Magazine Arte

Charles Ray

Creato il 19 maggio 2014 da Artesplorando @artesplorando

È sempre rischioso leggere l’opera di un artista alla luce della sua biografia. L’io che si esprime nell’opera, come sosteneva Proust, non è lo stesso che si manifesta nella vita quotidiana. Tuttavia, il fatto che Charles Ray (1953) abbia trascorso l’infanzia in Illinois accanto a una sorella - l’unica femmina di cinque figli - malata di schizofrenia è un fatto che difficilmente si può ignorare. Tanto più che è stato lo stesso Ray a sottolinearne l’importanza in un’intervista con Robert Storr del 1998, poco prima della retrospettiva itinerante (New York, Los Angeles, Chicago) che lo ha stabilmente collocato fra i più interessanti scultori contemporanei. Alla domanda se vivere accanto a una schizofrenica avesse influenzato il suo lavoro, l’artista ha risposto: “Molto, veramente molto. È stato un po’ come crescere con L’Esorcista. Davvero bizzarro e allo stesso tempo molto normale per noi. […] Ricordo che una volta i miei genitori ci portarono a fare quello che doveva essere un viaggio di cinque giorni nel Wisconsin, e [mia sorella] urlò a tutto spiano durante le sei ore di viaggio. Era come un urlo di Munch, qualcosa del genere, non aveva fine. E quando arrivammo non smise, così dovemmo stare in macchina con lei tutta la notte a turno, in gruppi – con l’urlo”. 

Non ci sono figure urlanti nelle opere di Ray. Le sue sculture, astratte o figurative, sono immerse in un teso silenzio. Se l’esperienza infantile di convivere con una schizofrenica ha avuto un’influenza su di lui, questa deve situarsi a un livello meno aneddotico. Forse va cercata nei pressi di una delle intuizioni fondamentali che attraversano il suo lavoro: l’intuizione che la realtà è molto più complessa di ciò che percepiamo, pensiamo o immaginiamo di essa, e spesso del tutto divergente. 

Charles Ray

Charles Ray, boy

 

Divergente come può essere l’aspetto del tutto normale di una bambina dalla sua patologia psichica; divergente come la sua lucida intelligenza (“ha un bellissimo senso del linguaggio”, racconta ancora l’artista della sorella) dalle sue azioni imprevedibili. Divergente, infine, come l’apparenza di molte sculture di Ray dalla loro sostanza, sostanza talmente ben dissimulata che solo il titolo, talvolta, permette allo spettatore di afferrarla. E quando succede, il risultato è uno shock, come quello che si può provare parlando con qualcuno che da un istante all’altro si rivela chiuso in un universo psichico alieno, irraggiungibile. Un filo nero che collega il soffitto al pavimento, perfettamente perpendicolare, si rivela un sottile getto continuo di inchiostro (Ink Line, 1987). Alcuni oggetti su un tavolo di legno girano lentissimamente su se stessi grazie a motori invisibili (Table Top, 1988). Un anonimo cubo bianco posato sul pavimento ne minaccia seriamente la stabilità, perché è d’acciaio massiccio (7 ½ Ton Cube, 1990). Sono opere la cui complessità tecnica ha spesso richiesto all’artista, maniaco del perfezionismo, mesi o addirittura anni di lavoro, e il cui effetto è quello di riuscire a destabilizzare con la forza di un’allucinazione, sia pure per un secondo soltanto, la nostra convinzione di avere una presa sicura sulla realtà. Un effetto che, prima di dedicarsi alle forme astratte, Ray aveva ricercato includendo il suo stesso corpo in composizioni scultoree che chiamava ‘performing sculptures’, metà sculture metà tableaux vivants. Nella più famosa, ad esempio, l’artista, piegato in due, è issato su una plancia di legno che lo puntellava contro una parete; in altre, le sue braccia e gambe spuntano da parallelepipedi di metallo, eccetera. Questi riferimenti alla figura umana (e al corpo stesso dell’artista, in particolare) tornano ad affermarsi nell’opera di Ray a partire dagli anni ’90 e, legandosi alla sua ossessione per il capovolgimento delle apparenze, danno vita alla celebre serie dei suoi manichini.

Il manichino è inquietante di per sé, per la fredda illusione di vita che inscena, frutto di un canone di stilizzazione stabilito alla fine degli anni ’50 da uno scultore di nome Sears e tutt’ora in auge. Un canone che prevede, ad esempio, che una figura umana da vetrina debba sempre fissare nel vuoto, che non possa sorridere a meno che non raffiguri un bambino, e così via. Giocando su queste convenzioni e sulla scala, Ray ha realizzato alcune fra le sue opere più perturbanti, nel senso freudiano della parola: qualcosa che è al tempo stesso familiare e spaventoso. Le tre donne-manichino di Fall ’91 (1992) – sembrano del tutto normali se viste da una grande distanza, in fondo a un corridoio o a una sala molto vasta. Da vicino, invece, si rivelano sovradimensionate, svettano sullo spettatore di oltre mezzo metro, intimidendolo con i loro ferrei e immacolati tailleur. Il manichino di Boy (1992) sorride, e in ciò non c’è nulla di insolito, perché raffigura un bambino.

Ma il fatto che sia stato ingrandito fino alla statura dell’artista stesso lo colloca fra i manichini adulti, e fa sì che il suo sorriso appaia sinistro. No (1992) è una semplice fotografia che raffigura l’artista a mezzobusto, con le braccia conserte. Osservando con attenzione, però, ci si accorge che la figura fotografata è un dummy, per quanto straordinariamente realistico. L’apoteosi del filone antropomorfo dell’opera di Ray, il suo punto di non ritorno, è il famoso - e famigerato - gruppo scultoreo Oh Charley, Charley, Charley… (1992). Otto figure maschili nude, a grandezza naturale e con rifiniture realistiche, sono allacciate in una scena di sesso di gruppo. Basta un secondo sguardo, però, per rendersi conto che si tratta sempre dello stesso personaggio, ripetuto otto volte in posture diverse, e che questo personaggio è, ancora una volta, l’artista stesso.


Forse per comprenderlo meglio basta leggere quello che lui stesso ci racconta:"Ho avuto una fantasia un po’ folle che ho raccontato ai miei nipoti. Ho inventato una storia secondo la quale io sono in realtà una spia, e nelle mie sculture sono incorporate sequenze di informazioni che possono essere lette soltanto dalle persone che vanno in un museo e sono in grado di notare la scala di un polso rispetto a un pollice o a un altro dito; allora sono in grado di capire il folle significato che si trova in esse. I miei nipoti sanno che scherzo, naturalmente, ma la scultura ha davvero questo potenziale. Scandisce in sequenza il tempo e lo spazio; ecco ciò che conta, in qualche modo. Non voglio suonare come una specie di nerd visionario perché non lo sono, davvero, non ho nessuna grandiosa illusione riguardo alla scultura, la mia è solo una specie di intuizione. E forse si afferra appena un millesimo del modo di realizzarla". 


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Magazines