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Crazy Heart è un film di "non-azione". Non è sceneggiatura dialogica, coerente, di ferro, ma è storia letteraria trasposta e sfumata. E' un film che si poggia completamente su due fattori: l'interpretazione e la musica. In secondo piano, la regia e le scelte fotografiche. Scott Cooper, all'esordio da director, riesce a donare un quid diversificato di elementi che non si reggono su ciò che accade. Il film non ha una narratività letteraria che tiene conto della ferrea concatenazione ottocentesca causa-effetto, bensì gli elementi che ne costituiscono l'ossatura sono solo delle modalità espressive di qualcosa di diverso. Nell'assoluta indefinitezza di azioni, vuote nella loro ripetitività giornaliera, Cooper sposta il baricentro dal visibile all'invisibile, dal concreto alla sfumatura interiore. In questo senso la sceneggiatura è piuttosto ondivaga, distaccata, priva di quella leggerezza hollywoodiana ma anche della argutezza, talvolta artificiosa, del cinema europeo. Una pellicola semplice. Ed è la semplicità che contraddistingue la musica e l'artista country. Una semplicità non rigorosa, piena di sbavature, in bilico tra il successo trascorso e l'ubriachezza odierna, con quello sguardo disincantato verso la vita di oggi. Il tono aspro, la sporcizia, la rudezza del country sono state sostituite dal mercato del pop(ular). Bad Blake (Jeff Bridges, Oscar dopo nomination cadute nel vuoto) sembra lapidario anche con chi propone un country sfibrato, senza spina dorsale, e non ha un buon occhio per chi gli ha rubato il posto, il giovane Tommy Sweet (Colin Farrell), un ragazzo sfuggente, affarista, senza ispirazione. La musica country è un locus interiore, non una moda, un accessorio, un gingillo da modellare. E' girovaga, intontita, viscerale. Bridges, nei panni di un vecchio cantante country alle soglie del fallimento economico e personale, sembra essere un alieno non integrato nel mondo. Come il Mickey Rourke di "The wrestler". Il "Drugo" ha l'aspetto, l'atteggiamento, la vocalità ruvida, una smorfia di tacita indifferenza e malinconia di un vecchio singer. E "The weary kind", di Ryan Bingham, è uno dei brani country più toccanti di sempre. Parte dell'intreccio, la giornalista Jean (Maggie Gyllenhall). Il suo personaggio, sulla carta stereotipato, viene arricchito da sfumature inedite, piccoli gesti di una naturalezza disarmanti. Se c'è un grande Jeff Bridges, una parte del merito va ad una degna collega lavorativa come Maggie. Proprio il tono, basso e amorevole, ruvido e dolce, poco impostato, rende pienamente integrata la recitazione con il contesto in cui si ascrive. E la vicenda fa da sfondo alla mutevolezza di sè stessi nel seguire strade che non corrispondono al proprio disegno di vita. Cooper si avvicina ai suoi personaggi, cogliendone difetti ed emozioni, poi li lascia andare e in campo lunghissimo appaiono come particelle umane, mentre la dimensione ambientale, ben fotografata, nella sua maestosità, li ridimensiona, riconducendoli alla loro esistenza grama, semplice, quotidiana, frutto di un disegno "altro" che non è dato comprendere. E se c'è un veterano come Robert Duvall e un songwriter come T-Bone Burnett, l'omaggio ad un mondo scolpito in un tempo quasi irreale, come sottolieato dalla fotografia carica di luminosità, è sentito e non discutibile.
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