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Celestino

Da Nubifragi82 @nubifragi

Charlie abbaiava. O forse ragliava. Si, sembrava un asino che abbaia. O un cane che raglia. Che differenza c’è tra Charlie e un somaro? si chiese Celestino mentre osservava la bava di Charlie esondare dalle fauci, due metri sotto. Entrambi obbediscono al padrone, entrambi si lascerebbero legnare fino alla morte. Ecco, posto davanti al terribile aut aut, Celestino avrebbe scelto di nascere asino, perché l’asino, per lo meno, quando non ce la fa più a portare il carico scoreggia e magari scoreggia in faccia al padrone. Celestino  pensò all’ipotetica scena e invidiò l’ipotetico asino. E se proprio la vogliamo dire tutta, pensò Celestino, non era la sola ragione per preferire l’asino a Charlie: c’era pure un attributo, del tutto maschile, di cui gli asini beneficiavano a volontà, mentre Charlie, Celestino ci avrebbe messo la zampa sul fuoco, risolveva il tutto in quelle due inutili biglie che portava appese sotto il buco di scarico. E con quale sacro ardore le avrebbe donate al figlio del padrone, se questi fosse rimasto senza palline da ping pong. Ma il motivo principale per preferire un asino a Charlie, era che gli asini non inseguivano i gatti. I cani si. Celestino fissò le zampe sul rudere che lo ospitava, come a volere divenire tutt’uno con esso, quattro alberelli che traevano l’energia vitale dalla pietra. Il rudere era quanto rimaneva del muro di recinzione della vecchia stalla, due metri per tre di sassi ricoperti di muschio, fissati assieme con calcina ormai polverizzata. Erano decenni che quel residuato di economia di sussistenza non aveva più utilità alcuna. Poi arrivò Celestino che, inseguito da Charlie, lo deputò a ricovero d’emergenza. Troppo sbrigativamente, pensò Celestino, cinque metri ancora e avrebbe raggiunto la stalla, sicuramente più attrezzata allo scopo. La sommità del muretto era inaccessibile a Charlie, ma non c’era via di fuga, il cane lo circondava come il mare con l’isola. Più che un’isola, pensò Celestino, uno scoglio.
- Ascolta, Charlie, vediamo di ragionare, io credo che tu non sia come ti dipingono e….
- Sei un leccaculo e mi stai sui coglioni, Celestino.
- Mamma mia quanto sei scurrile. Certo che se usassi quella grinta con il padrone…
- Che cosa vuoi dire? Chi ti autorizza a parlare del mio padrone?
- Padrone? Non ho detto padrone.
- Si che lo hai detto. Mi prendi in giro? Vieni giù, infame di un gatto che…
- Charlie, mi spieghi per quale motivo mi vorresti sbranare?
- Perché sei un bastardo.
- No, Charlie, non è questo il motivo.
- Si, sei un bastardo figlio di….
- Oh Charlie, per Dio, non mi pare un gran problema il fatto che io non sappia chi mi ha messo al mondo. Se proprio ti interessa, ricordo che mia madre aveva tre colori. Nero, bianco e… e rosso? Charlie, ti ricordi qual’era il terzo colore di mia madre?
- Marrone.
- Marrone, Charlie?
- Si, marrone come la – e così dicendo il cane ringhiò al cielo il suo compiacimento per una battuta, a suo intendere, alquanto riuscita. Celestino, sebbene riconoscesse l’arguzia del motto di Charlie, non ritenne opportuno ridere della madre per compiacere il sacco di pulci. – Di un po’, simpaticone, è vero che sei il migliore amico del tuo padrone?
- Invidioso?
- No, per nulla Charlie. Anzi, mi fai proprio pena, sai?
- E sentiamo, figlio di nessuno, perché ti farei pena? Perché posso avere tutto il mangiare che voglio? Perché il padroncino non potrebbe vivere senza di me? Perché…
- Perché quando gli pare ti mettono il guinzaglio? – lo interruppe il gatto – Sei un figurino col guinzaglio, sai Charlie? Quello con i diamanti di plastica made in China poi, che dire, ti da quel fascino promiscuo che fa un contrasto meraviglioso con la tua finta ostentazione di virilità. Il meglio è quando vedi un altro servetto come te al guinzaglio di un altro approfittatore come il tuo padrone e iniziate a dimenarvi e impennarvi e vi strozzate tirando quel guinzaglio di patacche e i padroni vi tirano dei gran schiaffoni nel sedere e vi dicono boni! boni! e voi niente, imperterriti a latrare sono più scemo io, no io, no io, no io perché sono il servo dei servi… – Charlie ricominciò a ringhiare nei confronti del gatto – Quelli come te, Charlie, mi fanno pietà, non conoscete la libertà, siete solamente dei follow the leader… – Vieni qui infame di un gatto schifoso! Ti spiego io chi sono… – No, Charlie, non ci vengo li, tu mi vuoi sbranare perché qualche umano deficiente ti ha tatuato nella testa che devi inseguire i gatti e questo dimostra quanto ho detto, cioè che sei un idiota al servizio del padrone – ora Celestino si era infervorato, la testa protesa in basso verso il cane, l’odio gli investiva il viso tirando la pelle verso le orecchie – vai, Charlie, vai che il padrone ti ha lanciato il bastone nel letamaio, vai che quando tornerai scodinzolando con il bastone sporco delle loro feci si faranno tutti una bella risata – Già pronunciando le ultime parole della frase, Celestino si era reso conto di averci dato troppo dentro. L’atteggiamento di Charlie poi, corpo in verticale, zampe anteriori piantate sul muretto e occhi iniettati di sangue, ricordava più l’autunno del 1939 che la primavera del 1945. Celestino portò indietro il corpo e si leccò i baffi – Vedi, Charlie – riprese Celestino appoggiando il corpo sul sedere – ora mi sono lasciato andare e mi scuso. Il fatto è che noi cani e gatti la si deve finire di fare a questa maniera…
- Celestino, tu a me non mi devi parlare, te la devi vedere sul campo codardo! Sei un vigliacco, siete tutti dei vigliacchi. Se solo tu avessi un briciolo di onore…
- Vedi, Charlie, qui sta l’errore: basta con questa logica di potenza. Vedi, anche il padrone non è che si scanna con la moglie…
- Questo lo dici tu. E comunque – disse Charlie – non voglio ascoltare ancora i discorsi di un parassita come te. Si hai capito Celestino – ribadì Charlie vedendo il gatto drizzare i baffi – un parassita sei, tu e la tua razza bastarda. E tu in particolar modo, sei un ipocrita parassita.
Celestino si levò sulle zampe, fece un giro su se stesso e disse – Come ti permetti? – ma la grinta di prima non albergava più nel suo animo. L’accusa di parassitismo aveva forato lo scudo della sicurezza e si era insinuata nel profondo. Il suo era l’atteggiamento timorato del bambino basso sbeffeggiato dai compagni per la statura.
- Cosa pensi, che non ti vedo? Non ti vedo, gattaccio bastardo, quando rubi nella mia ciotola? Non ti vedo e non ti vede il padrone, quando esci dalla cantina con la corda stretta nella tua bocca sudicia e il salame appeso alla corda che rotola dietro le tue zampe schifose? Non ti vedo quando fingi di cacciare lucertole e invece aspetti che la padrona vada ad appendere i panni per fiondarti in cucina? – E allora? – ribatté Celestino con un filo di voce – Io non sono un servo come te, io me le guadagno… – Guadagni un par di balle, Celestino! Tu rubi, io mi guadagno le cose col mio affetto incondizionato, con il mio amore puro e fedele. Tu sei un parassita – Io sono libero! – No tu sei un rognoso ladro! E non ti pensare che non veda nemmeno quando strusci il pelo nelle gambe del padroncino in cambio di un biscotto! – Non è vero! No, Charlie, parassita si, ma questo no! E’ la vostra falsa propaganda canina. Vergognatevi, testa bassa verso i potenti e menzogne verso i poveri gatti. Voi siete solamente invidiosi della nostra libertà - Ora Celestino non riusciva a stare fermo. Essendo lo spazio di manovra esiguo, continuava a girarsi su se stesso freneticamente. Ogni tanto si fermava e protendeva il corpo verso Charlie. Quest’ultimo incalzava, consapevole di giocare il game con il servizio dalla sua – Bello micino, bello, ma che bel pelo liscio, tieni il biscottino. E tu miao, miao miao! Eccolo lì che bell’anarchico che sei, Celestino!
L’alterco sarebbe durato ancora per chissà quanto, senonché Pippo, un gatto smilzo di una casa vicina, si palesò sulla scena. Ora, qualsiasi gatto, sentendo i latrati di Charlie, si sarebbe tenuto alla larga, ma Pippo era sordo e anche un poco tonto. Gli altri gatti gli avevano spiegato più volte: annusa Pippo, non ci senti una fava, per lo meno annusa. Ma Pippo camminava a testa bassa e naso chiuso, incurante dei tanti Charlie che popolavano il mondo. Quando si accorse della scena, Charlie e Celestino erano ormai a pochi metri. Si bloccò, la zampa anteriore sinistra ferma a mezz’aria. Charlie era di spalle e non si era accorto di nulla. Pippo guardò allora Celestino. Osservò la bocca dell’altro felino muoversi e tentò di decifrarne il labbiale: P-i-p-p-o. Pippo. E un bel sorriso sornione. E Pippo cominciò a correre.

Celestino sbadigliò. Il sole gli scaldava il ventre, l’erba soffice ne cullava il corpo. Peccato per il latrato fastidioso di Charlie. Ad una cinquantina di metri poteva osservare Pippo rifugiato su un albero, il cerbero latrante sotto. Tranquillo Pippo, pensò Celestino, tra mezz’ora arrivano i padroni e allora Charlie, la lingua, dovrà utilizzarla in un altro modo.



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