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Chi va piano va lontano: intervista a Josh Wool, il grande ritrattista che ama la lentezza

Da Ragdoll @FotoComeFare

Accomodarmi per intervistare e fotografare Josh Wool si è rivelato un piacere assoluto.

La quieta eleganza e la serietà dei suoi ritratti riflettono appieno la sua personalità.

Mi ha sorpreso con la sua profonda passione e conoscenza della cucina statunitense, in particolare dei frutti di mare.

La sua apertura mentale e la sua calda ospitalità mi hanno fatto sentire a casa, nell’ambiente intimo del suo appartamento.

Ha persino trovato il tempo di mostrarmi il suo libro di ferrotipi e le sue macchine fotografiche e di parlarmi dei suoi prossimi lavori…

Approfondendo il suo interesse per il periodo della guerra di secessione americana e per la storia e la cultura degli Stati Uniti, ho ricavato una nuova e maggiore comprensione  per il suo lavoro con i ferrotipi e per i suoi ritratti.

Insomma, Josh è impeccabile come fotografo e lo è anche nella sua vita privata.

Ti propongo qui di seguito la sua intervista.

Inizialmente volevi diventare uno chef ma la tua carriera è stata bloccata da un’operazione chirurgica, giusto?

In realtà lo sono stato. Ho lavorato per 12 anni come chef, per qualche tempo ho anche avuto un ristorante.

Poi sono stato operato alle mani e ai gomiti, circa cinque anni fa, e sono riuscito a continuare a lavorare per un altro anno e mezzo prima che diventasse troppo difficile.

Non riuscivo più a lavorare e stavo ricominciando ad avere problemi. È stato in quel periodo, dopo essermi operato, che ho preso in mano la fotocamera, come passatempo.

L’operazione ha decisamente limitato la mia carriera da cuoco. Avrei potuto abbandonare le padelle e cercarmi un posto da executive chef da qualche parte, ma in realtà non mi interessava granché.

Perché ti sei dovuto operare alle mani e ai gomiti?

Mi sono operato perché soffrivo di tunnel carpale e ulnare, in entrambe le mani. È stato il risultato di 15 anni di duro lavoro in cucina.

Quando ho finalmente deciso di operarmi mi faceva così male che non riuscivo a usare il coltello da cuoco, ero in grado a malapena di tenere in mano una penna.

L’intervento mi ha aiutato molto, ma mi sono rimasti danni permanenti ai nervi, che mi hanno spinto a guardarmi intorno in cerca di nuove possibilità lavorative.

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Quindi potresti dire che la fotografia, in un certo senso, per te ha un sapore un po’ amaro?

In realtà no. Ero pronto per un cambiamento.

Dopo 12 anni a lavorare 80 ore la settimana ero decisamente interessato a fare qualcosa di diverso.

È solo che non sapevo che il passo successivo sarebbe stata la fotografia. È semplicemente accaduto.

Mi sono trasferito a New York e le cose hanno iniziato a muoversi lentamente da sole, dandomi l’ispirazione per approfondire quest’idea un po’ più seriamente.

Cosa ti ha spinto verso la fotografia, al punto da fartela considerare come un’alternativa valida allo chef business? Hmm… come definirlo? Vita da chef? …ristorazione!

Ho iniziato davvero tardi con la fotografia, quando avevo 32 anni. Quindi non ho pensato che fosse una strada effettivamente percorribile, fino a un paio di anni fa.

Mi sentivo pronto per uscire dalla ristorazione, ho lavorato tantissimo, troppo, e avevo bisogno di staccare.

Ho scelto la fotografia come hobby e ho deciso di prendermi un anno sabbatico, trasferirmi a New York per rilassarmi e fotografare a più non posso.

Alla fine del primo anno si è creato un certo interesse intorno ai miei lavori e ho deciso di fermarmi per vedere dove tutto questo potesse arrivare.

Non avrei mai potuto immaginare che la fotografia sarebbe diventata una carriera. Avere raggiunto così tanto, in così poco tempo, mi stupisce sempre, ogni volta che ci penso.

Per me è stato un grande esperimento, un rischio enorme nel grande schema delle cose, ma ne è valsa la pena. Alla fine si è dimostrato davvero gratificante, nonostante le difficoltà di cambiare lavoro a metà dei miei trent’anni.

La vera spinta verso la fotografia, per me, è stato lo scoprire uno sbocco creativo e una voce che stavo cercando dentro di me da tutta la vita.

Oltre ai lavori che faccio per mantenermi, c’è molto altro che voglio esplorare attraverso la fotografia e questo è ciò che amo maggiormente di questo lavoro.

Le possibilità sono infinite.

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Cosa ti ha spinto a prendere in mano la macchina fotografica per puntarla addosso alle persone, invece che ai panorami o alle nature morte?

Mi sono sempre sentito attratto dalla ritrattistica.

Quando ero piccolo i miei genitori comprarono una casa che era stata abitata da accumulatori di oggetti compulsivi, i cosiddetti hoarder. Nel corridoio c’erano impilate almeno 20 anni di copie di Life e Nat Geo… e ho un ricordo di me, bambino, intento a sfogliare i giornali, mentre i miei genitori sistemavano la casa.

In quelle riviste c’erano foto di ogni genere, ma io rimanevo affascinato soprattutto dai volti.

Le fotografie di Dorothea Lange e Steve McCurry mi strabiliarono. Volevo essere anche io in grado di raccontare così tanto di una storia, con un singolo volto.

Anche se ai tempi non lo sapevo, penso sia stato proprio questo a ispirarmi inizialmente, e a spingermi a iniziare.

Ho provato a fotografare panorami, ma preferisco assolutamente i ritratti, l’interazione e la sfida nel cercare di far aprire una persona e prendere di lei ciò che voglio (ovviamente in senso fotografico).

Non so come spiegarlo, ma fare ritratti mi soddisfa ed è una cosa che, nel tempo, ho iniziato ad amare.

Cosa ti ha spinto, invece, a diventare uno chef?

Ho iniziato a lavorare nei ristoranti quando ero alle scuole superiori e ho continuato durante il college, per mantenermi.

Mi è sempre piaciuto il ritmo frenetico del lavoro. Ho iniziato a cucinare a 18 anni. Ai tempi stavo studiando storia e al terzo anno mi sono reso conto che non mi vedevo proprio a diventare un avvocato o un professore.

Gli orari non convenzionali della ristorazione e l’interesse verso la cucina mi attirarono. Mi ritirai per un semestre e a quel punto decisi che volevo diventare cuoco.

Mi piacciono i lavori manuali e fare il cuoco mi avrebbe permesso di farlo. Venne fuori che avevo del talento. Mi piace anche il cibo, perciò mi sembrò un’ottima idea.

Mi iscrissi a una scuola di cucina in Arizona e iniziai a lavorare in un ristorante di lusso, che si rivelò essere la vera scuola. Mi piaceva moltissimo il creare qualcosa con le mie mani e l’accettare la sfida di diventare uno chef.

Però questa è una cosa da fare quando si è giovani. È un lavoro estremamente complesso, fisicamente e mentalmente. Anche se durante i miei 20 anni da chef mi sono molto divertito, quando ho raggiunto i 30 ho iniziato a rendermi conto che mi stavo perdendo molte cose della vita e che non avevo più tempo libero per fare nulla.

Continuerò sempre ad amare il cibo, ma il mondo della ristorazione non mi manca per niente.

Oggi ti senti più tagliato per la solitudine della fotografia?

Devo dire di sì.

Passare da quegli orari assurdi a lavorare solo alcuni giorni al mese è stato un cambiamento molto apprezzato. Ed è bello anche poter lavorare in un ambiente molto più intimo.

Nonostante mi piaccia l’energia di uno studio pieno di persone durante i lavori pubblicitari,  adoro anche poter lavorare da casa: è un lusso che mi sto concedendo con molto piacere.

Mi piace la pressione che sento quando devo ottenere scatti di alto profilo per i miei clienti, mi elettrizza e mi fa sentire bene, ma è anche bello che non capiti 6 giorni alla settimana.

Lavorando pochi giorni al mese, cosa fai nel resto del tuo tempo?

Passo molto tempo a pianificare e lavorare su progetti personali.

L’anno scorso mi sono concentrato molto nell’approfondire le tecniche che si basano sul collodio umido, quindi passo molto tempo a fare ferrotipi.

È un processo piuttosto complicato e lungo, è necessario comprendere i processi chimici, saper maneggiare sostanze chimiche e saper controllare tutte le fasi del procedimento.

Passo anche molto tempo a farmi pubblicità, incontrandomi con potenziali clienti in modo da poter lavorare di più. Recentemente ho passato gran parte del mio tempo libero a rifare il mio sito e il mio portfolio.

Considerato il livello di attenzione necessario per un ferrotipo, come riesci durante uno scatto a mantenere concentrato il tuo soggetto? Il processo meccanico/chimico della macchina ti è mai di intralcio quando devi entrare in contatto con la persona che stai fotografando?

La maggior parte delle persone è piuttosto interessata al procedimento, perché non hanno mai visto niente del genere. Li coinvolgo più che posso, in modo da mantenerli concentrati.

Ci vogliono circa cinque o dieci minuti per fotografia, questo mi permette di parlare con i miei soggetti del procedimento stesso oppure delle cose della vita.

Dato che ogni foto dev’essere sviluppata non appena viene scattata, hanno la possibilità di vedere la magia del processo chimico nel momento stesso in cui avviene. La maggioranza delle persone si diverte molto nel vedere il negativo bianco latte diventare positivo nel fissante.

È un processo lento, ma bisogna essere veloci al tempo stesso. Mi piace il fatto che rallenti il processo di creare un ritratto, che diventa molto più intenzionale.

Con le esposizioni più lente, credo si possa tirare fuori di più dai soggetti fotografati. Nel mondo digitale di oggi, credo che le persone siano attratte da cose come questa.

È un procedimento alla fine del quale si crea un oggetto tangibile, che, come anche tu sai, sta diventando una cosa rara.

Ho visto un bambino prendere un ferrotipo, recentemente, e restarne assolutamente sconvolto. Non aveva mai visto una fotografia che non fosse su uno schermo.

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Come ti muovi tra i diversi formati: 4×5, digitale e Polaroid?

Per i miei lavori commerciali do la precedenza al digitale. Il 4×5 e i ferrotipi sono lavori più personali, per me.

Se qualcuno arrivasse con il progetto giusto sarei più che felice di scattare ferrotipi o 4×5. Il fatto è che c’è sempre più gente che non ha pazienza di aspettare i tempi necessari per lo sviluppo o per gli scatti, i tempi dello studio, e persino i tempi necessari per scattare…

Nel mio tempo libero, per fare ferrotipi, posso scattarne… hmm diciamo che, se faccio velocemente, posso realizzarne forse cinque in un’ora.

Confrontiamolo con quanti ne puoi ottenere su una macchina a pellicola o digitale. È un processo molto più lento.

Penso che se trovassi un progetto adatto sarei interessato a farlo, ma sono ben contento anche di scattare in digitale.

Senti di dover mantenere una coerenza nei tuoi lavori sviluppati in formati diversi?

Non necessariamente. Il digitale è una cosa, e sono sempre in cerca di cose nuove da esplorare e nuovi limiti da oltrepassare.

Credo che sia una parte del viaggio di ogni fotografo, cercare di scoprire nuovi elementi e provare cose nuove.

Esteticamente, credo di aver scoperto una nicchia che per me funziona e che mi piace davvero, quindi in un certo senso cerco di mantenermi entro quei binari, ma senza rinunciare a provare cose nuove.

Voglio dire, i miei lavori digitali sono completamente diversi da alcuni dei miei 4×5 e ferrotipi, per via dei limiti della loro componente analogica.

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I ferrotipi sono qualcosa che fai spinto dal desiderio di mantenere vivo un processo che sta scomparendo, li fai perché ti piacciono esteticamente, oppure hai ancora altre motivazioni?

In parte mi piacciono per l’aspetto storico, ma apprezzo anche la loro estetica.

Mi attira molto che siano tangibili: quando hai finito il procedimento hai in mano una fotografia unica, di cui è possibile la scannerizzazione. Ma non puoi farlo, perché la sua natura è quella, è ciò che è, e resisterà al passare del tempo.

Adoro tutta la procedura, è una sfida, mi fa pensare in termini diversi e questa cosa traspira nel mio lavoro digitale.

È questo ciò che cerco di portare con me, l’intenzione, lo scopo. Penso che ci sia bisogno di uno scopo, in ogni fotografia.

Cerco di portare questo senso dell’obiettivo con me anche nei lavori digitali. Cerco di non scattare 100 frame al secondo, prendendomi tutto il tempo necessario per fare la fotografia giusta ogni volta.

E non scatto miriadi di 4×5, scatto Polaroid qua e là, soprattutto per lavori personali. Mi coinvolge molto, ritengo che ti faccia pensare alla fotografia in maniera un po’ diversa rispetto a quando fotografi a grande formato.

Questo ti costringe a rallentare e prenderti il tempo necessario, mentre guardi attraverso quello schermo smerigliato, dove ogni cosa è capovolta e al contrario… e ti fa guardare all’immagine in modo differente.

Quel’immagine la vedi nella tua mente, la vedi mentre la guardi e mentre guardi in camera e sono tutte cose completamente diverse tra loro.

Quel che intendo è che, sì, mi piace la procedura, ma per me è anche una sfida quotidiana.

Recentemente, in un’altra intervista, abbiamo parlato di formati diversi, e di come il digitale sia ottimo per cogliere un breve attimo fuggente. Invece quando usi le lastre al collodio umido, cosa ti aspetti di catturare nei tuoi soggetti? Quando guardi attraverso il mirino cosa cerchi?

Sono d’accordo, il digitale è adattissimo a catturare quei momenti fugaci. Con i ferrotipi cerco tutto quello che c’è sotto a quegli attimi.

Secondo me, quando il tuo soggetto sta seduto assolutamente immobile per 10-20 secondi abbassa la guardia un po’ di più. Credo emergano un livello diverso di intensità e stoicismo, ma credo dipenda anche dal soggetto.

Non sto cercando di far tornare in voga lo stile di quei tempi, ma siccome è così iconico, mi piace mescolarlo con influssi nuovi.

Alla fine, sto solo cercando di fare ritratti onesti.

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Perché credi di essere portato a cercare questi momenti intimi, onesti?

Credo che molto derivi dalla mia tendenza a trovare la bellezza nella semplicità. Il mondo è diventato così rumoroso e caotico, ci sono continuamente un milione di distrazioni dai social, da internet, dalla tv… è bello poter spegnere tutto per un po’.

La ritrattistica è una cosa intima, richiede fiducia tra il fotografo e il soggetto anche se è solo per pochi momenti. Mi piace scovare proprio quei momenti.

Hai dei metodi specifici per creare questa fiducia?

Secondo me si crea dal mio essere genuino e onesto con i miei soggetti. Di solito cerco di conversare mentre scatto e in molti casi utilizzo la luce naturale, così non c’è la distrazione dei flash che irrompono ogni manciata di secondi.

Per alcuni progetti uso luci artificiali, ma per i ritratti a volte trovo siano intimidatori. Mi piace mantenere la concentrazione del soggetto sull’essere presente. Non è sempre un compito semplice, ma è una sfida che mi piace affrontare.

E la conversazione generalmente in cosa consiste?

Dipende dal soggetto, ma cerco di conoscerlo un po’ meglio, di farlo parlare delle cose che gli piacciono.

A volte faccio domande sulla sua vita, a volte sono i soggetti a chiedere cose a me. Non ho una regola ferrea da seguire. Cerco solo di seguire l’istinto e le mie percezioni, e procedo da lì in poi per come mi sento.

Non funziona sempre, alcuni semplicemente non vogliono aprirsi o sono soggetti difficili, perché non si sentono a loro agio di fronte alla macchina fotografica.

Con le celebrità (attori, musicisti e così via) hai solo pochi minuti, quindi puoi solo buttarti. Cerco di lavorare piuttosto rapidamente, per minimizzare il loro senso di disagio e di solito le persone apprezzano molto questa cosa. Poi vedrò se avrò la possibilità di ottenere qualche scatto extra alla fine, con il soggetto più rilassato.

A livello fotografico, ci sono cose su cui vuoi ancora lavorare? Oppure sei soddisfatto e ti senti “arrivato”?

Ci sono tantissime cose su cui vorrei lavorare. Con la fotografia ho davvero appena iniziato.

Ho preso in mano una macchina fotografica per la prima volta solo cinque anni fa. È abbastanza strano che abbia fatto così tanti progressi in così poco tempo.

Vorrei essere in grado di svolgere lavori commerciali ed editoriali in modo da sovvenzionare progetti artistici e personali. Mi piacerebbe tantissimo viaggiare e fare ritratti lungo i miei spostamenti.

Mi sento soddisfatto e arrivato? Assolutamente no.

Ho fiducia nelle mie capacità, ma c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare. C’è sempre la prossima sfida da superare. C’è sempre qualcosa da esplorare.

Come carriera, fino ad ora sono riuscito a crearmi un buon elenco di clienti, ma non sono ancora arrivato al punto da sentirmi sicuro. In senso artistico, invece, sto ancora cercando di capire cosa esattamente voglio sia al centro dei miei progetti personali.

Non sono mai soddisfatto del punto che ho raggiunto, sono sempre stato una persona ambiziosa e capace di prendersi rischi, quindi sedermi sugli allori non è mai stata un’opzione da considerare. La parte più dura, oggi, è capire come muovermi nei miei nuovi orizzonti lavorativi.

Praticamente io ho fatto un salto nel buio e sto iniziando a capire le cose man mano che procedo lungo la strada che sto tracciando.

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Quale sarà il prossimo rischio che affronterai?

Continuerò ad affrontare quello attuale: rendere finanziariamente sostenibile questo grande esperimento, fare della fotografia una carriera.

Fotograficamente, il prossimo grande rischio sarà quello di passare al formato 8×10, ed eventualmente anche 16×20, così come approfondire i processi di stampa.

Mi piace molto la fotografia digitale, ma non resisto alla mia tendenza di tornare alla tecnologia del passato. Credo che sia importante cercare di mantenere viva la tradizione di fare fotografie e stampe manualmente.

C’è un qualche cibo che ti manca sui menù di New York? Qualcosa di cui hai nostalgia?

Che domanda difficile. Io vengo dal sud, ci sono alcune cose e alcuni posti che mi mancano. Parlo di cibo locale, alimenti regionali, culturali, che non riesco a trovare facilmente qui. Ma a New York ci sono tantissime altre cose, sanno fare bene anche la carne alla griglia, qui.

Pensi che le persone abbiano pregiudizi sul sud degli Stati Uniti, da dove vieni tu? C’è qualche luogo comune che vorresti cambiare, qualcosa che le persone vedono in un modo che disapprovi?

Questa domanda abbraccia una grande ventaglio di cose. Io ho un rapporto di odio e amore con il sud e ci sono molte cose ancora troppo arretrate…

Però, sai, è un posto veramente meraviglioso, ci sono tantissime persone davvero in gamba e, con la tendenza del mondo verso la globalizzazione, molti di questi stereotipi stanno diminuendo.

Non so se ci sono troppi pregiudizi, io credo che ogni cosa abbia sempre un fondo di verità. Ci sono cose positive e negative nel sud, così come ci sono cose positive e negative anche qui a New York.

È una cosa molto interessante da vedere. Per esempio, noto più differenze tra i diversi quartieri di New York, ci crederesti? In un quartiere vivono gli ebrei chassidisti, gli afroamericani in un altro, e i caucasici in altri ancora… qui è solo tutto più evidente, un po’ più schietto di come sono le cose al sud.

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Potresti spingerti fino a dire che i newyorchesi dovrebbero guardare al sud degli Stati Uniti come a un modello da imitare?

Questo non lo so. Ci sono tantissimi problemi culturali e socioeconomici, non mi sento in grado di affermare di poterli capire nemmeno superficialmente.

Non sono un politico (ride). In fondo, io faccio fotografie. Prendo le persone singolarmente, buone o cattive che siano, e cerco di far sì che l’etnia e la cultura di origine di una persona non mi condizionino.

Come scegli le persone che fotografi?

È un concetto vago e indefinibile per me. Qualcosa c’è, può essere qualcosa che riguarda la persona… molto lo fa la sua personalità. Possono essere le caratteristiche del suo viso, può essere, sai, tutto un insieme di cose…

Più vado avanti e più divento selettivo. È una sorta di sensazione di pancia, quando il volto di una persona mi risulta interessante. Non sono in grado di definirlo chiaramente a parole. Diciamo che si parte sempre da qualcosa che trovo interessante.

C’è uno sguardo o un’ emozione che ti piace trovare nelle persone che fotografi? Le istruisci in qualche modo?

Molti dei miei ritratti sono tendenzialmente sobri, quieti, hanno questo tipo di serietà. È un riflesso anche della mia personalità.

Do poche indicazioni, ma quelle che do non riguardano molto l’emozione. Si concentrano più su come orientare il mento, volto più in alto o in basso, cose così.

Mi baso molto sul lavorare senza troppo rumore. Alcuni lavori si svolgono in ambienti chiassosi, ma io preferisco questi momenti intimi, calmi.

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Quindi cerchi di far emergere ciò che le persone contengono già in sè?

Esatto.

Guardi i lavori degli altri fotografi? O sei più concentrato sui tuoi?

Sono abbastanza aggiornato, ma non passo una quantità esagerata di tempo a guardare i lavori di altre persone. Ho passato molto tempo a sfogliare fotografie, ancora prima di aver mai preso in mano una fotocamera, e penso che questo abbia costruito, in me, il senso di cosa sia una buona fotografia.

Tutte le foto viste su quei numeri di Life e Nat Geo, trovati nella casa che avevamo comprato, credo si siano come impresse nelle profondità della mia mente, e, inconsciamente, riemergano nei miei lavori.

Guardo le fotografie degli altri ma cerco di fare in modo che non mi influenzino in quello che faccio. Ovviamente ci sono alcuni fotografi che amo e che mi hanno influenzato moltissimo, ma a questo punto credo che sia quasi deleterio andare a vedere i fotografi che vanno di moda e cercare di inseguirli.

Imitare la visione di qualcun altro invece che continuare a tracciare il tuo cammino è sbagliato.

Nel mondo della fotografia contemporanea c’è qualcosa che cambieresti o elimineresti del tutto? C’è un cambiamento che ti piacerebbe fare?

Non mi piace parlare male degli altri fotografi o di ciò che succede in giro, ma oggi si vede molto questa moda del flash…

In stile Terry Richardson?

Sì, per esempio, ormai è ovunque nelle fotografie di moda. Ci sono tantissime altre persone che lo stanno facendo e, per esempio, negli ultimi mesi sono uscite diverse pubblicazioni importanti dove sembra che tutto punti allo stesso denominatore comune, quando, invece, dovrebbero cercare di distinguersi dalla massa.

So che le persone hanno bisogno di vendere le loro pubblicazioni, i loro prodotti, però…

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Tu enfatizzi molto la luce, sia nei tuoi lavori fotografici che nelle tue conversazioni… sembra che per te sia un tema importante. Quali sono le tue impostazioni di luce preferite? Hai un modello (qui, nel tuo studio, o altrove) che ti piace utilizzare?

Mi piace sfruttare la luce naturale. Il più possibile.

Alla fine, usando i flash si cerca solo di imitare la luce naturale. Ho familiarità con la luce artificiale e i flash, ma preferisco di gran lunga una luce che provenga dalle finestre aperte, o qualcosa del genere.

Ci sono tantissime cose che puoi fare, dinamicamente, anche solo con la luce. Ci sono 5 o 6 modi diversi di illuminare qualcuno solo con la luce che filtra attraverso una finestra.

Cerco soprattutto l’ombra aperta, dà un’illuminazione che mi piace particolarmente. Ma ci sono volte in cui vorresti qualcosa di più dinamico e vai a cercare le ombre. Quando sono in studio uso flash, riflettori beauty dish e softbox.

Cerco di non avere più di tre luci, perché altrimenti impiegherei più tempo a sistemare le luci che nel trovarmi faccia a faccia con il soggetto.

Un’altra cosa di cui sono convinto è che, nei ritratti, quando spari in faccia a una persona il flash ogni tre secondi ,la distrai molto, la infastidisci.

Questo l’ho sperimentato prima su me stesso: quando vengo fotografato il flash mi dà un senso di tensione. Per quanto mi riguarda, quando faccio un ritratto meno distrazioni ci sono e meglio è.

Quindi cerchi di realizzare sessioni fotografiche molto intime?

Sì, cerco di mantenere il set estremamente tranquillo. Anche nei miei lavori commerciali preferisco non avere distrazioni, così possiamo concentrarci sul lavoro e non su chi abbia bisogno di un caffè, o preoccuparmi di qualcuno che sta giocando con il cellulare o il cui telefono sta suonando… Mi piace lavorare eliminando tutte le distrazioni.

Noto che ti concentri molto sull’America. Ti piace fotografare il West, ho visto che ti piace quella fotografia (che credo sia di Avedon), del croupier di blackjack nel vecchio West. Ho la sensazione che i tuoi lavori tendano a tornare lì. C’è un motivo particolare? Ci sono altri paesi che ti piacerebbe fotografare?

Ho studiato storia al college e sono sempre stato affascinato dagli Stati Uniti, come nazione. Ci sono tantissime persone che non hanno visto gran parte di questo Paese.

Intorno ai 20 anni, ho fatto unlungo viaggio on the road, nel quale ho toccato più o meno tutti gli stati. È un territorio veramente vasto, molto differenziato. Le persone sono differenti, le culture sono differenti.

Puoi guidare per 8 ore verso ovest e trovarti nel deserto o in mezzo alle montagne. Si tratta, in parte, di provare quel sentimento nostalgico per le radici e il mito della storia americana, credo. Quella sensazione è molto interessante per me.

Vorrei andare in America del sud e vedere cosa c’è, vorrei visitare l’Asia, mi piacerebbe tantissimo andare in Giappone. Ma credo sia importante sapere da dove vieni, prima di tutto.

Negli Stati Uniti c’è una tale diversità, tra immigranti, persone che sono qui da generazioni… ci sono tantissime storie da raccontare e penso che sia questo ad attirarmi così tanto nel paesaggio americano.

Bellissimo.

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Articolo di SIMON ZACHARY CHETRIT, liberamente tradotto dall’originale: http://thephotographicjournal.com/interviews/josh-wool


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