mai non sono già tornati indietro a dircelo? Certo, un altro dei temi cari alla fanta-scienza, termine incredibilmente azzeccato, è quello che contempla infiniti universi paralleli etc., ma meglio lasciar stare...).

44 Secondo Hermann Weyl ("Filosofia della matematica e delle Scienze Naturali", Ed. Boringhieri, Torino, 1967, p. 61): "G. Cantor, manipolando il concetto di insieme senza restrizioni, e in particolare permettendo la formazione dell'insieme di tutti i sottoinsiemi di un certo insieme, ha sviluppato una teoria generale dei numeri cardinali e ordinali di insiemi infiniti; tuttavia proprio qui, all'ultima frontiera della teoria degli insiemi, sono comparse delle vere e proprie contraddizioni. La loro radice va considerata unicamente nell'arbitrio (commesso fin dall'inizio in matematica) di considerare un campo di possibilità costruttive come un aggregato chiuso di oggetti esistenti in sé". Parole profonde, sulle quali è necessario attentamente meditare, ma non bisogna esagerare, fino a cadere nelle restrizioni imposte dall'intuizionismo (vedi nota 33). Una "collettività" di enti si può ben concepire, ed "utilizzare", nella sua totalità (come quelle di tutti i numeri naturali, o dei punti di un segmento, o di una retta), senza che ciò sottintenda di necessità che sia concepito-concepibile singolarmente ogni elemento della totalità, dalla quale si potranno comunque estrarre via via tutti quegli enti particolari che serviranno nel corso di un'argomentazione.

45 Viene qui a proposito una riflessione di Federigo Enriques, di cui chi si occupa di "fondamenti" della matematica dovrebbe fare tesoro: "Se, come abbiamo detto, il valore di una teoria matematica fa appello a qualcosa che è al di fuori dell'ordine formato dalle sue proposizioni, il matematico che nel suo sforzo di astrazione e nel suo desiderio di compiutezza ha purificato la logica discorsiva, si trova condotto a riconoscere che questa logica dell'intelletto postula un giudizio superiore della ragione, che lo porta al di là delle stesse matematiche o almeno di ogni particolare dottrina di questa scienza. Distinguere una <<logica della ragione>> che supera la semplice <<logica dell'intelletto>> non è comune fra i matematici. Il loro amore per ciò che è chiaro e preciso li induce volentieri a concentrare tutta l'attenzione sui criterii meccanici del rigore formale della deduzione o della definizione [...] La discussione sulle definizioni mostra in molti casi quale senso logico più largo venga ad assumere il giudizio razionale" (da "Le matematiche nella storia e nella cultura", Lezioni pubblicate per cura di Attilio Frajese, Ed. Zanichelli, Bologna, 1938, p. 148).

46 Citazione da "Saggi scettici", ripresa da Corrado Mangione, "La logica nel ventesimo secolo (II)", in Ludovico Geymonat, "Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico", Vol. IX, Ed. Garzanti, Milano, nuova edizione 1976, p. 139 (vedi nota 4).

47 E qui ci sarebbe spazio per l'interrogativo: ma sono davvero possibili siffatte eterogenesi? Quando nasce un figlio nero, sappiamo che almeno un gene "nero" deve essere presente nella coppia dei genitori, sicché si sarebbe indotti a ritenere che, anche nel frangente ideale in questione, un "gene nero" debba esser presente sin dalle radici dell'illuminismo (vedi il noto simbolo prescelto per illustrare il quinto numero di "Episteme", http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/episte5.htm), e che non si tratti soltanto di un (più o meno "normale") fenomeno di involuzione-corruzione...

(UB, aprile 2002)

Featured image, Paul K. Feyerabend

Tagged as: Cultura, digital journalism, Giornalismo online, giornalista digitale, matematica, Rosebud - Giornalismo online, umberto bartocci


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :