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Conoscete Percival Everett?

Creato il 17 febbraio 2015 da Tiziana Zita @Cletterarie

Lox_Percival_1_29-0_445505yE’ un autore che ama giocare trasversalmente con i generi letterari, che spazia dai miti greci al thriller, al western. Una narrativa di ricerca complessa che però racchiude sempre una vena di ironia. In questa intervista insolita e un po’ surreale, Percival Everett risponde alle domande non meno singolari dello scrittore Giorgio Vasta e del blogger David Frati.

David Frati
Io sono un appassionato lettore di Percival. Ho letto tutto quello che ha pubblicato e sono qui da fan. Parleremo di tutta la sua scrittura ma soprattutto del suo ultimo romanzo che già dal titolo, Percival Everett di Virgil Russel, si intuisce che non è un romanzo qualsiasi, soprattutto per la struttura assolutamente insolita e spiazzante che colpisce il lettore fin dalla prime pagine. Volevo spiegarvi perché io adoro quest’uomo, questo scrittore. Per me è un uomo del futuro. Insegna scrittura creativa e letteratura in una prestigiosa università americana, è un profondo studioso di cultura greca e latina, di miti greci e latini, e anche un appassionato di western. Le basi della narrativa occidentale ci sono tutte. Miti greci e western, non c’è bisogno di altro. 

Giorgio Vasta
Anch’io sono molto contento di incontrare Percival Everett che conosco da anni attraverso le traduzioni della casa editrice Nutrimenti. Condivido con David l’entusiasmo e sono d’accordo sulla definizione di Everett come “uomo del futuro”. Everett non è circoscrivibile alla narrativa contemporanea nord americana, ma ha a che fare con la letteratura tout court. Nei suoi libri racconta delle storie, lavora con i generi sovvertendoli dall’interno, però fa anche un’altra cosa per cui io mi sento particolarmente toccato e coinvolto. Nei libri di Percival Everett e in particolar modo in Percival Everett di Virgil Russel, il linguaggio non è usato come strumento per dare forma alla narrazione, ma viene percepito e convocato come una specie di personaggio: un personaggio sensibile, significativo, problematico. Viene convocato nella sua interezza di linguaggio e contemporaneamente nella sua ambiguità. E’ come se uno si rendesse conto che quel pavimento sul quale poggia i piedi, che fin lì ha pensato avesse una sua solidità, invece quel pavimento di parole è in realtà sempre mobile, sempre precario.
C’è una pagina in cui una delle voci che contribuisce a dare forma a questa storia scrive una lettera di ringraziamento agli avverbi, rendendosi conto di come sono stati decisivi nel corso del tempo nella sua scrittura e hanno saputo risolvere, enfatizzando e attenuando, una serie di problemi espressivi. Non è frequentissima nel contesto nord americano l’esigenza di dialogare con la lingua e vorrei chiedere a Percial Everett se c’è qualcosa che lui domanda in questo momento a quello che noi chiamiamo trama.

Giorgio Vasta
Giorgio Vasta: cosa domanda alla trama?

Percial Everett
Innanzitutto vorrei fare una distinzione fra trama e storia. La storia è il lavoro, il mondo, il mezzo o i mezzi attraverso cui il personaggio fluisce e interagisce, mentre la trama è semplicemente una serie di eventi. In realtà la trama è quello che succede e la cosa non è che mi interessi gran che. Non posso parlare per conto di altri scrittori di questa esigenza di avere un dialogo con la lingua. Presumo che altri lo facciano, ma forse io lo faccio in maniera più consapevole.

David Frati
Vorrei un suo giudizio su un’accusa che spesso le viene rivolta: quella di fare libri difficili.

Percial Everett
Sono una persona difficile (I’m a difficult person).

David Frati
In questo romanzo ci sono due persone che chiameremo un padre e un figlio, che non soltanto parlano fra loro raccontandosi delle storie, ma elaborano le storie che ritengono che l’altro dovrebbe raccontare, o immaginare. Tutto questo in un gioco continuo in cui già alla terza pagina perdi il filo e non capisci chi sta raccontando cosa a chi. A un certo punto parlano anche di come una certa cosa viene raccontata e il figlio dice al padre: “Ma questa è una cosa troppo postmoderna!” e il padre, semplificando molto, dice: “Ma, innanzitutto per definire una lettura della realtà “postmoderna” bisognerebbe sapere cos’è la realtà e secondo poi quando me lo dicono gli do un pugno”. Allora la prima cosa che ho chiesto a Percival quando l’ho visto è stato: “Se dico che questo è un romanzo postmoderno mi dai un pugno?”

Percival Everett
Sì.

David Frati
Ma prima mi avevi detto no!

Percival Everett
Sì, prima ho detto no, ma sono una persona difficile. Sarei felice di sentire definire un mio romanzo “posmoderno” se sapessi che significa. Io scrivo libri e immagino che per certi aspetti il mio lavoro possa essere definito moderno, ma poi che differenza fa?

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Giorgio Vasta
In effetti abbiamo da alcune decine d’anni a questa parte il problema, del tutto gratuito (che nessuno ci ha imposto e che ci siamo creati da soli) di capire cosa è ascrivibile al postmoderno e cosa non lo è. Il postmoderno è diventata la macro categoria attraverso la quale inventiamo e poi riteniamo di risolvere i problemi. Io vorrei tornare sulla questione che ha a che fare con il padre e il figlio. In questo romanzo si ha la sensazione che il padre faccia le veci del figlio e che il figlio faccia le veci del padre e anche che il padre faccia le voci del figlio e viceversa. Nel momento in cui il figlio percepisce la fragilità e caducità del padre ed è in grado di osservare tutto questo con malinconia e tenerezza, è come se fosse naturale per lui moltiplicare i punti di vista. Leggendo il legame così immobile tra padre e figlio pensavo a un frammento dei diari di Kafka, immaginando il padre che prova a tagliare una forma di pane davanti al figlio, accorgendosi però che il coltello non riesce nemmeno a penetrare nella crosta. Questo padre che all’inizio del secolo non riesce a compiere un’azione così elementare come tagliare il pane, personalmente è un padre che conosco, che percepisco come mio padre. E’ anche la tipologia di padre alla quale assomiglierei se fossi padre, cioè qualcuno che pone l’accento sull’inadeguatezza e l’incapacità di assolvere perfettamente alle sue responsabilità e al suo ruolo. Volevo chiedergli se malinconia e tenerezza sono effettivamente tonalità emotive che hanno contribuito a dare forma a Percival Everett di Virgil Russel?

Percival Everett
Io ho lavorato a questo romanzo per diversi anni, diciamo due anni, e non riuscivo a rendermi conto, non riuscivo a capire. Avevo diversi problemi, diverse difficoltà nello scriverlo e dopo due anni che ci lavoravo mio padre è morto e quel punto mi sono reso conto che in un certo senso questo romanzo era una lettera a mio padre. Credo che sia abbastanza frequente che genitori e figli condividano la stessa voce e quindi che le idee, le affermazioni, le dichiarazioni diventino indistinte. Negli anni mio padre è diventato una specie di involucro che era incapace di esprimersi. Non riusciva a parlare. Questa era una cosa estremamente frustrante per lui ed estremamente frustrante per me perché io volevo capire e non volevo rispondere alle sue domande in maniera sbagliata. Oltretutto, lui non era neanche in grado di scrivere perché aveva un problema alle mani. Mio padre fondamentalmente si esprimeva tramite gesti. Io ero bloccato in Europa quando c’è stata l’eruzione del vulcano in Islanda e le ceneri impedivano i voli, quindi per poter rientrare in America sono stato costretto a venire in autobus dalla Danimarca a Roma, da Roma ho preso un aereo che mi ha portato a Tel Aviv e da Tel Aviv sono andato a Los Angeles. Mentre ero a Tel Aviv mio padre è stato ricoverato perché stava morendo. L’ultima conversazione che ho avuto con mio padre è stata tramite Skype: mia sorella ha girato il computer verso di lui per inquadrarlo e la cosa che mi ha detto è stata… (fa il gesto di allargare le braccia). E’ a quel punto che le tessere del romanzo sono andate al loro posto.

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David Frati
Una delle cose che mi fa amare Percival Everett e quello che scrive, è il modo dinamitardo in cui utilizza, all’interno dello stesso romanzo, un linguaggio assolutamente colto, dei livelli di narrazione complessi, difficili da seguire, che ti fanno sentire la necessità di rileggere più volte e al tempo stesso usa i generi letterari, il western, il noir. Mette insieme una trama che potremmo trovare in un film thriller, vicino alla filosofia presocratica. Questo continuo mix è un’operazione cerebrale, oppure ti viene naturale?

Percival Everett
E’ triste, ma è come funziona il mio cervello. Mi fa piacere che a qualcuno piaccia.

Giorgio Vasta
Leggo sul tuo libro:

“La strada fangosa. E’ possibile che queste storie, tutte le storie, le tue storie, siano una mera coazione a ripetere, un sintomo dei blocchi che si scoprono o si rivelano durante il processo di transfert?”

Leggendo Percival Everett si ha la sensazione che delle immagini stiano nella sua immaginazione come fossero dei reperti che tornano costantemente ad affiorare all’interno di uno stesso libro, o di più libri. In effetti l’impressione è che quando si scrive la nostra immaginazione sia piena di questi frammenti fossili che per ragioni diverse ci inseguono e che siamo noi, a nostra volta, a perseguitare. Volevo chiedere se una lettura di questo genere è sensata e se per lui il lavoro di scrittura nel corso degli anni, è stato anche una perlustrazione progressiva della sua stessa immaginazione, dei reperti, dei fossili che stanno al suo interno.

Percival Everett
Io credo che qualsiasi interpretazione, tutte le interpretazioni siano giuste. Sono d’accordo su quello che è stato detto. In realtà, io non ho scritto un romanzo o venti romanzi, in realtà sto scrivendo un romanzo, nel senso che questo romanzo contiene e ingloba tutte le altre opere. Sono tutti pezzi e questo è un lavoro che credo mi porti sempre più vicino a quello che è l’astrazione. Tutto sommato per me è più importante della realtà. Credo che questo sia il mio obiettivo: riuscire a scrivere un romanzo astratto.

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David Frati
Che sia un unico grande romanzo in tante tappe, o che siano tanti romanzi e tanti racconti, comunque Percival è uno scrittore molto prolifico. Come nasce dentro di te la voglia di scrivere questo romanzo astratto?

Percival Everett
Sono uno scrittore. Se fossi un costruttore costruirei le case. Visto che sono uno scrittore ho scritto e continuo a scrivere. Non so in realtà da dove venga questa cosa, ma pare che io la faccia. Probabilmente è il mio modo di elaborare il mondo. Tutto sommato io mi sento abbastanza pigro, non ho tanto la sensazione di lavorare. E’ vero scrivo, ma vado sempre al cinema e vado a cavallo, insomma me la godo abbastanza, anche se prima o poi devo lavorare perché il mio editore mi spinge a farlo. Gioco con i miei figli. Oltretutto mi sento fortunato perché faccio quello che mi piace. Mi pagano per fare quello che mi piace che comunque farei lo stesso. Pure se lavorassi in un ufficio, in ogni caso scriverei. Invece scrivo e mi pagano per farlo. L’altro lavoro, anche se mi sembra così strano chiamarlo lavoro, è quello di fare il professore. Mi pagano per avere a che fare con persone giovani e intelligenti. Sono fortunato.

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Percival Everett vive a Los Angeles con la moglie, la scrittrice
Danzy Senna, e i loro due figli

Giorgio Vasta
Leggendo questo romanzo a un certo punto mi sembra di trovarmi nella situazione di Giovanna D’Arco quando si diceva che sentiva le voci. La lettura di Percival Everett di Virgil Russel, ma anche degli altri suoi romanzi, ci mette a confronto con l’ascolto delle voci. Insisto su questo punto, non con il racconto dei personaggi, ma con voci nude, sospese, che stanno raccontando, ma che non sono facilmente individuabili. Ci si accorge che il testo sta costruendo una detection, per cui ci domanda di scoprire chi è che sta parlando, e contemporaneamente ci sta chiarendo che non è così importante individuare gli “io narranti” che danno forma a questa narrazione. L’impressione è che la questione del postmoderno sia intervenuta per provare a utilizzare quelle figure in cui non c’era un io perfettamente riconoscibile. Da Dos Passos a Faulkner in poi, per gli autori nord americani degli anni Novanta, esistevano soprattutto le voci e il romanzo era come il ventre, il ventriloquo da cui emergono voci diverse. La mia impressione è che quando noi parliamo di personaggi sottovalutiamo che in realtà i personaggi sono il rivestimento riconoscibile, quindi visibile, di quelle che di fatto sono voci. E’ lingua che emerge dalla pagina e arriva fino a noi. Volevo chiederle se questo collaudo di lettura le torna e se la sua insofferenza nei confronti del postmoderno – insofferenza che condivido – è legata anche al fatto che i libri sono sempre luoghi nei quali delle voci lunghe e sospese dicono qualcosa. Alcune volte queste voci sono un po’ vestite con gli abiti dei personaggi, alcune volte no.

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Percival Everett
Innanzitutto ritengo che la condizione umana sia tale per cui tutti quanti siamo un po’ schizofrenici, tutti quanti un po’ le sentiamo le voci. Poi vorrei fare un riferimento a quello che credo sia l’artificio del romanzo. La ragione per la quale mi piace il romanzo è che il lettore non dimentica mai che ha in mano un libro, che sta leggendo un libro, eppure per il lettore quel mondo diventa reale. Delle aspettative si creano come se ci fosse un contratto fra il lettore e lo scrittore, ma io quel contratto non l’ho mai firmato. Io penso che il romanzo ti dà la liberta di esprimerti come credi, per cui se il lettore si fida e vuole continuare, può rimanere in macchina con me.

David Frati
Lungo tutta la tua produzione, lungo questo grande romanzo astratto c’è una vena comica che non si esaurisce mai. Una commedia e un’ironia che non si spengono. Anche quando si parla della vecchiaia, della morte di un padre, c’è sempre che la vita ci dà il lato tragico e comico al tempo stesso.

Percival Everett
Non credo che si possa separare la tragedia dalla commedia. Quello che mi piace dell’umorismo e che in un certo senso è sconcertante, è far sì che il lettore abbassi la guardia perché quando l’abbassa io poi con lui faccio quello che mi pare. Stavo per fare una battuta ma in genere quando le traduci le battute non funzionano, perciò se non funziona è colpa mia. Questa è una storia che riguarda la fiction, la narrativa, e cosa significa essere un lettore. Immaginate un uomo e la consorte che giocano a golf. Sono partiti dagli Stati Uniti e sono andati in vacanza in Scozia. Il marito non ne azzecca una perché fa dei tiri a destra e a manca e non ne fa uno giusto, quando da dietro un cespuglio, esce fuori un ometto piccolo piccolo, tutto vestito di verde. Ha un gilè verde, una giacca verde.
L’uomo gli fa: “Tu non sei…?”
E lui: “Sì, sì, sono io”.
L’ometto gli dice: “Tu puoi esprimere tre desideri”.
Ovviamente la coppia non gli crede, non crede che possa esaudire i desideri e allora l’uomo dice: “Ok, vorrei avere venti milioni di dollari”.
E l’ometto dice: “Va bene, adesso quando andate a casa, andate a controllare il conto in banca e vedrete che sul vostro conto ci sono venti milioni di dollari”.
L’uomo dice: “Vorrei una Lamborghini”.
E l’ometto risponde: “Ok, torna a casa, apri il garage e vedrai che c’è la Lamborghini”.
L’uomo dice: “E l’altro desiderio è che vorrei saper giocare a golf, in maniera tale da non dover mai giocare al di sotto del par”.
L’ometto dice: “Vedrai, per il resto della tua vita sarai un golfista eccezionale, però per poter esaudire questi tre desideri devo trascorrere qualche minuto nel cespuglio con tua moglie”.
Ovviamente la moglie è abbastanza seccata da questa richiesta.
Il marito però la guarda e dice: “Tra tutte le cose, finalmente non giocherò mai più sotto il par!” Quindi, alquanto scocciata, la moglie si nasconde nel cespuglio insieme all’ometto. Ora abbiamo un cambio di scena. La donna si sta rivestendo e l’ometto si sta riabbottonando il vestito. Lui le fa:
“Posso farle una domanda? Quanti anni ha suo marito?”
“Quarantacinque”.
“Non è troppo vecchio per credere nei folletti?”

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Giorgio Vasta
Quello che ha raccontato a proposito dell’ultima conversazione con suo padre su Skype, quel gesto di allargare le braccia nel quale c’è rammarico, rassegnazione, è la cosa che personalmente considero più rappresentativa, come l’incarnazione del comprendere qualcosa. Mi faceva pensare alla scena finale de La dolce vita di Fellini, quando Marcello, il personaggio interpretato da Mastroianni, non riesce a sentire bene quello che la ragazzina più in là, in fondo alla spiaggia, sta provando a dirgli e compie proprio questo movimento, allarga le braccia e si allontana. Ed è curioso come in quel momento il rammarico di non aver capito cosa gli è stato detto, la rassegnazione per cui lui procederà con gli altri e non andrà a fare la passeggiata, che è quello che la ragazzina gli sta chiedendo, coesistano e diano veramente l’idea di cosa vuol dire comprendere. Non capire tutto ma riuscire ad accogliere, le braccia aperte sono un modo per accogliere tra le proprie braccia. Percival Everett di Virgil Russell è un romanzo nel quale ci si diverte, ci si perde, ci si disperde, ci si ritrova, e corrisponde a queste braccia aperte che un padre schiude per chiarirci che cosa può accadere, che cosa c’è da fare come compito umano nella vita di tutti.

Se siete interessati a Percival Everett potete leggere la recensione di Glifo su Cronache Letterarie e aspettare il prossimo post di Roberto Concu che ha letto tutti i suoi romanzi tranne l’ultimo… ma tra poco avrà letto anche quello. Giorgio Vasta pubblica con Minimum Fax, mentre David Frati dirige il blog Mangialibri.


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