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Commenti su Amore e Rivoluzione – Enrichetta Di Lorenzo – Le donne del risorgimento – monologo n. 2 - di luciamarchitto

Da Luciamarchitto

Monologo liberamente ispirato alla figura di Enrichetta Di Lorenzo, compagna di Carlo Pisacane di Lucia Marchitto
Commenti su Amore e Rivoluzione – Enrichetta Di Lorenzo – Le donne del risorgimento – monologo n. 2 - di luciamarchitto
Roma, 27 Aprile 1849
Il manifesto che porta la nostra firma è sul tavolo.
Le mie compagne hanno i miei stessi occhi.
Lo stesso amore.
E dentro lo stesso dolore.
La stessa passione.
Se anche domani dovessimo morire, risorgeremo insieme su quel foglio.

Ci separiamo con l’intento di trovarci domani, sperando che le donne romane accolgano il nostro invito.

Ora sono qui, in questa casa provvisoria, ad aspettare domani e come sempre scrivo, scrivo alla mia cara madre, ai miei figli, ai miei fratelli, scrivo a loro, ovunque io sia scrivo  sempre a loro, perché io non li rinnego, perché ho il gran desiderio di trasformare la nostra relazione affettiva, perché ho la speranza sorretta dalla convinzione che un giorno capiranno che vivere con un uomo che non si ama è un’indegna forma di prostituzione, anche se quell’uomo è il proprio marito, soltanto per amore bisogna vivere insieme.

Per amore.

Mentre scrivo Mi sovviene il pensiero che ebbe Pisacane “Quando la schiavitù è troppo vergognosa e i più chinano la testa e presentano le mani alle catene, che accettano con piacere, allora  gli eletti, cui la natura ha scritto nell’animo l’orrore della schiavitù, che la vita non curano di fronte al piacere di elevarsi di sopra all’ingiustizia ed hanno il pieno sentimento di badare a se stessi – elevano lo stendardo della rivolta” e mi rinfranca del sangue che domani scorrerà per le strade.

Roma, 28 aprile 1849
Tuonano i cannoni, l’odore di polvere da sparo impregna le narici, è difficile fare ogni cosa, respirare, muoversi… Sul Gianicolo combatte Garibaldi, l’ho visto a fianco di Anita, avrei voluto fermarmi, stringere le loro mani ma l’infuriare della battaglia e il gran numero dei feriti non permetteva soste né a me né alle altre donne, tutte queste donne accorse per curare i feriti. Ammiro la lucidità di Cristina e la sua grande abilità nel coordinare le ambulanze. Cammina tra la confusione, il fumo e la polvere instancabilmente.
Non mi lascio prendere dallo sconforto di tutti questi feriti che reclamano aiuto, piuttosto cerco nelle mani l’efficienza del fare, piuttosto della pena provo il grande dono della risolutezza e dell’amore che offro a ognuno di loro, ognuno di loro come se fosse mio figlio, come se fossero tutti i miei figli, i miei figli da cui mi sono dovuta allontanare.
Il più grande dolore per una madre è lasciare i propri figli.
Il più grande dolore per una madre, per me, è stato dover decidere di andare lontano da loro, di non vederli crescere, di non essere vicina al loro capezzale  al momento del bisogno, questo dolore accompagna ogni momento della mia vita. Ogni momento.
Eppure non tornerei indietro.
Può una madre schiava del proprio marito dare ai suoi figli ciò che hanno bisogno?
Può una madre, schiava di questo legame, insegnare ai propri figli che nella vita una delle  cose più importate è la dignità?
Può, nel suo stato, insegnare ai propri figli che una donna non è, non deve essere, un essere inferiore, che l’uomo e la donna sono uguali, che un fratello è uguale a un altro fratello, che un paese deve essere libero e unito, libero di scegliere i propri governanti, e che la chiesa deve pensare alle cose delle chiesa?
Se restavo, incatenata com’ero, cosa potevo offrire loro?

Una nuvola di ragazzini mi distoglie da siffatti pensieri sfrecciandomi accanto,  si lanciano sulla bomba appena caduta e con gli stracci bagnati spengono la miccia.
Sono svelti questi ragazzini, svelti e impavidi, il più grande avrà tredici anni, volgo lo sguardo sui feriti:  hanno sì e no vent’anni, è giovane questa Italia che si sta svegliando, giovane, forte, coraggiosa.

Roma, 29 aprile 1849
Ponte Sisto. Infuria la battaglia. Anche oggi i ragazzini corrono veloci a spegnere le micce delle bombe. Righetto guida la banda, è veloce come una gazzella, vede la bomba cadere, si butta coi suoi stracci sulla miccia, un fungo enorme di polvere e detriti si spande nell’aria.
Si oscura il cielo di Roma, si oscura e cade pieno di polvere sugli alberi, sulla strada, su di me, su queste aiuole, su queste aiuole fiorite che ora sono tutte sporche, un odore acre di bruciato, di carne bruciata si infila nel naso, tossico, piango, per la polvere, per il dolore, per quei pezzi di ragazzo che si sollevano in aria, che si confondono con i detriti.  Tossico, piango, per la polvere, per i detriti, per quei pezzi di ragazzo, per quella madre che non rivedrà più suo figlio, per me, per noi tutti, per questo cielo che vomita polvere e sangue.
Non posso stare ferma qui a piangermi addosso, non posso e non voglio, cerco gli altri ragazzi, sono qui da qualche parte, sono qui ed hanno bisogno di me, mi pulisco gli occhi, li rinfresco  con una pezza bagnata e li cerco uno ad uno e me li porto appresso, alcuni di loro fanno resistenza cercando Righetto nel cratere che si è aperto davanti ai nostri piedi, li cerco uno a uno e me li porto appresso, verso l’ambulanza, lontano da qui.

Roma, 30 aprile 1949
Reggimento di Fanteria – Porta San Pancrazio –
Con la nostra ambulanza seguiamo il I°  reggimento di fanteria che è attaccato da più parti  qui, nella zona di Trastevere.
Non abbiamo più vino, né acqua, né pane da dare ai nostri prodi fanti affaticati e martoriati, attaccati da tutte le parti e con un cielo che si prepara alla pioggia.
Non ho pensieri soltanto azioni che si ripetono, azioni che non mi permettono di soccombere alla stanchezza e allo sconforto di vedere i miei fratelli perire sotto il fuoco nemico.
Non ho pensieri soltanto azioni che si ripetono incessanti da questa mattina.
Non ho pensieri soltanto azioni che si interrompono a volte nella ricerca vana di un po’ di pane e di un po’ di vino da dare a questi fratelli che continuano a combattere incessantemente, stremati dalla fatica, dalla fame, dalla sete.
Quando infine un pensiero si affaccia tra le mie azioni questo è un pensiero disperato.
E credo  di soccombere alla stanchezza e allo sconforto.
Ma è proprio in questo momento che li vedo arrivare, uomini e donne di questa città, gli uomini incitati dalle donne a prestarci soccorso,  portano vino e pane per i nostri soldati,  si pongono tra loro e noi  aiutandoci come possono, a mani nude perché di armi non ne posseggono.
In quest’inferno di fuoco e morte si apre uno spiraglio, una porta del vicino conservatorio Pio, dalla soglia le pie donne ci invitano ad entrare  offrendo il loro parlatorio alla cura dei feriti, fornendo letti e tutto ciò che occorre alla cura e al ristoro.
Non dimenticherò queste donne e questi uomini di Roma, questi trasteverini che incuranti delle bombe sono venuti in nostro aiuto.
Non dimenticherò quella porta che si è aperta.
Questi fratelli e queste sorelle d’Italia, no, non li dimenticherò.

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