Magazine Arte

Conversazioni sulla fotografia: da Fotocrazia

Da Csfadams @csfadams
19 set 2012

Non ci sono solo foto di foto

Giorgio Di Noto, da The Arab Revolt, Giorgio Di Noto, g.c. SiFest

Giorgio Di Noto, da The Arab Revolt, © Giorgio Di Noto, g.c. SiFest

Forse il reportage è morto, e non si può far altro che celebrargli eccellenti, raffinati funerali. Forse invece è solo moribondo e questo è un grido d’allarme, una chiamata d’ambulanza. Forse dovremmo abolire i premi di fotogiornalismo…

Non so cosa pensare. Mi arrivano da Savignano sul Rubicone echi di malumori per la scelta della giuria della borsa Marco Pesaresi, assegnata quest’anno a un progetto di Giorgio di Noto sulle primavere arabe. Leggo gli stessi malumori nel blog dell’amico Fulvio Bortolozzo e li giudico non manifestamente  infondati.

Di Noto non è un fotoreporter, nel Nordafrica in fiamme non c’è andato. Ha lavorato davanti allo schermo di un pc, ha selezionato immagini e videostills dalla massa enorme di materiale iconografico prodotto spontaneamente durante le rivolte e diffuso via Web, lo ha sottoposto a un trattamento stilistico di omogenizzazione, e il risultato, che potete vedere sul suo sito, si presenta come una collezione di Polaroid monocromatiche.

“Hanno premiato la finzione”, mi scrive scandalizzato un amico fotografo, Antonio Zambardino. Non credo sia precisamente così. Hanno premiato un lavoro concettuale. A me peraltro questo lavoro non dispiace, se devo dire la verità. Non tanto per l’indubbia suggestione du quese immagine semi-spontanee una volta “rimesse in forma”. Ma perché ci leggo una riflessione non banale sull’immagine contemporanea, sulla condivisione della testimonianza ai tempi degli smartphone e di Internet. Io penso che si possa ragionare sulle immagini a mezzo di immagini, e questo lavoro lo fa.

Ma quello di Di Noto non è fotogiornalismo. È un lavoro di ri-mediazione iconica, è una meditazione sul linguaggio, di taglio postmodernista. Marco Pesaresi invece era un fotoreporter, prematuramente scomparso, di mestiere sicuro nonostante la giovane età e di etica professionale forte. Se il rpemio si intitola a lui, penso dovrebbe rifletterne la fisionomia intellettuale e professionale.

Anche se, nel sito del SiFest, non sono riuscito a trovare una vera e propria definizione degli scopi e degli intenti del premio e una delimitazione del carattere dei lavori che vi possono concorrere, direi proprio che si tratta di un premio dedicato al fotogiornalismo. Ma lo ha vinto una critica intellettuale al fotogiornalismo.

Come se il premio Strega lo vincesse non un romanzo, ma un saggio di critica semiologica sulla letteratura al tempo dei blog. Credo che il messaggio sarebbe: non si possono più scrivere romanzi, ma solo riflessioni sui romanzi. È questo il messaggio che ci manda la giuria di Savignano, presideuta da Denis Curti, un amico della cui accortezza ed esperienza critica ho un grandissimo rispetto? Non si possono più fare fotoreportage, ma solo riflessioni sulla fotografia ai tempi del Web?

Di fatto, le motivazioni del verdetto, che mi risulta sia stato abbastanza contrastato, suonano cosi: “Il SiFest ha premiato il lavoro del giovane autore per la sua intrinseca capacità di restituire il senso di contemporaneità della fotografia. Per l’ottima capacità di edizione e selezione, per l’omogeneità e la coerenza del progetto. Per aver utilizzato il linguaggio fotografico al meglio delle potenzialità tecnologiche odierne“.

Questo premio afferma dunque che il modo più “contemporaneo” di utilizzare le tecnologie per fornirci informazioni e emozioni dal mondo (a questo serve il fotogiornalismo) è selezionare e rimpastare immagini già esistenti, ri-presentate come come fossero un flusso iconico omogeneo, in qualche modo sensato, ripresentate a prescindere da provenienza, attendibilità, firma, contesto di ogni singola immagine. Immagini pescate dal Web, sfilate dall’amo, passate un po’ in padella e poi ributtate nel mare del Web come progetto.

Non sto sfottendo, è quello che l’autore stesso, in termini più formali, spiega del suo lavoro: “il progetto si pone come indagine sul linguaggio visivo della fotografia di reportage e sulla sua capacità e necessità di documentare“. Un lavoro di meta-fotogiornalismo, o se volete di analisi e critica del fotogiornalismo condotta a mezzo di immagini.

Credo allora che Zambardino abbia qualche ragione a forzare un po’ i termini deducendo che  “a Savignano si afferma che non bisogna conoscere i fatti, bastano coerenza e capacità di edizione. In questa visione relativistica del reportage, il linguaggio fotografico domina sul concetto di testimonianza diretta presumendo che questa possa fare a meno della presenza dell’operatore“.

C’è una confusione non risolta in partenza, credo. Di quale fotografia si occupa il premio Pesaresi? In quale tipo di fotografia crede, e vuole incoraggiare? Sì, perché un premio non è mai solo il riconoscimento di un “bel lavoro”, è l’affermazione di una tendenza, è una precisa dichiarazione sullo stato del suo oggetto, in questo caso, appunto, il fotogiornalismo.

Ebbene, per il pubblico medio, di cui faccio parte, il risultato paradossale di questo verdetto è che si rende omaggio al lavoro di un bravissimo fotoreporter  premiando un lavoro che di fatto dichiara la morte del fotogiornalismo. Non questo lavoro (che verosimilmente critica in fenomeno) ma questo premio sembra incoraggiare il circolo vizioso e autoreferenziale di cui il Web già si nutre pericolosamente (il 90 per cento dei contenuti del Web sono riproposizioni di contenuti trovati sul Web). Sembra dire che tutto ciò che di “contemporaneo” si può fare con le immagini degli eventi storici, politi e sociali è “editare” quelle che già esistono. Legittimo, ma bisogna poi assumersi la responsabilità di questa affermazione.

Ma non ci sono, al mondo, solo foto di foto, immagini di immagini, interpretazioni di interpretazioni. Da qualche parte ci sono occhi professionali che tentano, con sempre maggior difficoltà, di immettere nel circuito della conoscenza nuove fonti dirette, nuove testimonianze primarie. Viva gli analisti del linguaggio e i decostruttori dei media, ma le loro riflessioni devono servire (e sono certo che Di Noto puntava a questo) a pretendere, esigere visioni consapevoli del mondo reale, fuori dallo schermo di un pc.

http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/ 



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