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Come si muore in carcere

Creato il 15 luglio 2011 da Fabry2010

Come si muore in carcere

Come si muore in carcere
di Costantino Cossu

Storie di vite spezzate mentre erano affidate, in regime di restrizione della libertà, a strutture di polizia, carcerarie o sanitarie. Venti storie, raccontate dal libro curato da Luigi Manconi e da Valentina Calderone che Il Saggiatore pubblica con il titolo Quando hanno aperto la cella. Nuda vita, vita inerme cancellata dalla brutalità di un potere soverchiante. Come in un campo di concentramento nazista, come nei gulag.

Basta riassumerne uno solo di questi racconti, per capire. Il più impressionante descrive il calvario di Katiuscia Favero, che muore neppure trentenne nel fango del cortile di un ospedale psichiatrico giudiziario, ufficialmente suicida. Già dai tredici anni Katiuscia manifesta un disturbo di personalità borderline e comincia a consumare droghe. Compie piccoli reati per procurarsi i soldi. Come in decine e decine di altre storie simili, a brevi periodi in carcere se ne alternano altri in cui Katiuscia riesce a farsi aiutare da psicologi e assistenti sociali. Poi, nel gennaio del 2002, viene arrestata per il furto di un orologio (anche se la madre dice che le prove della colpevolezza della figlia sono tutt’altro che certe) e rinchiusa nel carcere di Pontedecimo, a Genova (Katiuscia vive a Savona con la madre e una figlia, Juliana). Non la tengono, però, in cella; dopo la sentenza di condanna il giudice preferisce affidarla ai medici dell’Opg (ospedale psichiatrico giudiziario) di Castiglione delle Stiviere, a Mantova. “Qui”, raccontano Manconi e Calderone, “nel febbraio del 2002 denuncia un medico per molestie e due infermieri per violenza sessuale. Il giorno successivo alla denuncia, due medici dell’Opg (marito e moglie) dimettono la paziente, determinandone così il ritorno nel carcere di Pontedecimo. Questa la motivazione: la Favero non presenta significative alterazioni fisiche tali da giustificare la sua presenza nella struttura. Tre anni dopo, il 2 maggio 2005, quando la pena detentiva inflitta a Katiuscia sarà terminata, anziché essere rimessa in libertà, la donna verrà dichiarata pericolosa per se stessa e gli altri e le verrà imposto, nuovamente, un periodo di osservazione in un ospedale psichiatrico giudiziario. Così Katiuscia Favero, a fine pena, verrà rimandata in quello stesso istituto dove aveva denunciato di aver subito violenza e da cui era stata allontanata perché considerata ‘non abbastanza inferma di mente’”. Poteva essere rimandata a casa dalla madre e dalla figlia; la rispediscono, dopo tre anni di galera, nello stesso posto dove aveva denunciato di aver subito una drammatica vicenda di violenza (quando Katiuscia viene riassegnata all’Opg di Mantova, dei tre denunciati uno, un infermiere, è stato trasferito in un altro Opg, gli altri due, il secondo infermiere e il medico, sono ancora al loro posto in attesa che si concluda l’inchiesta per accertare le loro responsabilità). La madre di Katiuscia cerca di fare uscire sua figlia da quel posto e riesce a ottenere il trattamento domiciliare con l’assistenza di una struttura medica pubblica. Viene fissata una data, il 28 novembre 2005.
Quel giorno l’incubo sarà finito. Ma non andrà così: nella notte del 16 novembre, a pochi giorni dalla sua dimissione, Katiuscia sarà trovata morta, appesa alla grata di un pollaio nel cortile dell’ospedale, con un lenzuolo bagnato stretto intorno al collo. Ma a parte le non poche incongruenze che vengono subito rilevate a proposito delle modalità del “suicidio”, perché mai avrebbe dovuto uccidersi una donna che sapeva che, a distanza di pochissimi giorni, il suo strazio sarebbe terminato? Troppe le cose che non tornano, tanto più che alle 16.30 proprio del 16 novembre la madre riceve una telefonata allarmata di Katiuscia: “Mamma portami via da qui. Aiutami, non ce la faccio più. Ho paura, stanno succedendo cose strane”. Poco più di cinque ore dopo, Katiuscia è morta. Inchiesta della magistratura? Così raccontano Manconi e Calderone: “Il procuratore generale di Brescia avoca le indagini e, a conclusione delle stesse, emerge una responsabilità in capo al medico di turno quella notte, lo stesso indagato anni prima per le molestie sessuali. A lui, inquisito per omicidio colposo, si contesta di non aver messo in atto gli interventi necessari per impedire la morte della Favero”. Ma nel corso dell’udienza preliminare viene emessa sentenza di non luogo a procedere: le accuse a carico del medico non sono ritenute rilevanti. Della morte di Katiuscia nessuno è responsabile.
Sono tante, tra quelle raccontate in Quando hanno aperto la cella, le storie che finiscono così. Specialmente tra quelle (tredici) raccolte nella seconda delle due sezioni del volume, dove si allineano tragedie che si consumano nell’indifferenza generale e che partono tutte da piccoli reati di cui sono protagonisti per lo più marginali, ma non sempre (ci sono anche un tecnico informatico accusato di truffa insieme con diversi altri impiegati della sua ditta e un falegname che entra nel tunnel che lo porterà alla morte in carcere per aver coltivato qualche pianta di marijuana per uso personale). La prima sezione del libro, invece, si apre con il caso di Giuseppe Pinelli (15 dicembre 1969) e si chiude con quello di Carlo Giuliani (20 luglio 2001), passando per le vicende di Franco Serantini (7 maggio 1972), di Nanni De Angelis (5 ottobre 1980), di Salvatore Marino (2 agosto 1985) e di Federico Aldrovandi (25 settembre 2005). Tutti casi con una forte proiezione pubblica e un conseguente rilievo mediatico, tranne quello di Aldrovandi, che è emerso solo grazie al tam tam via Internet e alla meritoria opera di informazione del quotidiano “Il manifesto”. Così come è grazie ai blog che è stato possibile sapere dell’incredibile calvario di Stefano Cucchi, al quale il libro di Manconi e di Calderone dedica l’ultimo capitolo prima di due utili appendici: una sulle cifre delle morti (1736 dal 200o al 2010) in carcere, negli Opg, nelle questure, nelle caserme dei carabinieri, nei reparti giudiziari degli ospedali, nei centri di identificazione e di espulsione; l’altra un glossario sui luoghi e sui modi di privazione della libertà.
Cittadini che, per i più diversi motivi, sono affidati a strutture dello Stato nel momento in cui la loro libertà viene limitata o cancellata (quindi in un momento in cui sono deboli, psicologicamente fragili ed esposti), escono da quelle strutture morti, spessissimo dopo aver subito inaudite violenze o, in molti casi, essere stati semplicemente abbandonati, non curati, non assistiti, sino all’esito fatale. Manconi e Calderone descrivono minuziosamente il meccanismo, sempre lo stesso in tutti i casi narrati, che dalla discrezionalità all’abuso, sino all’aperta violazione della legge, avviluppano in un unico contesto di reciproche coperture e di omertà poteri di polizia, poteri giudiziari e poteri sanitari, stretti insieme in una macchina infernale che stritola esistenze inermi; il più delle volte nell’agghiacciante silenzio di un sistema dell’informazione sempre più orientato, anche quando fa finta di fare opposizione, dalle regole ferree dell’intrattenimento. Ma se il libro di Manconi e di Calderone solleva un problema di deficit di legalità, ha anche il merito di non fermarsi lì. Non è infatti una questione di poche mele marce che non rispettano la legge e che vanno individuate e punite. E nemmeno è solo una questione di riforme normative che rendano più difficili gli abusi e le violenze, o di sensibilizzazione di chi opera nelle strutture coinvolte a una cultura del rispetto dei diritti dei cittadini e della dignità della persona. A questo livello si arresta l’introduzione al volume firmata da Gustavo Zagrebelsky. E va benissimo. Ma non basta. Le questioni che pone questo libro, davvero importante, sono anche altre e hanno una valenza politica forte. Rimandano all’uso strumentale dei problemi della sicurezza e dell’ordine pubblico che si è fatto in Italia da Giuseppe Pinelli sino a Carlo Giuliani, ma anche sino a Katiuscia Favero e a Stefano Cucchi. La criminalizzazione di tutto ciò che non rientra nella “normalità” che regge i più vasti equilibri di potere su cui si fondano le nostre società e che vanno preservati e difesi: questo è il vero tema del libro. Immigrati, tossici, malati mentali, piccoli balordi, irregolari e marginali da una parte; dall’altra le figure di un antagonismo (Pinelli, Serantini, il movimento anti G8 a Genova) non riducibili dentro gli schemi di un gioco che sempre più si rivela in perdita per moltissimi e vantaggioso solo per ristrette oligarchie. Le violenze, i pestaggi, le persone lasciate morire in una cella o legate a un letto di contenzione, l’intolleranza verso i diversi fatta diventare senso comune e angoscia quotidiana con la complicità dei media: tutto ciò non è l’eccezione rispetto a un tranquillizzante stato di legalità. è la normalità di un ordine del potere che fa della paura, alimentata da un perenne stato di emergenza, una delle sue più potenti armi di autoconservazione.

Tratto da “Lo Straniero” N.133 Luglio 2011



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