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Come leggere un racconto /15 – Greenleaf di Flannery O’Connor

Da Marcofre

Si asciugò gli occhi col tovagliolo, si alzò e andò alla finestra, a guardar fuori. (…) I pascoli bastavano a calmarla.

Si è già detto, qui e altrove, che una storia è fatta di slanci, e di pause. Non importa che sia un racconto, oppure un romanzo. La “pausa” non è una minore tensione della storia, ma è un approfondimento della storia. Un po’ come il corso di un fiume che prima di sfociare nel mare, scorre, precipita, ma spesso indugia e disegna percorsi lenti, come se non volesse arrivare troppo presto alla sua naturale destinazione.
Perciò il termine pausa è improprio, eppure ci aiuta a comprendere come una storia viene costruita.

In un certo senso si dirama, ma con molta cura e prudenza. Abbiamo iniziato con la signora May che di notte scopre un toro randagio sotto la sua finestra. Abbiamo conosciuto il signor Greenleaf, la moglie che prega nel bosco, i loro figli e quelli della signora May. Di questa donna sappiamo come la pensa, ma anche il segreto dolore che cova nel cuore: i figli se ne fregano di lei, della sua fattoria. La sua unica consolazione, in un mondo di fannulloni e menefreghisti è osservare i suoi pascoli.

“Tutto è contro di te,” spiegava lei. “Il tempo è contro di te, la terra è contro di te, i dipendenti sono contro di te. Tutti sono in lega contro di te. Bisogna per forza usare il pugno di ferro”.

Lei lo ha fatto, ma non ne ha ricavato granché. Flannery O’Connor non ci consegna solo una donna del Sud degli Stati Uniti che lavora duro. Ci consegna il prototipo di essere umano in guerra contro ogni cosa. La retorica statunitense ha molto celebrato questo modo di pensare, e di affrontare la vita quotidiana. Per dimostrare che la Terra Promessa esiste, e sono appunto gli Stati Uniti. Alla fine se un uomo, o una donna, lotta, viene premiato, non esistono dubbi.

Flannery O’Connor qualche dubbio ce l’ha, e illustra infatti la signora May che segue alla lettera i dettami di quella cultura: lotta contro tutto e tutti. Ma cosa ne ricava, in fondo?

“Guardate il pugno di ferro della mamma!” urlava Scofield, e le afferrava il braccio, tenendolo in alto, in modo che la manina fragile, venata d’azzurro, penzolasse dal polso come la corolla di un giglio spezzato. E invariabilmente gli ospiti scoppiavano a ridere.

Brano interessante. In questa fattoria ogni tanto arrivano degli ospiti, e forse a pranzo, Scofield, l’assicuratore di successo che però vende polizze ai negri, prende in giro la madre. Gli ospiti ridono. Qui abbiamo due aspetti da tenere in considerazione.

La prima: il pugno di ferro della signora May viene canzonato in maniera amabile da parte del figlio. Noi sappiamo però la verità, e cioè che tra lei e i figli i rapporti sono tutt’altro che idilliaci. Si tratta quindi di un quadretto a uso e consumo degli ospiti: mostriamoci come una bella famiglia. Un po’ come fa la signora May, che è una buona cristiana ma non crede a quelle cose. A Dio insomma. Ho già scritto nei post precedenti come le forme siano usate e adottate per ottenere il consenso della comunità di cui si fa parte.

Un autore quando scrive, non scrive tutto, ma fa sempre in modo di comunicare ogni cosa. L’esordiente spreca pagine per esprimere certi concetti o illustrare l’ipocrisia delle persone.

L’autore capace mette in mostra le cose come stanno; poi mette in mostra le cose come appaiono agli estranei (gli ospiti nel caso di questo brano). Lui però sa che alcuni lettori apprezzeranno questo suo modo di spiegare l’ipocrisia, il formalismo di certe famiglie. E spesso lo fa con poche righe. Non importa che siano tanti o pochi quelli che se ne renderanno conto. Occorre agire in questa maniera, e basta.

L’altro aspetto che merita una menzione è:

la manina fragile, venata d’azzurro, penzolasse dal polso come la corolla di un giglio spezzato.

Bisogna sempre avere il timone ben saldo in mano, ma un autore sa che una storia o è efficace oppure non lo è. Per questo Flannery O’Connor assesta qui due colpi da maestra (almeno secondo me).

Il primo: rende viva questa immagine. Mostra.

La mano è fragile (questo dovrebbe essere sufficiente): eppure Flannery ci comunica che è una “manina”. Non credo si tratti di una ripetizione inutile; è necessaria per parlare quasi sottovoce al lettore e trasmettere un’altra informazione, a proposito di quella persona. È minuta e fragile, dietro quella durezza c’è un essere solo. Al quale nessuno bada, Ancora una volta: non si deve scrivere tutto, ma è necessario comunicare ogni cosa.
Il secondo:

come la corolla di un giglio spezzato.

Altra immagine forte, che mostra (gli ospiti se ne renderanno conto? O sono troppo impegnati a ridere? Chi legge, quanto è lettore, e quanto è ospite?) la realtà. La signora May in fondo è un giglio spezzato. Nel momento in cui il figlio, menefreghista, ne mostra il “pugno di ferro”, ne celebra in realtà la debolezza. Ed è una debolezza di cui anche lui, come il fratello, è responsabile. Non è una fragilità solo fisica, ma più profonda, drammatica.

Come leggere un racconto /14 – Greenleaf di Flannery o’Connor.


Filed under: buona scrittura, cassetta degli attrezzi Tagged: flannery o'connor, scrivere bene

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