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Comitato Nazionale di Bioetica: «l’obiezione di coscienza è un diritto inviolabile»

Creato il 27 agosto 2012 da Uccronline

Comitato Nazionale di Bioetica: «l’obiezione di coscienza è un diritto inviolabile»

 

di Aldo Vitale*
*ricercatore in filosofia e storia del diritto

 

Lo scorso 30 luglio 2012, il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB)  ha approvato l’atteso parere sul rapporto tra obiezione di coscienza e bioetica nel quale si afferma, tra gli altri elementi, che «l’obiezione di coscienza in bioetica è un diritto costituzionalmente fondato (con riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo), costituisce un’istituzione democratica, in quanto preserva il carattere problematico delle questioni inerenti alla tutela dei diritti fondamentali senza vincolarle in modo assoluto al potere delle maggioranze, e va esercitata in modo sostenibile».

Senza dubbio, almeno ad una prima ricognizione, potrebbe apparire superfluo specificare che l’obiezione di coscienza possa essere annoverata tra i diritti costituzionalmente fondati, poiché già il portato degli articoli 19 e 21 della Costituzione medesima sembrerebbero offrire la massima garanzia per la tutela del cosiddetto “foro interno”. Potrebbe sembrare anche del tutto tautologico e ridondante ritenere, oggi come oggi, che la obiezione di coscienza costituisca una istituzione democratica, soprattutto considerando la stabilizzazione culturale dell’idea di autodeterminazione, soprattutto nell’ambito bioetico. A ciò aggiungasi, inoltre, che un’epoca come quella attuale in cui il soggettivismo morale, sia per bocca dei suoi sostenitori che dei suoi detrattori, si erge ad unico paradigma per la costruzione di un’etica pubblica e condivisa lasci trasparire la superfluità di ribadire e anche soltanto problematizzare il diritto all’obiezione di coscienza.

Nonostante ciò l’obiezione di coscienza comincia ad essere intesa come un fattore disgregante del tessuto dell’ordinamento giuridico e talvolta perfino un ostacolo allo stesso diritto di autodeterminazione che presiede a diverse tipologie di interventi medici, come per esempio l’interruzione volontaria di gravidanza. Insomma, come nota il Prof. Francesco D’Agostino, esplode in tutta la sua tragicità il paradosso contemporaneo sull’obiezione di coscienza che per un verso viene esaltata come unico riferimento per la fondazione dell’individualità, mentre per altro verso viene ad essere intesa come istituto pericoloso per la sua vocazione intrinsecamente anarchica e per la sua pretesa di insindacabilità diretta a rifiutare formalmente qualunque controllo sociale nei confronti del soggetto obiettore.  Si considerino come esempi delle due opposte prospettive da un lato la possibilità per gli atei di non giurare su Dio, intervenuta con un’apposita modifica alle norme processuali coinvolte a seguito di una celebre pronuncia della Corte Costituzionale, quale rivendicazione della libertà di coscienza del non-credente, e dall’altro l’esigenza sempre più socializzata di limitare la possibilità per medici e operatori sanitari di sollevare obiezione di coscienza in quanto questo loro diritto causerebbe una indebita interruzione di un servizio pubblico fondamentale quale è quello dell’assistenza medica e contrasterebbe, per esempio, con il diritto all’autodeterminazione delle donne che dovessero ricorrere ad IVG.

Ed ecco emergere l’autentico problema: l’obiezione di coscienza, definita come “malattia” da debellare da una nota esponente dei Radicali Italiani (proprio loro che negli anni ’70, prima che venisse varata la legge di riforma dell’ordinamento militare, lottavano affinché fosse riconosciuta la libertà di coscienza ), è la manifestazione di una istanza della coscienza che in quanto tale accede al piano veritativo della dimensione etica della vita, o è piuttosto un espediente politico-ideologico strumentalizzato dal singolo per pubblicizzare la propria individualistica weltanschauung ed opporsi all’ordine costituito con mezzi pacifici? L’obiezione di coscienza quindi non sembra essere soggetta ad univoca interpretazione, a causa di diversi motivi, primo tra i quali il travisamento sulla sua stessa natura.

L’obiezione di coscienza, infatti, lungi dall’essere una mera manifestazione dell’opinione soggettiva espressa in dissonanza con quella dominante, è qualcosa di ben diverso, qualcosa di più. Trattandosi della coscienza, della libertà della coscienza, significa trovarsi di fronte a ciò che Robert Spaemann ha identificato quale elemento costitutivo dell’essere persona («La coscienza costituisce la dignità della persona»); la coscienza dunque non è svincolata da principi ad essa superiori ai quali, anzi, deve uniformarsi, o meglio, non costituisce essa stessa un criterio per essere svincolati dai principi superiori a cui, invece, deve orientarsi; la coscienza, si potrebbe osare, è l’elemento con cui l’uomo accede alla sua identità, alla sua verità di persona («in interiore homine habitat veritas» scriveva S. Agostino ), al suo essere. L’accesso all’essere mediante la coscienza è un elemento che coinvolge tutto l’essere e tutta la coscienza; l’uomo, attraverso la coscienza, scopre se stesso, comprende se stesso (per esempio nella relazione di differenza che lo distingue dal resto del creato); l’atto della coscienza presuppone dunque l’esercizio della ragione; del resto, gli stessi principi a cui la coscienza si orienta nel suo giudicare sé e il mondo sono principi che sussistono nella dimensione del diritto naturale, cioè di quel diritto che presuppone l’esercizio della ragione, della recta ratio, per utilizzare una celebre formula.
La coscienza tuttavia non deve essere ridotta a banale psicologismo, cioè a mezzo per una riflessione incentrata sulla psicologia dell’intimismo, in quanto essa nel suo determinarsi sul piano morale, cioè nel distinguere il bene dal male, si configura quale momento di intellezione dei valori morali; in altri termini, la coscienza presuppone la soggettività dell’intellezione, ma non pone questa soggettività quale criterio di determinazione dei valori morali medesimi essendo questi fondati su elementi oggettivi: in sostanza non si ricerca il bene secondo la verità della coscienza, ma la coscienza ricerca il bene secondo verità, o, se si preferisce, la coscienza non ricerca veramente il bene fino a quando non ricerca il vero bene. Come preciserebbe Jacques Maritain, tramite la coscienza si assiste al passaggio dall’etica della felicità all’etica del bene.

Posti questi pur sommari perimetri, comunque da approfondire, per la comprensione della coscienza si intuisce la gravità della proposta di chi ritiene che debba abolirsi il diritto all’obiezione di coscienza e la forza civile che il CNB ha espresso nel parere che tutela il diritto all’obiezione di coscienza. Il diritto all’obiezione di coscienza costituisce dunque l’esercizio del diritto ad accedere alla verità individualmente, ma non individualisticamente, soggettivamente, ma non soggettivisticamente. Il diritto all’obiezione di coscienza, essendo la coscienza elemento costitutivo della persona, non può che essere inteso, dunque, come diritto fondamentale della persona, e come tale non può che essere inviolabile e costituzionalmente non solo fondabile, ma del tutto fondato. In questa prospettiva il diritto all’obiezione di coscienza non è già un diritto “contra legem”, ma “secundum legem”, sebbene occorre tener sempre presente la differenza da taluni delineata tra “obiezione” ed “opzione di coscienza”, inverandosi la prima nel caso in cui il soggetto rifiuti di obbedire alla legge positiva che contrasti con una legge morale, ed inverandosi la seconda nel caso in cui la stessa legge positiva contempli la possibilità di tenere un comportamento alternativo rispetto a quello che il soggetto dovrebbe osservare se rispettasse l’obbligo di legge al quale non può obbedire per l’insorgere del suddetto conflitto tra norma legale e norma morale.

Il CNB in sostanza ha ribadito un fondamentale principio basilare dello Stato di diritto, cioè che lo Stato non può invadere e controllare l’interiorità dell’uomo, principio già affermato nell’“Apologia” di Socrate e cristallizzato nei primi secoli del Cristianesimo allorquando le prime comunità cristiane perseguitate si rifiutarono non già di riconoscere l’autorità politica dell’Imperatore, ma di venerarlo come figura divina. Tante sono le problematiche etiche, filosofiche, religiose e giuridiche riguardo al diritto all’obiezione di coscienza, ma questi pochi spunti possono essere considerati un modesto punto di partenza per cominciare a riflettere e problematizzare la questione del suddetto diritto che, ahinoi, secondo alcuni sprovveduti del pensiero dovrebbe essere eliso dal panorama giuridico in genere ed italiano in particolare.

Si comprende, allora, perché il CNB nel suo parere abbia ricordato che in un ordinamento giuridico di uno Stato di diritto, in cui non sia la volontà del singolo a prevalere su quella della collettività né quella della collettività a prevalere su quella del singolo, si debba trovare il giusto equilibrio affinché non vi sia «né sabotaggio della legge da parte dell’obiezione di coscienza, né sabotaggio dell’obiezione di coscienza da parte della legge». Il parere del CNB lungi dall’essere una conclusione, quindi, non può che rappresentare un nuovo punto di partenza.


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