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Corsi e ricorsi storici: aiuto, qui tornano gli anni Cinquanta

Creato il 04 ottobre 2015 da Tafanus

...hanno la faccia come la faccia...

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Il conformismo intorno al leader. Il partito di governo senza alternativa. Le polemiche contro i "disfattisti". La Rai delle buone notizie. Il modello di Renzi è l'Italia di quella stagione. Manca però il miracolo economico (Marco Damilano - l'Espresso)  

Un partito unico di governo e un solo leader alla loro guida: del partito e del governo. L'epica e la retorica della crescita e della ricostruzione dopo le macerie. Il patto di ferro con la grande industria automobilistica. Il ruolo educativo dell'elettorato affidato alla televisione di Stato. L'uniformità di giornali e intellettuali. La difesa del buon nome del Paese all'estero. E l'isolamento delle voci critiche, accusate di disfattismo. «L'Italia dei gufi è in minoranza. Il Paese chiede fiducia, tranquillità, solidità. La patria va custodita», ha detto Matteo Renzi all'ultima direzione del Pd. Un ritorno al futuro. Un viaggio all'indietro. Verso gli anni Cinquanta.
Nel film di Robert Zemeckis, uscito nel 1985 (quando Matteo Renzi aveva dieci anni), uno scienziato pazzo aveva inventato una macchina del tempo per ritornare nell'anno 1955, tre decenni prima. Il futuro premier deve aver imparato la formula a memoria. Non lo dichiara esplicitamente, ma gli anni Cinquanta italiani sono il suo orizzonte ideale, l'età dell'oro da replicare. «Un singolare impasto di verità e mistificazione», li aveva definiti il giornalista Enzo Forcella. Un'immagine che fotografa alla perfezione la nuova stagione di egemonia renziana. Già nel 2011 sul palco della stazione Leopolda, al raduno da cui partì la scalata del sindaco di Firenze, c'era un vecchio frigorifero. Due anni dopo, una vespa bianca, a richiamare quella di Gregory Peck e Audrey Hepburn di "Vacanze romane" (1953). I primi pesanti televisori con la manopola, i palloni di cuoio con cui giocavano i Boniperti, i Liedholm, gli Omar Sivori, i microfoni modello Elvis. E chissà, anche il chiodo alla Fonzie con cui Renzi si presentò un sabato sera di fronte al pubblico di "Amici" voleva essere un inconscio richiamo agli "Happy Days".
Ma erano suggestioni, concessioni all'immaginario, utili per comunicare un riferimento simbolico nella fase della conquista. Mentre per il renzismo che ora si avvia al secondo anno di governo e promette di durare almeno un decennio i felici Cinquanta sono sostanza, individuano un modello politico. Forse l'embrione di un progetto culturale.
Il decennio della fiducia, della ricostruzione dopo il conflitto mondiale. Un boom economico inatteso, «una felicità inaspettata», la definì Italo Calvino nel 1961: «Quella intransigente tensione ideale che ieri animava propositi e azioni di uomini di governo e intellettuali, ha ceduto il posto a un modo di parlare e di agire più possibilista e utilitario. Tutti, apertamente o sotto sotto, sono convinti che questa cuccagna durerà chissà quanto, anzi che non finirà mai...».
Un miracolo trainato dall'industria dell'auto. Il primo luglio 1957 il presidente della Fiat Vittorio Valletta e il suo vice Gianni Agnelli presentarono al presidente del Consiglio Adone Zoli la nuova macchina. La Fiat 500, «la vettura sempre per tutti», costo iniziale 480mila lire. A suggello del patto su cui si reggeva la modernizzazione all'italiana: il governo democristiano garantiva le autostrade (l'Autosole) e il carburante di Stato (l'Eni), la Fiat portava in dote l'automobile di massa per le famiglie, il volano dello sviluppo. Oggi il premier va da Sergio Marchionne, com'è accaduto a maggio quando Renzi ha visitato lo stabilimento della nuova Fca a Melfi, mentre a Roma si riuniva l'assemblea annuale della Confindustria.
E l'amministratore delegato ricambia con un tifo da stadio: «Renzi ha realizzato progressi fenomenali. Non ho mai visto qualcuno con la dedizione e l'intensità che lui ha mostrato nell'ultimo anno e mezzo». Anche nel mondo delle ex partecipazioni statali la pressione del governo si fa sentire come non accadeva dai tempi del decennio felice: Eni e Enel con i loro nuovi amministratori delegati di nomina renziana sono considerate propaggini dirette di Palazzo Chigi, un'occupazione di spazi che sta provocando reazioni infastidite tra gli esponenti della vecchia guardia nelle aziende. In Rai il nuovo direttore generale Antonio Campo Dall'Orto non ha ancora spostato una pianta, ma la direzione è chiara: il ritorno di una tv di Stato pedagogica, istruttiva, edificante, in linea con le indicazioni di Renzi. «Voglio un servizio pubblico che educhi i bambini a entusiasmarsi per la Turandot. Una televisione divulgativa modello maestro Manzi», aveva detto il premier a "l'Espresso" il 3 marzo. Ora ci siamo.
L'uomo forte del partito unico di governo, la Democrazia cristiana, era negli anni Cinquanta un toscano, ex scout, desideroso di primeggiare e di comandare. Prese il quaranta per cento dei voti alle elezioni del 1958 e assommava su di sé le cariche di segretario e di premier, più quella di ministro degli Esteri. Amintore Fanfani, che il ministro Maria Elena Boschi ha confessato di preferire a Enrico Berlinguer. E non solo perché, come lei, era di origini aretine. Il Pd di Renzi si sta trasformando da partito del centrosinistra che si muoveva in uno schema di gioco bipolare a un nuovo partito di centro, «popolare e di massa», come lo ha definito Renzi sull'"Unità", spiega il suo potere di attrazione sui notabili del vecchio centro-destra berlusconiano, a cominciare da Denis Verdini. È il sistema politico che si è modificato negli ultimi tre anni: il Pd al governo, i partiti di opposizione incapaci di costruire un'alternativa nonostante un'alta percentuale di voti.
«Fin quando il Movimento 5 Stelle sarà percepito come il più temibile competitor del Pd, Renzi potrà rivendicare la propria indispensabilità. Una variante aggiornata della diga democristiana ai tempi della guerra fredda: vade retro Pci allora, vade retro Cinque Stelle oggi», ha scritto il politologo Angelo Panebianco sul "Corriere della Sera" il 23 settembre. La nascita di un fattore 5S al posto dell'antico fattore K, motivato da ragioni internazionali. Affiancare Beppe Grillo a Palmiro Togliatti sarebbe un esercizio ridicolo: ieri si espellevano dal Pci Cucchi e Magnani per deviazione ideologica («pidocchi», li definiva il Migliore) e Antonio Giolitti lasciava il partito dopo l'invasione sovietica dell'Ungheria del 1956, oggi nel Movimento 5 Stelle i dissidenti se ne vanno o vengono cacciati sugli scontrini, il mancato rispetto delle regole interne su rimborsi e indennità parlamentari. Ma in comune c'è la purezza dell'appartenenza, il presentarsi come l'unica opposizione al sistema, l'impossibilità di andare al governo. L'indispensabilità è la cornice in cui si muove Renzi, e dire che era entrato in scena come il difensore della competizione tra schieramenti avversari. Ora invece Michele Salvati ("Corriere", 24 settembre) lo affianca in modo elogiativo a Giovanni Giolitti, il blocco di centro inamovibile, e ad Alcide De Gasperi: il centrismo senza alternative degli anni Cinquanta.
E anche la comunicazione si adegua. Quando a Milano il 6 settembre Renzi ha attaccato il leghista Matteo Salvini sui migranti instaurando l'originale contrapposizione («o siamo essere umani o bestie»), qualcuno a Palazzo Chigi ha ricordato che anche alle elezioni del 18 aprile 1948 De Gasperi aveva definito Togliatti un «diavolo con il piede caprino». E già: nella modernità della comunicazione via tweet rispunta la propaganda quarantottesca. Solo che all'epoca i toni virulenti erano giustificati dalla guerra fredda. Mentre ora servono a tenere unite le truppe contro un nemico di comodo: quello che non ha nessuna possibilità di vittoria.
Matteo l'Indispensabile è il protagonista del revival degli anni Cinquanta con il suo Partito unico di governo. L'ingrediente essenziale dell'operazione è l'happy end, il lieto fine, l'uscita dalla crisi. «L'Italia ha svoltato», ripete infatti Renzi, anche se alla fine degli anni Cinquanta il Pil cresceva al ritmo del 7,5 per cento mentre oggi il governo grida all'uscita dal tunnel per lo 0,9. Ma tanto basta per isolare i critici. Il renzismo non si è mai dato una fisionomia culturale, a differenza del New Labour di Tony Blair non va in cerca di terze vie, i suoi confini sono mobili, abbastanza ampi per contenere tutto.
L'ideologia della Fiducia. La fabbrica delle buone notizie. Oscurare ciò che va male, amplificare ciò che va bene. Contrapporre la gente comune che «prova a farcela» agli intellettuali «professionisti delle critiche». Il renzismo, come la maggioranza di governo negli anni Cinquanta, è un potere in apparenza soft, accogliente con tutti, in realtà spietato con le voci dissonanti. Una divisione del mondo in due. Da un lato gli apostoli del nuovo verbo dell'Ottimismo, esperti, economisti, costituzionalisti, giornalisti, tutti protesi a creare il senso comune della ripresa e delle riforme, dell'Italia che ce la fa, sui giornali, nei tg, nei talk-show: i neo-Conformisti.
Dall'altro, gli apocalittici, i gufi, i rosiconi, incapaci di capire il nuovo. Negli anni Cinquanta Mario Scelba, il ministro dell'Interno democristiano, se la prendeva con il «culturame». «Credete che la Dc avrebbe potuto vincere se non avesse avuto con sé una forza morale che vale molto di più del culturame di certuni?», si chiedeva nel 1949. «Culturame», spiegava in un'intervista, «definisce la moralità di tutti i cialtroni della cultura e traditori... io nego loro il diritto di parlare al popolo italiano in nome della cultura». Il ministro Maria Elena Boschi ha certamente modi più garbati del siciliano Scelba ma anche lei picchia duro sugli intellettuali che non appoggiano il suo progetto di riforma della Costituzione: «professoroni che cercano di fermarci. Gli italiani sono stanchi di loro».
Renzi ha riportato nel linguaggio della politica un vocabolo che mancava da decenni: disfattismo. Per la prima volta l'ha utilizzato in un tweet il 12 marzo 2014, era premier da meno di un mese: non ha smesso più: «Abbiamo battuto il disfattismo cosmico dell'auto-flagellazione» (18 luglio). «Vince l'Italia che non si fa risucchiare dal vortice del disfattismo» (18 agosto, festeggiando le azzurrine del volley). «Gli esperti del disfattismo volevano bloccare l'Expo» (6 settembre). Lo schema è rudimentale: il governo lavora per il bene del Paese, chi critica tifa per la sconfitta. Dalla denuncia del disfattismo all'accusa di lavorare per la rovina dell'Italia il passo è breve. Nel 1952 sul film "Umberto D." di Vittorio De Sica il giovane e potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giulio Andreotti fece calare una sorta di maledizione: «Se nel mondo si sarà indotti, erroneamente, a ritenere che quella di Umberto D. è l'Italia del secolo ventesimo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria». E nel 1954, con l'accusa di essere «denigratorio dell'Italia», fu escluso dal festival del cinema di Venezia il cortometraggio "Quando il Po è dolce" sulle condizioni di vita nel Delta padano: il regista si chiamava Renzo Renzi. Oggi l'accusa di gettare fango sul Paese si abbatte sulla fiction "Gomorra". «Certi programmi tv sono offensivi e per niente rappresentativi della realtà che vogliono raccontare», ha tuonato il questore di Napoli Guido Marino. Il premier non si esprime sulla serie tv, ma attacca «chi fa la caricatura del Sud»: «Basta ripetere che quattro regioni italiane sono in mano alla mafia». Il presidente della regione Campania Vincenzo De Luca è andato oltre e ha sparato su Raitre «in mano a una lobby radical chic che è la più grande fabbrica di depressione del paese, fa giornalismo camorristico».
La Rai è il campo di battaglia scelto da Renzi per cambiare «modo di raccontare l'Italia». Sotto tiro sono i vituperati (da Palazzo Chigi) talk-show, in crisi di ascolti. «Il servizio pubblico deve fare informazione per permettere a chi sta guardando non di indignarsi o di eccitarsi ma di imparare qualcosa di più», ha detto il nuovo dg Rai Campo Dall'Orto al "Foglio". Ritorno al futuro: la Rai pedagogica, moralista e cloroformizzata degli anni Cinquanta, sotto il controllo del partito di governo, quella dello scrittore Bonaventura Tecchi, presidente del comitato di controllo sui programmi, che aveva lanciato lo slogan «educare divertendo, divertire educando». Qualcosa del genere è riecheggiato nell'aula della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai la settimana scorsa quando la deputata super-renziana Lorenza Bonaccorsi, responsabile cultura del Pd, ha spiegato che la futura Rai dovrà seguire le regole della Bbc: «Educare, informare, intrattenere. In quest'ordine» («Il motto è "inform, educate and entertain", l'informazione viene prima», ha replicato il direttore di Raitre Andrea Vianello).
Sottigliezze. L'Italia degli anni Cinquanta, nel mezzo della guerra fredda e alla vigilia del miracolo economico, tollerava i grandi giornali del Nord schierati con il centrismo democristiano e il monopolio dc dell'informazione radio-televisiva. Oggi la guerra fredda non c'è più e il miracolo ancora non si vede. E di quella stagione rischia di restare in vita soltanto il conformismo.
(Marco Damilano - l'Espresso)


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