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Considerazioni su Hayek, il ciclo, e la conoscenza

Creato il 24 gennaio 2013 da Peppiniello @peppiniello

Considerazioni su Hayek, il ciclo, e la conoscenza

Possiamo, arrivati a questo punto, provare a tirare le fila del discorso sin qui svolto. Le accuse che abbiamo mosso, sulle orme del pensiero austriaco (ed hayekiano nello specifico), si sono concentrate in misura prevalente sulla politica monetaria, eccessivamente espansionista, condotta dalla Federal Reserve. In questo siamo in buona compagnia; non è necessario essere seguaci di Hayek per comprendere i rischi di una politica di questo tipo. Lo stesso John Taylor, guru della politica monetaria d’oltreoceano, partendo da una impostazione distante da quella qui proposta, è arrivato a concludere che gran parte della crisi, e del crearsi della bolla immobiliare, è da addebitarsi alle politiche della Fed, mostrando come e di quanto i tassi siano stati tenuti troppo a lungo sotto i livelli “corretti”: “l’azione, l’intervento del governo, e non invece il fallimento o una presunta instabilità dell’economia privata, ha causato, prolungato ed aggravato l’attuale situazione di crisi finanziaria”1

Accanto a tale politica monetaria (eccessivamente accomodante) va senza dubbio affiancata, tra i fattori esplicativi, quel tipo di politica espressamente condotta dalle autorità governative americane, volta ad assicurare il possesso della prima casa al più alto numero di individui possibile (specialmente tra le classi più disagiate), fatta di incentivi e di regolazioni, che hanno reso possibile il crearsi di una gigantesca bolla speculativa nel settore del credito per la casa e nel settore degli immobili, che è stato uno dei fattori scatenanti della successiva crisi economica del 2008. Non quindi carenza di politica, o regolamentazioni lassiste, ma politiche e regolamentazioni miopi, a posteriori da considerarsi decisamente sbagliate.

Certamente si mancherebbe di realismo se pensassimo che tali misure siano state prese unicamente in base ad una idea delle autorità di governo, con le banche in posizione neutrali, quasi vittime di tali politiche. Tutt’altro. La realtà ha visto un cortocircuito collusivo di politici “illuminati”, convinti di perseguire il bene collettivo con tali decisioni, e delle banche che, fortemente interessate ai possibili vantaggi che ne avrebbero potuto ricavare, premevano affinchè si mettessero in campo certe misure, “lucrando sui tassi di interesse differenziali, connessi al basso merito di credito della clientela e potevano impacchettare tali mutui immobiliari in prodotti finanziari compositi, che avevano la funzione di alzarne il rendimento”2.

Il tutto all’insegna di quell’attuale capitalismo che è stato definito come “crony capitalism”, vale a dire un capitalismo fortemente clientelare, dove l’intreccio di pubblico e privato rende sempre più arduo stabilire cosa sia di pertinenza dello stato, e cosa delle imprese private.

Abbiamo visto come tali misure introdotte abbiano indotto le banche ad assumersi rischi troppo elevati; ma i salvataggi effettuati dai vari governi, non solo Usa, ma anche in stati quali il Regno Unito o l’Irlanda, hanno avvalorato l’ipotesi che non fossero state poi così incoscienti nell’agire così; ove le banche centrali non erano vincolate (come ad esempio la Bce in Europa), esse sono intervenute nei salvataggi, in base al principio ormai famoso del “too big to fail”; cioè per evitare la crisi sistemica come prevedibile conseguenza del fallimento dei colossi finanziari. Ma dal momento che quegli azzardi erano stati propiziati proprio da chi avrebbe dovuto garantire la stabilità del sistema, e dato che era ampiamente noto che, in caso di crisi, tali colossi non sarebbero stati lasciati fallire, allora vediamo come un principio sacrosanto al quale erano state demandate le banche centrali, letto alla rovescia, sia diventato esso stesso una delle cause di instabilità del sistema.

Abbiamo poi messo in luce come delle regolamentazioni sbagliate abbiano innescato fenomeni di azzardo morale, come nel caso delle assicurazioni sui depositi bancari, che hanno finito per premiare le banche più spregiudicate, spronando all’assunzione di rischi anche quelle più prudenti; lo stesso dicasi per il cortocircuito tra controllori e controllati nel caso delle agenzie di rating che, essendo solo in tre abilitate a certificare l’affidabilità delle istituzioni, con intrecci tra loro e soprattutto con i clienti cui hanno dato le valutazioni, hanno finito col fornire rating di comodo, e non realmente corrispondenti alla realtà (che si sarebbe scoperta solo dopo). Sempre in questo ambito ricadono le regole contabili adottate dai regolatori, in particolare la regola del mark-to-market, che ha fatto si, da un lato che al picco della bolla finanziaria gli attivi risultassero ampiamente sopravvalutati; mentre, dall’altro, al suo esplodere si è potuto verificare la pura virtualità di tali attivi patrimoniali, scemati poi rapidamente in un susseguirsi di vendite, ribassamento del prezzo, e nuove vendite per garantire le esigenze patrimoniali.

Questo è quello che abbiamo raccontato nelle pagine precedenti. Ma alla base di quanto abbiamo detto, e che non è stato esplicitato, seppur in parte sfiorato quando abbiamo parlato del problema della conoscenza, vi è una accusa ben precisa al funzionamento delle moderne liberal democrazie, ed ai suoi teorici; l’accusa di esser mosse da un ideale costruttivistico.

Costruttivista è l’idea che gli uomini (o alcuni di essi, declinando l’idea in una cornice elitista) posseggano la capacità di comprendere a fondo il funzionamento sociale, indi anche quello economico; e, data tale conoscenza, se ne possano servire per indirizzare, modificando, la società verso il conseguimento di obiettivi desiderati, ed in genere declinati in termini di maggior crescita, equità, giustizia sociale e via dicendo; costruttivista è l’idea che si possa rifare la società partendo da un progetto migliorativo di società teorica.

Hayek insisterà a lungo nei suoi scritti della maturità su questi punto, tracciando una netta distinzione tra cosmos e taxis, tra ordine spontaneo ed organizzazioni pianificate dall’alto. Una società libera non può mai esser una taxis, cioè riprogrammata e pianificata a tavolino; e non perché sia moralmente sbagliato, ma perché è razionalmente impossibile; e, quando ci si provi, se ne scontano le conseguenze in termini di libertà innanzitutto, e di capacità di generare ricchezza e benessere in secondo luogo.

Non può funzionare per un problema di conoscenza che, come abbiamo già messo in evidenza, è necessariamente dispersa tra milioni di individui; là dove v’è libertà d’iniziativa, là dove ci si muove dando facoltà decisionale decentrata, il progresso economico, sociale, culturale e politico è sempre superiore a quello conseguibile dalle società centralizzate. La mente umana è limitata, e le società moderne troppo complesse per poter esser comprese ed indirizzate a piacimento senza, per questo, peggiorarle, inficiandone il funzionamento. Hayek definì “superstizione ogni sistema in cui gli individui pensano di saperne più di quanto in realtà conoscano. Per questo motivo gran parte degli intellettuali è costruttivista”3

In questo senso va letto quanto abbiamo fin qui esposto; il tentativo (esplicito e dichiarato) delle autorità governative e monetarie di modificare le relazioni economico-sociali in modo da avere una maggior crescita economica; il pensare che qualcuno possa sapere come si determina tale crescita economica quando, in effetti, essendo determinata da un numero così elevato di decisioni che nessun computer, per quanto potente, potrà mai calcolare, è una assurdità. E va letto in questo senso la presunzione delle autorità monetarie di sapere meglio della determinazione di mercato quale è il corretto tasso di interesse, quello che mette in equilibrio risparmio ed investimento; o i maldestri tentativi di regolamentazione, che finiscono in seguito col produrre risultati non preventivati (e soprattutto non voluti) da nessuno.

Hayek intitolerà la sua ultima opera, del 1988, “La presunzione fatale”, alludendo con tale espressione alla presunzione della ragione di poter conoscere più di quanto non sia nelle sue reali possibilità; prodotto d’una teoria ingenua e acritica della stessa razionalità, definita appunto come “razionalismo costruttivista”.

A tale paradigma teorico appartengono gli odierni e complicatissimi sistemi di previsione economico finanziari, alla cui possibilità di predizione ci si era affidati, fiduciosi nelle loro possibilità previsionali; e che invece hanno clamorosamente fallito; modelli che, d’altro canto, non potevano che basarsi su dati passati e su assunzioni probabilistiche, che non possono tener conto dell’imprevedibilità delle azioni umane e del loro interrelarsi.

Viceversa la teoria del ciclo austriaco, per quanto non in grado di predire nello specifico, nel dettaglio, come e quando si sarebbe verificata l’esplosione della bolla immobiliare e della successiva crisi economica, metteva abbondantemente in guardia circa gli inevitabili esiti d’un certo tipo di politiche. Chi la conosceva sapeva che, prima o poi, la crisi sarebbe giunta.

Volendo concludere: la teoria di Hayek, per quanto imperfetta, e con ogni probabilità migliorabile, si staglia come un monito per tutti noi; ci mette in guardia circa la sopravvalutazione delle nostre reali possibilità di incidere sulla società; anche volendo mantenere tale punto, è di fondamentale importanza conoscere i limiti entro cui agire, e solo a partire da questi provare, in modo modesto, entro certi limiti, a svolgere un certo tipo di azione riformatrice; ignorandoli, facendo finta che non esistano, il rischio di fare danni, di continuare lungo strade a lungo andare perniciose, e lesive della libertà personale, diventa considerevole. Solo sapendo cosa si può fare, e cosa non si può (e quindi non si deve) fare, possiamo sperare di proseguire lungo quel sentiero di prosperità e benessere che caratterizza l’occidente da secoli, e che ha consentito tanti progressi nei più svariati campi, civile, culturale, politico ed economico.

1Taylor, John B. (2009), “How Government Created the Financial Crisis,” Wall Street Journal, Feb. 9, 2009, p. A19

2 Forte F, Introduzione a “Ritornare al Capitalismo per evitare le crisi”, pg XXIII

3Sorman G, I veri pensatori del nostro tempo, pg 203



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