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Cosa sai di me?

Creato il 18 settembre 2014 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

C’è un profumo un po’ dolciastro, come di qualche frutto, che sento spesso nell’aria. Mi fa impazzire. Perché è buono e non so cos’è, non l’ho ancora capito. E’ qualche cosa che appartiene all’estate eppure circola ancora nei pomeriggi di settembre, tra le strade della Brianza. Sta nel mio cervello assieme a tutti gli altri profumi che fanno parte della mia classifica speciale. Sta lì, insieme a quello delle foglie di menta e delle divise appena lavate.

Era nell’aria anche oggi, a tratti, un metro sì, cento no, mentre salivo alla salita di Giovenzana. Il nome sarà anche poco poetico ma quelle curve arcigne che si arrampicano per la collina sono un terrazzo sulla Brianza che si snoda sotto di loro, fino a che l’orizzonte azzurrino prende le sembianze di un sogno. Chi nasce qui, la bicicletta o la ama o la odia. Troppi sali e scendi: una discesa fa appena in tempo a compensare una salita che c’è ancora da alzarsi sui pedali, c’è ancora da far fatica. Il fiato non lo riprendi quasi mai.

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Ma alla fine, a pensarci bene, non è la strada piana che ci restituisce noi stessi. La sfida è la sintesi di molte cose. Anche quando siamo da soli e a tenderci il guanto è solo una strada. Ecco perché gli amatori si arrampicano fino a qui e ci tengono a dire che non hanno più l’età, che a settant’anni certe pazzie non si fanno. Ma salgono lo stesso, per dimostrare che l’han fatto anche loro, che sono arrivati su come quei ragazzetti lì che in salita volano o quasi. Questo piccolo paradiso lontano dalle macchine, pullulante di silenzio, spezza le ali e le gambe. Anche le moto della scorta tecnica fanno quasi fatica a salire. Soffrono i motori, figuriamoci quelli in bicicletta. Prima che i ragazzi arrivino, prima che dalla pendenza si possa scorgere il primo e poi tutti gli altri, penso che quella è la solita attesa, anche se è sempre diversa. E quelli sono i soliti boschi, i soliti prati e robinie e asfalti rappezzati e fruscii e odori di sempre. Da sempre, da quando sono nata. C’è una canzone di Davide Van De Sfroos che dice: “Cosa sai di me?”. Cosa sai di me, ciclismo? Tutto. Tutto senza quasi. Che l’inverno non mi piace perché non posso tuffarmi nei laghi e non posso seguire i ciclisti in capo al mondo. Che a volte mi sento piccola e inutile e scrivere mi riporta in rotta. Che la rabbia la sfogo battendo troppo forte sulla tastiera. Che quando ho una passione forte non riesco a frenare l’entusiasmo. Mi hai vista correre sotto il sole e sotto la pioggia. E ancora una volta sono qui come ogni anno, proprio come una specie di pellegrinaggio. Un ritorno alle radici. E non solo per questa terra. Un ritorno a tutte le radici, anche quelle interne che non scorrono nel sangue ma che coltiviamo da soli e che decidiamo dove far andare, come vene brulicanti verso l’acqua che scegliamo di bere. Queste sono le radici a cui torno quando ho bisogno di ritrovare qualcosa di mio. Anche questa attesa è una radice. Anche questi ragazzi che salgono senza fiato ad uno ad uno, mentre la Brianza si coccola nel torpore solo apparente del primo pomeriggio. Diego Rosa e Davide Rebellin sono stati ripresi da poco. Gruppo compatto. Di nuovo un’ azione svanita e che si può comprendere solo qui, per la strada, dove i metri valgono davvero per quello che sono. E i chilometri non sono soffi ma eternità. In televisione è un’altra cosa. E non potrebbe essere altrimenti perché il ciclismo ha sempre avuto la vocazione della condivisione. Tra ciclisti e tra tifosi e pure tra ciclisti e tifosi. E di questo ci si accorge ancora di più dopo, quando arrivano come sciami un po’ sperduti, quelli che non sono riusciti a tenere le ruote del gruppo principale. Zigzagano tra le ammiraglie o tra gli amatori che ancora salgono. Si distinguono dal numerino e dalla gamba guizzante. Un signore che cammina sul ciglio della strada in calzini perché gli scarpini da bici sono troppo scomodi, gli chiede cento e cento volte se vogliono una spinta. Lo chiede quasi con tenerezza e li incoraggia a voce, li incoraggia come se stessero in fuga, anche se ci sono ancora due tornanti infernali prima dello scollinamento. E poi il Lissolo, altro tempo nella terra di nessuno. Tornando in giù, verso Lissone , se ne incontrano ancora: vanno al loro passo, forse poi si ritireranno. Anche se è una cosa da stupidi, a me piace pensare che si vogliano gustare un po’ di quel paesaggio silenzioso, di quella gente che forse un po’ strana è: abita vicina, magari non si incrocia per anni, e dopo capita che una corsa li mette tutti d’accordo. Stesso dialetto, stessi argomenti, stesso pane e salame sbocconcellato in qualche angolo prima di un passaggio.

Che cosa sai di me, ciclismo? Tutto, anche quello che non si può dire qui. E forse non dirò mai nemmeno a me stessa. Perché ci sono cose che sono proprio come quel profumo di quella pianta che non so qual è: tornano ogni tanto per ricordarci in maniera prepotente che esistono. Non hanno un nome ma un posto nell’anima. Non ci si libera di quello che abbiamo scritto dentro. Nemmeno se qualcuno tenta di cancellarlo o di scriverci qualcosa d’altro. Le parole e le radici hanno in comune molto più di ciò che crediamo.

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