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Common Borders per un’Europa sicura e solidale

Creato il 26 giugno 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

Common Borders nasce come iniziativa dal basso dei cittadini per suggerire alle istituzioni europee una soluzione per la gestione dei flussi migratori. Per un’Europa forte e non una “Fortezza Europa”.

Lunedì 22 giugno scorso la sede dell’Associazione Radicale Adelaide Aglietta in via Botero, a Torino, ha ospitato un incontro informativo dal titolo “Salviamo vite umane e proteggiamo i nostri confini!” per portare a conoscenza del pubblico torinese l’iniziativa dell’ONG Common Borders. Sono intervenuti, tra gli altri, rappresentanti ed esponenti di ALDE (Alleanza dei Liberali e dei Democratici per l’Europa, nella sua prima conferenza in Piemonte), PFE (Partito Federalista Europeo) e GFE (Gioventù Federalista Europea) per dimostrare che, tra le politiche estreme di respingimento indiscriminato e accoglienza ad ogni costo, può esistere una virtuosa alternativa intermedia in grado di conciliare le esigenze di sicurezza con il dovere morale dell’accoglienza e della solidarietà.

Common Borders: la parola ai cittadini europei

Common Borders. Robert Schuman. Photo credit: leo.laempel / Foter / CC BY-ND

Common Borders. Robert Schuman. Photo credit: leo.laempel / Foter / CC BY-ND

Quello della gestione dei flussi migratori è sicuramente, tra i dossier aperti sul tavolo, uno dei più insidiosi per i vertici dell’Europa a 28. Un tema caldo, da sempre al centro di infinite dispute, dibattiti infuocati e aspri dissidi che, in fin dei conti, trovano le loro radici in diverse concezioni di cosa sia l’Europa e dove sia diretta attraverso questa complessa fase storica; questo non è altro che uno dei campi, forse il privilegiato, su cui si misurano le diverse visioni su cosa sia diventata l’Europa, a distanza di sessantacinque anni dalla Dichiarazione Schuman, e su cosa dovrebbe essere. Purtroppo, come sottolineato da Silvja Manzi (coordinatrice ALDE Party Italia – Membri individuali per Piemonte e Valle d’Aosta, partito intervenuto a sostegno di Common Borders), nonostante la delicatezza della materia gli interlocutori, anche ai più alti livelli, trascurano (consapevolmente o in buona fede) di supportare la proprie opinioni in merito con dati e statistiche che rendano l’idea delle reali dimensioni e dei contorni assunti della questione dei migranti ai nostri confini, preferendo parlare alla “pancia” e non alla “testa” dell’opinione pubblica.

Fortunatamente anche i privati cittadini dell’Unione, una volta adeguatamente informati, possono esprimere la loro posizione in proposito attraverso strumenti democratici ad hoc. Uno di essi è la ECI (European Citizens’ Initiative). Una ECI sottopone alla Commissione Europea una richiesta nell’ambito di uno dei temi di sua competenza, al fine di sollecitare un dibatto parlamentare che, possibilimente, porti all’adozione di misure che vadano nella direzione indicata dai cittadini. L’iter è particolarmente complesso: prevede la costituzione di un comitato di almeno 7 persone provenienti da 7 paesi membri differenti e, per andare in porto, necessita di un milione di firme raccolte entro un anno in almeno 7 paesi membri (in ognuno dei quali deve essere superata una soglia minima). Una volta soddisfatti i requisiti, la Commissione Europea avrà tre mesi per vagliare la richiesta, ascoltando direttamente dai membri del comitato promotore le ragioni della petizione, per poi decidere se intraprendere iniziative per avviare la discussione all’Europarlamento.

Una sorta di diritto all’iniziativa referendaria riconosciuto ai cittadini degli stati membri, quindi, che nel tempo ha visto presentati diversi progetti con alterne fortune. Alla lista di petizioni avviate dai cittadini sta per aggiungersene una in tema di immigrazione e sicurezza, coordinata da Common Borders (ONG di diritto belga costituita per sostenere gli sforzi di sensibilizzazione e raccolta delle firme necessarie) e presentata lunedì al pubblico piemontese e torinese dal coordinatore della campagna e leader del comitato, nonché presidente della sezione italiana del Partito Federalista Europeo, Marco Marazzi.

La petizione di Common Borders, punto per punto

Ma, concretamente, cosa chiede la ECI di Common Borders?

Per capirlo può essere utile affrontare punto per punto l’elenco delle richieste così come presentato sul sito del comitato Common Borders(attraverso il quale può essere letta in sei lingue diverse e firmata) e affiancarlo a qualche dato che ne spieghi motivazioni e finalità. Come suggerisce il nome scelto dagli organizzatori, Common Borders mira a proporre modifiche alle modalità di gestione dei confini dell’Unione Europea e, per estensione, alle politiche migratorie discriminatorie e inique adottate fino ad oggi. In particolare si chiede di adottare le misure necessarie per:

  • condividere risorse per impegnarsi in operazioni di soccorso, in modo da evitare ulteriori tragedie
  • controllare i confini dell’UE attraverso la creazione di una struttura permanente di guardie europee di frontiera
  • ridistribuire l’onere di accoglienza dei richiedenti asilo e di attivazione delle procedure di accoglienza
  • elaborare nuove procedure per accogliere i migranti legalmente, stabilendo quote per i migranti economici da accogliere nell’UE ogni anno

Risorse, annoso problema

Common Borders. Confronto USA-UE sull'entità dei trasferimenti degli Stati membri al governo centrale, percentuale sul PIL totale.

Common Borders. Confronto USA-UE sull’entità dei trasferimenti degli Stati membri al governo centrale, percentuale sul PIL totale.

Quella delle risorse destinate dagli Stati membri dell’Unione Europea al governo comune è una questione da tempo dibattuta e figura al primo punto tra le richieste di Common Borders. Stando a dati ufficiali nel 2014 gli Stati hanno trasferito 142 miliardi di euro. Una somma che, se presa in termini assoluti, può sembrare rilevante, ma è pari solo all’1% del PIL prodotto dall’Europa a 28 (dati 2014). Un paragone interessante in questo campo può essere fatto guardando alla composizione del bilancio federale degli Stati Uniti d’America, che può contare sul 24,1% del PIL prodotto dai 50 Stati membri (dati 2011, grafico 1).

Common Borders. Entità dei fondi per Politiche di Sicurezza e Cittadinanza, percentuale del bilancio UE 2014.

Common Borders. Entità dei fondi per Politiche di Sicurezza e Cittadinanza, percentuale del bilancio UE 2014.

Di questo bilancio, già di per sé esiguo, solo 1,66 miliardi di euro sono destinati a “Politiche di sicurezza e cittadinanza” tra le quali figura il “Fondo per Asilo, Migrazioni e Integrazione” (per una cifra che si aggira attorno al mezzo miliardo di euro, dati Commissione Europea e grafico 2). Risulta quindi evidente l’insufficienza di tali numeri, se rapportata alla complessità dei problemi di ordine globale e alle sfide che il Vecchio Continente è chiamato ad affrontare quotidianamente.

Un primo passo in questa direzione sarebbe, secondo Common Borders, l’aumento del budget per operazioni che non possono limitarsi al controllo delle frontiere, come quelle di Frontex, ma devono prevedere vere e proprie operazioni di soccorso (simili a Mare Nostrum) per salvare le migliaia e migliaia di vite umane che ogni anno vanno perdute nel Mediterraneo e in tutti gli altri punti in cui i migranti cercano di scavalcare le frontiere verso un futuro migliore, in fuga da povertà, fame e guerra. Un obiettivo raggiungibile attraverso l’aumento del bilancio generale, in grado di rafforzare la capacità di risposta dell’Europa di fronte alle avversità di breve, medio e lungo periodo.

Una frontiera comune

Ad oggi la situazione delle frontiere terrestri e marittime in Europa è questa: mentre i confini interni sono stati formalmente abbattuti dagli accordi di Schengen, la gestione di quelli verso l’esterno è ancora affidata ai signoli Stati membri per i tratti di loro competenza, con il risultato di scarsa o nulla integrazione dei corpi di Polizia di frontiera di diverse nazioni e conseguente aumento esponenziale dei costi. Ancora una volta ci viene in soccorso il paragone con la federazione USA, che ha all’incirca lo stesso numero di chilometri di confini terrestri (circa 12.000): il confine è controllato in modo centralizzato e non dai singoli Stati.

Common Borders. Agente FRONTEX. Photo credit: rockcohen / Foter / CC BY-SA

Common Borders. Agente FRONTEX. Photo credit: rockcohen / Foter / CC BY-SA

Questo punto, forse il più discusso tra quelli della proposta firmata Common Borders, va inquadrato nel più complesso quadro della necessità di disporre di un Esercito Comune Europeo se si vuole portare il processo di integrazione alla svolta degli Stati Uniti d’Europa. Un tema particolarmente caro alla Gioventù Federalista Europea: come sottolineato al convegno dal presidente della sezione italiana Simone Fissolo, uno Stato si realizza attraverso una moneta e un esercito.

Creare una forza militare comune a scopi difensivi sarebbe il primo passo verso un’Europa forte, coesa, in grado di far valere la propria posizione ai consessi internazionali, di affrontare le emergenze come quella dei migranti alle porte con una sola voce, e, aspetto non trascurabile, di portare a un risparmio stimato in circa 120 miliardi di euro, cifra, come abbiamo avuto modo di vedere, vicina a quella dell’intero bilancio corrente. Common Borders condurrà un’indagine per quantificare i risparmi in caso di Polizia di frontiera comune.

Ridistribuzione degli oneri

Common Borders è convinta che l’Europa non abbia futuro senza solidarietà interna tra i 28 Stati membri, necessaria ancor prima di quella verso l’esterno. Per questo motivo risulta anacronistica e illogica, oltre che iniqua, l’imposizione degli accordi Dublino che prevede, per i migranti che fanno il loro ingresso in Europa, la presentazione di richiesta d’asilo nel Paese di approdo. Questa clausola costringe gli Stati esterni a farsi carico dei costi e delle procedure di accoglienza e, in partica, di un lavoro di controllo svolto per contro e nell’interesse di tutti gli Stati, compresi quelli interni. Costi che, bisogna sottolinearlo, vanno a pesare sulle popolazioni svantaggiate geograficamente (come Italia, Spagna e Grecia) che si trovano ad essere crocevia di migrazioni senza poter offrire, a causa di ristrettezze economiche contingenti, adeguata assistenza a profughi che mirano a ben altre mete (i Paesi nordici, specialmente Germania, Svezia e Regno Unito).

Common Borders. Profughi accolti negli ultimi anni da Turchia e Libano (in prevalenza Siriani) in confronto a quelli sull'accoglienza dei quali si divide l'Unione Europea.

Common Borders. Profughi accolti negli ultimi anni da Turchia e Libano (in prevalenza Siriani) in confronto a quelli sull’accoglienza dei quali si divide l’Unione Europea.

In questo punto gli accordi di Dublino vanno palesemente contro il principio di solidarietà e mutuo soccorso dei popoli e dei Paesi che si presuppone alla base di ogni associazione di intenti tra nazioni quale mira ad essere l’Europa per definizione, sin dai tempi della Dichiarazione Schuman. In gioco non c’è solo la sopravvivenza dell’Unione, ma anche quella di una delle sue maggiori conquiste, la libera circolazione di persone prevista da Schengen, che già scricchiola sottoposta agli stress di questi ultimi mesi: la Francia fa blocco a Ventimiglia, l’Austria riprende i controlli al Brennero, il Regno Unito guarda alla situazione di Calais con preoccupazione, mentre tra veti incrociati e accuse reciproche i 28 si dividono sullo smistamento di 40mila profughi, una cifra irrisoria rispetto ai milioni di Siriani che in poco tempo hanno dovuto ospitare Turchia e Libano (grafico 3). Una goccia nell’oceano dei milioni di profughi in cerca di una nuova casa, generati dalla guerra civile siriana e da altri conflitti. Secondo Common Borders, solo la ridiscussione di Dublino e una maggiore disponibilità da parte dei Paesi a farsi carico dei migranti possono risolvere lo stallo.

Nuove procedure legali: asilo e visti-lavoro

Non bisogna infine dimenticare, come gli esponenti di Common Borders ricordano, che l’Europa, con le scelte effettuate nei secoli addietro e nel recente passato, è parte del problema, e in quanto tale ha la responsabilità e il dovere di rimediare ai propri errori.

Come afferma Igor Boni, intervenuto alla conferenza in veste di coordinatore dell’Associazione Radicale Adelaide Aglietta, basterebbe un superficiale esame di coscenza per individuare le colpe degli Europei nella situazione di degrado in cui versa il vicinato meridionale ed orientale, princiali fonti di immigrazione: dal colonialismo (vero e proprio furto di risorse) al protezionismo economico (che alzando barriere artificiali all’importazione di merci dal continente nero ha contribuito alla depressione delle sue economie), dalla connivenza con dittatori della peggior specie (e annessa ignavia nei confronti di istanze democratiche che avrebbero dovuto essere sostenute) fino all’ipocrisia con cui si condanna il traffico di esseri umani (fonte di incassi milionari per le organizzazioni criminali) senza, al contempo, offrire un’alternativa legale per permettere ai migranti (che pure avrebbero diritto all’asilo secondo la legge) di raggiungere i nostri territori, costringendoli ad affrontare la “roulette russa” di viaggi della disperazione nel Mediterraneo.

Per porre rimedio a questi peccati originali, Common Borders chiede l’istituzione di nuove procedure legali che permettano, a chi ne ha diritto, di richiedere asilo senza rischiare la vita in interminabili e pericolosi viaggi, oppure di ottenere visti-lavoro temporanei nel caso dei migranti economici. Soluzioni in questa direzione sono state già proposte e talvolta sperimentate, come la predisposizione di strutture nei paesi di partenza deputate all’esame della richiesta, o la possibilità di presentarla direttamente presso l’ambasciata del Paese eletto a destinazione presso la propria nazione di residenza, corredando il tutto con un sistema di quote annuali e una revisione delle misure del coordinamento EASO ora vigente.

Il futuro di Common Borders

Consci delle difficoltà che li attendono, i promotori dell’iniziativa Common Borders non si danno per vinti: sarà difficile raccogliere firme nei paesi tradizionalmente destinatari di immigrazione, in particolare quelli nordici. L’obiettivo è quello di ottenere il supporto di associazioni terze in altri paesi per aumentare le possibilità di riuscita. Tutto per coagulare adesioni attorno a queste richieste e dimostrare che sono supportate da un consenso popolare diffuso, per dimostrare che esiste una virtuosa, possibile e praticabile via di mezzo che coniuga l’esigenza di sicurezza al dovere umanitario di soccorso e accoglienza verso chi non ha più niente da perdere.

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