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Chi lo dice che i milanesi sono razzisti?

Creato il 21 settembre 2012 da Nicola Mente

Una metropoli che ha sperimentato una nuova forma di meltin’ pot

milano

La Milano che ci raccontano i media nelle ultime settimane è dipinta come una città aspra e dai contorni spigolosi, ove i recentissimi avvenimenti di cronaca nera hanno contribuito ad aprire una breccia su scenari di terrore urbano a sfondo internazionale. 

Gli immigrati, il nuovo corso di quella Milano da sempre proiettata alle logiche del meltin’pot, diventano protagonisti di quel che fino a poco tempo fa era esclusivo patrimonio culturale nostrano, cinema compreso: ve lo ricordate Maurizio Merli? 

Tra via Muratori e viale Padova, l’immaginario meneghino ne esce inzuppato d’odio e di intolleranza:  il tacciato grigiore s’incupisce, non facendo altro che alimentare la cattiva luce agli occhi del resto del Paese. Il leghismo, la cronica visione di scarsa umanità e le presunte difficoltà sociali indurrebbero a immaginare Milano come una città intollerante, la realtà però dice il contrario: dati alla mano, sotto la Madonnina c’è la più alta percentuale (circa il 19%) di stranieri tra i comuni con più di 200 mila abitanti. 

immigrati milano
La percentuale è indicativa, com’è indicativa la differenza tra Milano e il resto del paese per quanto riguarda le modalità d’inserimento dell’immigrato nel tessuto sociale cittadino. Il cielo sopra Milano non sarà lo stesso di New York, ma a vedere certi scorci non si può fare a meno di notare come l’integrazione culturale sia improntata su un modello ormai solido: alle diverse comunità che popolano il tessuto sociale meneghino viene offerto uno sviluppo che permette di mantenere le proprie tradizioni. Nello stesso tempo, la città si arricchisce di nuovi elementi identitari che con il passare del tempo son diventati vere e proprie risorse, dall’ambito produttivo a quello più folkloristico.

Chi lo dice che i milanesi sono razzisti?

Via Paolo Sarpi, la “Chinatown” di Milano

E così, dalla centralissima “chinatown” di via Paolo Sarpi al più periferico carosello di viale Padova, l’immigrato ha la possibilità di avere un atterraggio morbido tra i propri connazionali, tessendo nel contempo relazioni sempre più strette con le attività milanesi. Nonostante negli ultimi giorni vengano tirati in ballo paragoni strazianti (per chi legge) con gli anni di piombo, nonostante ci si soffermi più sulle nazionalità che sulle dinamiche dei tristi e recenti  avvenimenti, nonostante la continua connotazione negativa sul fenomeno immigratorio data dai media, c’è una realtà che ci racconta di una Milano sempre più all’insegna della mescolanza armonica che ben differisce dall’esempio quotidiano nella maggioranza delle città italiane.

milano immigrati

Sfilata ecuadoregna in Corso Venezia

Perché quel che superficialmente può essere visto come amore per il ghetto, è invece un efficace metodo di integrazione. Integrazione che si sviluppa anche attraverso il sempre più diffuso associazionismo di carattere sussidiario, spesso e volentieri composto da immigrati già integrati, pronti a dare una mano ai nuovi arrivati. Insomma, pare che per le vie del capoluogo lombardo la tolleranza ci sia, e neanche poca. D’altronde, Milano è abituata a gestire flussi immigratori dagli anni ’50: un tempo era la gente del sud, oggi sono nuovi cittadini del mondo. Proprio come dice l’assessore comunale ai diritti civici Daniela Benelli, «rispetto al passato è cambiata la geografia dell’ immigrazione, come dimostrano i numerosi nuovi residenti che provengono dal Piemonte e dall’Emilia Romagna. E’ la dimostrazione che Milano, nonostante i radicali mutamenti del suo tessuto economico e produttivo, resta sempre un polo attrattivo per chi vuole studiare e lavorare in un contesto di eccellenze».

Questo forse spiega perché ci sia stata un’ondata così massiccia da garantire l’aumento costante di stranieri: da 100 mila nel 1998 a 245mila del 2010. In poche parole, qualcosa come 12mila nuovi arrivi all’anno. Il primato di diffusione spetta alla comunità filippina, seguita a ruota da egiziani ed ecuadoregni.

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Insomma, appare chiaro che la Milano da bere degli anni Ottanta è ormai un tessuto sociale eterogeneo in cui si incastrano culture sempre più pronte ad intersecarsi per formare quella che è la forma della metropoli del futuro. Un universo pronto a rappresentare un modello interculturale armonico, che lascia spazio alle tradizioni del paese d’origine pur rappresentando quella forza propulsiva proiettata nell’avvenire, costruendo quello che sarà il milanese moderno: già secondo i dati attuali, prendendo alcuni esempi, un parrucchiere su sette è straniero, come è straniera una madre su tre: «E’ quanto emerge dai dati diffusi dall’Assessore all’Area metropolitana, Decentramento e Municipalità, Servizi civici del Comune. In base ai quali, oltre a questo fenomeno, si rileva anche un aumento dell’età media delle mamme nel Capoluogo lombardo, passata da 28,2 anni nel 1981 agli attuali 33,5 anni. Lievemente sopra la media nazionale (31,4 anni)» (dati presi da “Welfare Società e Territorio”).

Un meltin’ pot vero e proprio, che rende il capoluogo meneghino un invidiabile esempio di evoluzione nella gestione dei flussi migratori, considerando una realtà dinamica in cui sono gli stessi immigrati “veterani” ad incarnare una preziosa risorsa per l’integrazione dei nuovi.   

Insomma, altro che intolleranza, altro che Lega, altro che razzismo: il modello milanese è ciò di cui questo paese ha bisogno per affrontare al meglio l’avanzata di una nuova epoca, quella dell’abbattimento di ogni frontiera fisica ed ideologica. La società italiana del futuro parte da qui, nonostante il terrorismo mediatico voglia a tutti i costi farci credere il contrario.

(Pubblicato su Gli Altri Settimanale del 21 settembre 2012)


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