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Cucuzze

Creato il 22 aprile 2011 da Pupidizuccaro
window © Paolo Castronovo

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Angelo aveva le mascelle al posto delle ascelle. Pareva disegnato male. Manco che Dio si fosse ubriacato quando toccava sfornare quello lì.

Camminava sul suo motoruzzo, una strana mutazione indopakistana di Vespa, e pareva il cavaliere senza testa, il casco era sospeso tra il petto e la panza. Non c’era traccia di collo.

Lui ci soffriva e cercava di alzarsi un po’ la testa, pensava pure di ficcarsi un cavatappi proprio sul cucuzzolo della capa e tirare sino a quando ci riusciva per far uscire la sua testa di tartaruga dalla zona su cui si dovevano appoggiare le dolci testoline di carine biondine minigonnate.

No. Niente da fare. Aveva speso tutta la sua prima tredicesima in giro da esperti più o meno famosi. Niente. Provò pure coi cinesi che vendevano quelle cianfrusaglie vicino alla stazione. Niente. Provò a farsi scazzottare il mento e la pappagorgia da suo cugino Mariuzzu che aveva un bicipite grosso quanto un tacchino. Niente. Solo che ora aveva pure la mascella spaccata in tredici punti. Gli misero dei perni e un filo metallico a tenerci su la mandibola e lui chiese al dottore di tirargli su, dato che c’era, pure la testa. Niente da fare. Tartaruga cagona era nato e tartaruga cagona sarebbe morto.

 

Solo che il buon vecchio barbabianca che pullula su tutti gli altari col suo occhio uno trino e triangoleggiante aveva provveduto ad alzargli qualcos’altro. Compensazione. Semplice compensazione.

Già, perchè ad Anjiluzzo mancava il collo ma sotto aveva una mazza d’impareggiabile sfilettitudine. Sì, la chiamava così quella sua dote. Per gli altri era solo “Anjilu u sceccu”.

Si diceva che tutto fosse successo ai tempi dell’infanzia. La madre di Angelo era Teresona Succhiacucuzze, una buttanissima buttana conosciuta sino alle pendici dei Nebrodi. Teresona stava facendo il bagnetto al pupo (che ai tempi aveva ancora un piselluzzo inesistente) e l’aveva messo ad asciugare sul lavello, Il piccolo Angelo si girò per prendere una luccicante mannaia che pendeva dal posto del pentolame. La madre per evitare la tragedia si gettò sotto la lama tagliandosi di netto mezza faccia, il bimbo si prese in faccia le famose minnazze di sua madre: due sommergibili conosciuti da Palermo e provincia martellarono la testa del caruso. La testa rientrò, il collo era sparito.

E qui la verità si insugava di leggende spuntate tra buttigghiuna di vinazzo di casa.

 

Dicevano che al rientro del collo del picciriddo qualcos’altro s’allungò oltremisura. C’era pure un pupazzetto esplicativo, un fratacchione di plastica e tela che appena ci schiacciavi la pelata ti usciva dalla tonaca un pezzo di pistolone da far invidia ai trichechi che, notoriamente, se la passano bene nella zona del sottopanza.

 

Teresona Succhiacucuzze, ribattezzata prontamente Teresona la Sfregiata, dovette drasticamente abbassare le tariffe. E così quello che era stato un bordelluzzo fine e pulito a gestione familiare divenne un bugigattolo buono per gli ubriaconi che spendevano il resto ricevuto dell’osteria sul letto di Teresona. Angelo stava lì, col pennone che sporgeva come un periscopio dal pannolino già pieno di piscio e l’ubriacone di turno operava un immediato raffronto tra il proprio pistolino e lo strummulune del picciriddo che aveva si e no quattro anni.

 

Alle elementari le bambine lo lasciavano perdere. I bambini pure. Non si poteva giocare con lui a chi ce l’aveva più lungo. La vittoria era certa e amara per tutti. E allora Angelu crebbe in diametro e frustrazione.

Solo all’ultimo anno delle medie le cose cambiarono. I ragazzini di tredici anni lo odiavano, le ragazzine lo stuzzicavano toccandogli dietro l’orecchio e facendosi toccare l’interno molle delle cosce per vedere crescere il biscione.

 

A 12 anni Angelo aveva già duecentotrè rapporti completi sul groppone e non aveva dato manco una vasata lieve lieve. Le donne di tutte le età lo usavano, malignamente usavano solo la sua proboscide come se attaccato ad essa non ci fosse un dodicenne dotato di sentimenti. E così gli anni erano passati. Angelu s’era stufato presto. Voleva solo essere amato.

Non che gli dispiacesse avere la minchia più lunga del paese. Era deforme, mica scemo. Guadagnava e guadagnava tanto nell’industria porno che aveva messo su con suo cugino Mariuzzu. Angelu e Mariuzzu erano complementari: il primo era slanciato alto e bello come una statua greca. E come una statua greca aveva il pisellino piccolo quanto un’arachide.

 

Mariuzzu però aveva un cervello affilato come ‘na lametta gilette. Aveva presto capito che con la prolunga di suo cugino poteva diventare ricco. E allora volò a Praga e andò a documentarsi presso un compaesano che nell’Est era diventato regista di filmetti porno. Vide che ci voleva solo una videocamera, una bella tenda rossa e qualche cuscino da mettere sul pavimento. E naturalmente suo cugino.

 

Tornò a Ficarazzi con tutto l’occorrente e iniziò le riprese del suo primo lungometraggio: “Ammazza che mazza”. La trama non c’era. Come aiuto regista c’era Gino Giangrasso, detto Segazza. E si capisce: Gino passava la giornata ad allisciarsi il pifferiucolo seduto sul cesso. Gino doveva solo riprendere. Nei primi piani c’era Mariuzzu, Angelu serviva per le scene “frontali”. Insomma Angelu faceva il contracazzo: la controfigura del pisellino scarso e timido di Mariuzzu.

Filava tutto bene. Le videocassette vendevano oltre ogni aspettativa. Coi guadagni Angelu era riuscito pure a far aggiustare la faccia di sua madre.

Ma poi arrivò Giulietta. Giulietta faceva la costumista ed era brutta come un’incudine immersa in un camion di letame. E puzzava pure come una bananiera di guano.

Ed amava Angelu. Proprio lui, e non il suo batacchione over-size.

 

***

 

Nel paesino di Angelu era arrivato il progresso. Gente venuta dall’Est aveva saputo delle doti d’attore del serpentone di Angelu e lo volevano assolutamente. Gli promisero vasche piene di euro, donne belle con le tette puntute e strapuntute. Ma quel mondo non faceva per lui. Andò a dirglielo pure a suo cugino ma fu come parlare cu Pippu a’ Scimmia, lo scimunito dell’osteria.

Angelu cercava le parole nel suo piccolo lessico cementato da anni e anni di vita paesana. Aveva si e no cento parole per dire che s’era stufato di smazzare tutte quelle donnine di plastica.

Lo diceva pure Don Carmelo: “La redenzione è sempre possibile”. Don Carmelo era il parrino del paese, aveva una panza che sporgeva più del batacchio di Angelo e un barbone da babbo natale in cui si trovava di tutto. Cosciotti, costolette di maiale, patate al cartoccio, teglie di pasta a forno… tutti i resti dei pantagruelici pasti che il buon curato si concedeva tra un’omelia e un’estrema unzione.

“La redenzione è sempre possibile” diceva il parrino ogni domenica e puntualmente dalla barba spuntava il mezzo cotechino domenicale con tanto di contorno.

 

Era stato proprio Don Carmelo a raccogliere gli spasmi accorati di Giulietta. Giulietta era brutta, molto brutta ma era dolce come un marito che si deve far perdonare la prima scappatella. E poi aveva la voce più sexy di tutta la provincia. Era stata la sua voce a portarla sino al set della MariuzzAngel Suckingcocks Enterprise. Sulle pagine finali del Giornale di Sicilia, tra annunci di massaggiatrici esperte e ninfette piccanti, aveva trovato quel nuovo lavoro: CERCASI BRAVA PICCIOTTA SPICCIAFACENDE PER CARRIERA SFOLGORANTE NEL CINEMA INDIPENDENTE. RIVOLGERSI ALLA MARIUZZANGEL SUCKINGCOCK ENTERPRISE.

Lei ci aveva pensato mentre si sfilava la pancera per sequoie. Nel suo paesino le donne potevano fare solo due cose, o la maestra o la buttana. Con possibili gradi intermedi tra un estremo e l’altro. Lei era una di quest’ultime, faceva la maestra di catechismo e la centralinista alla Yuccel Paradise, una hot line da 7 euro per ogni minuto di telefonate, iva inclusa. E le telefonate erano solo sospiri, rantoli e mugolii incomprensibili che servivano agli amici di Segazza. Lei s’era stancata, aveva preso la sua voce calda da pifferaia magica e l’alone di puzza e moscerini che sempre la seguiva e aveva detto addio al mondo del porno telefonico.

S’era detta: “se buttana devo essere, tanto vale essere coerenti”. Dietro ‘sto bel pensiero da donna di mondo c’era la semplice riflessione di una trentaquattrenne imporrettata e da sempre sola che aveva visto solo un pisellino di striscio e per sbaglio, quello di suo padre che stantuffava la cameriera venezualana nella legnaia.

Era scappata via in lacrime, con l’immagine del culone bianco e peloso di suo padre – culone che, tra l’altro, aveva ereditato completo di tappetini tricotici su ogni chiappa.

La ritrovarono trentadue ore dopo. S’era nascosta tra le gambe del cavallo della statua equestre di Piazza Matrice. Stava lì, sotto il coccio di minchia del cavallo a piangere e puzzare. La puzza era iniziata così, i medici dissero che era psicosomatica. Sarebbe passata.

Avevano detto così 22 anni fa e la puzza era ancora lì.

 

Quella mattina Giulietta s’era sbarbata le ascelle, il culone e le cosce - quest’ultime grosse come due polene obese da galeone – e s’era immersa in una vasca da bagno colma di Mastro Lindo al Sapone di Marsiglia.

Riusciva, grazie all’aiuto del detersivo, a calmare la puzza quel tanto che bastava per accucchiare un abbozzo di vita sociale. Per l’occasione s’era infilata in un body reggiciccia e s’era messa le calze a rete che sarebbero bastate per pescare un capidoglio. E così, incipriando lei e i suoi moscerini, era andata alla MariuzzAngel.

Mariuzzu per poco non vomitò i dodici petti di pollo che si calava ogni mattina a colazione. Non aveva mai visto un cesso così scofanato. Ma Mariuzzu era buono e, soprattutto, Giulietta era stata l’unica a rispondere a quel cazzo d’annuncio che aveva lasciato scrivere al Segazza che s’era proclamato uomo di penna. Segazza infatti era l’unico con la licenza di ragioniere, gli altri, grazie alle bestemmie paterne e materne, erano arrivati a per forza alla licenza elementare a suon di calci in culo. Calci in culo equamente elargiti dai Maestri e da genitori e affini.

Così Giulietta aveva avuto subito il lavoro e, per evitare di spaventare le attrici, Mariuzzo decise prontamente di esiliarla nell’ufficio di Segazza: lo sgabuzzino delle scope. Da lì doveva rispondere al telefono e ordinare le pizze.

 

- hai capito tutto?

- Sì, signor Mariuzzo. Devo stare lì e rispondere al telefono. Non devo uscire per nessun motivo.

- Brava ragazza, farai strada. Alla MariuzzAngel siamo una grande famiglia.

Mariuzzo aggiunse a quella frase un buffetto sul faccione in quadricromia della Giulietta. Fu come immergere la mano in un vastiddune di burro rancido.

Giulietta divenne tutta striata di fucsia, dall’emozione rilasciò la panza e il body reggiciccia si scricchiò. Uscirono fuori due tettone immense con due capezzoloni a spadotto.

 

Mariuzzo, ch’era cresciuto sul pianerottolo del bordello di sua zia, non credeva ai suoi occhi. Quello scorfano aveva le tette più grosse di quelle della zia Teresona. Odorò meglio e capì che nessuno s’era mai permesso di ciucciare quegli spadotti: puzzavano di gorgonzola. Il suo cervello era fino e accantonò subito l’idea di fargli fare i primi piani, l’afrore di Giulietta avrebbe appannato gli obiettivi e poi lui già stava diventando cianotico.

- Mi scusi… – Giulietta divenne color culo di melanzana, si rinfilò le macropoppe in quel poco di reggiciccia che ancora teneva e incominciò a singhiozzare e rantolare. Insomma, fece quello che aveva fatto negli ultimi dodici anni alla Yuccel Paradise.

 

Mariuzzu che aveva un registratore di cassa tra gli emisferi cerebrali capì che a far doppiare i gloriosi film della MariuzzAngel dalla voce di quell’incudine tettuta avrebbe decuplicato il capitale. Poteva aprire un nuovo mercato, cinema porno per ciechi, la voce del sorcio puzzone era piena di promesse da lenzuola bagnate.

- Signorina, la promuovo subito. Lei sarà la nuova costumista. Provvederà alle mutandinuzze delle attrici e ai perizomi piumati del sottoscritto e, dato che c’è, potrebbe pure doppiare tutti i film. Ha una voce bellissima. Facciamo come quelli della Warner Bros hanno fatto con lo struzzo, un solo Beep moltiplicato all’infinito. Basta che lei mi fa una bella sequenza di quei sospiri che io poi la rimando avanti e indietro.

 

E Giulietta vide infrangersi i suoi sogni. Anche in un set porno non avrebbe mai conosciuto i piaceri del piffero. Pure lì doveva solo mugolare e stirare mutande.

Lo stipendio era buono e accettò.

 

***

 

Angelu era appena tornato dalla cena di lavoro con quelli dell’Est. Una serata da incubo in cui due ciccioni, sfumacchiando sigarozzi panciuti e invadenti, gli avevano portato una valigetta piena di banconote da 100 euro e una proposta: volevano clonargli il pinnacolo.

Uno dei due era uno scienziato pazzo radiato dall’albo dei veterinari che aveva messo a punto una specie di processo di scissione molecolare. Non che Angelu ci avesse capito granché, doveva solo infilare l’obelisco in una specie di teglia di besciamella e lasciare che la cazzopoiesi facesse il resto.

Lui pensò che era una buona cosa, guadagnare mezzo milione di euro solo per schiaffare la mazza in una teglia. Con quella cifra di sicuro lo trovava uno in grado di stirargli il collo, li avrebbe spesi tutti sino all’ultimo centesimo per avere un collo da giraffa, un collo per vedere gli altri dall’alto in basso. Come gli altri avevano fatto con lui per una vita intera.

Disse che doveva andare a cambiare l’acqua allo pterodattilo e si alzò dal tavolo. Nel tragitto dal tavolo al cesso sgusciò via da Lucilla che voleva solo la solita sveltina dietro gli scatoloni di quella carne per cani che Michele u’ Chef riusciva a trasformare nel ragù più buono di tutta la provincia.

Andò a chiudersi nel cesso e da lì telefoninò a sua madre.

 

Sua madre stava spalmandosi un teglia di crema anticellulite sulla pelle a buccia di zucca che si ritrovava sulle cosce. Rispose grugnendo.

- Mamma, sti due mi dissero che devo solo fargli prendere un campione del turcigghiune. Al resto pensano loro. E diventiamo ricchi.

- Anjilinu, io sono già felice di averti cresciuto bene. Fai la scelta che ti pare più buona.

 

Quando Teresona parlava, Angilu la capiva sempre al volo.

Accettò l’offerta.

 

***

 

Tre mesi dopo, finiti di girare gli altri dodici lungometraggi previsti dal contratto, Angelu prese il coraggio tra i calli delle mani e disse addio alla MariuzzAngel.

Mariuzzu cercò di farlo ragionare ma poi lo lasciò libero, Mariuzzu era in fondo un bravo cristianeddu. Tanto, coi “primi piani” che aveva fatto alla zona sottopanza di Angelu, poteva fare filmini da qui all’eternità, bastava lavorare in sala montaggio. Segazza era bravo con queste cose.

Angelu salutò tutti, dalla truccatrice alle attricette, quest’ultime erano naturalmente le più disperate. Passò pure dall’ufficio di Segazza per congedarsi e poi passò a salutare Giulietta, la donna più dolce e sincera che avesse mai conosciuto. L’unica che lo guardava negli occhi e non nella zona del pacco.

La salutò balbettando. Come sempre. E Giulietta diventò color scarafaggio spiaccicato.

 

- Ciao Giulie’, sei l’unica che mi mancherà. Sul serio.

- Anjilinu… io… io…

E qui, giù, lacrime a ettolitri. Sospiri che parevano dodici aspirapolvere in azione.

- Giuliè, non fare accusì. Vado a farmi aggiustare e torno. Torno e magari andiamo al cinema e a prenderci pure ‘na pizza da Cicciu U’ Ngrasciatu.

- Angilu, io ti amo.

 

Finalmente glielo aveva detto. E qualcosa successe.

La puzza svaporò via.

 

- Ti amo pure io, Giuliè.

E qui Angilu e Giuletta si dettero reciprocamente il loro primo bacio.

 

La sera stessa Mauro Manciaracina, u’ musicante, si mise sotto il balcone geranizzato di Giulietta e, rimboccato ogni tre accordi dalle banconote di cinque euro di Angilu, cantò e ricantò il suo repertorio. Giulietta era stracotta, felice come non lo era stata mai. E quando Angelu volò in America a farsi tirare il collo, lei lo aspettò.

 

Quando tornò, il suo Angelino pareva una bellissima gallina spennachiata con gli occhi pesti e un collare di gesso. 50000 euro per ottenere quindici centimetri di collo. Era felice, era pure innamorato.

Lasciò perdere per sempre il mondo del porno e chiese la manona della sua Giulietta che nel frattempo aveva smesso definitivamente di puzzare – perfino le scuregge adesso le aveva profumate – e s’era messa pure a dieta.

Aveva già perso 1 chilo e 750 grammi. Le malelingue dissero che era quello il peso dei moscerini che erano volati via.

E, dato che c’erano i soldi, Giulietta andò con la sua futura suocera, Teresona la Redenta, a farsi sucare via anni e anni di ciccia. Alla fine della seduta il mediconzolo Alfredo Scannazzato aveva riempito tre botti e un quarto di lardo doc che rivendette a Michele u’ Chef per il suo ristorante.

 

***

 

Il giorno del matrimonio tutto il paese s’era messo l’abito della festa. Perfino i vecchi erano andati a farsi aggiustare zazzere e riporti da Nicolino Zazà, il barbiere del paese.

Era una bella storia quella di Angelu e Giulietta capace di finire dritta dritta tra le omelie edificanti incastrate tra i cotechini barbuti di Don Carmelo. Fu proprio lui a celebrare il matrimonio. Per l’occasione il parrino s’era pettinato la barba e da lì erano caduti perfino mezzo broccolo e due cotolette di soia. Era quello il trucco di Don Carmelo per far sparire i piatti dietetici che la sua perpetua gli metteva davanti per farlo stare in salute. Don Carmelo era raggiante, pareva Noè quando finalmente era ritornato il colombaccio con l’ulivo tra il becco.

- Angelu e Giulietta vi dichiaro marito e moglie. Prima di baciarvi, vi dico solo una cosa: amatevi come due compagni di viaggio. Questa è l’unica raccomandazione mia. Se vi amate come due compagni di viaggio, la vita sarà bella piena come un piatto di caponata. Vi gusterete tutti gli ingredienti e vi prenderete pure il bicarbonato assieme per digerire i brutti momenti che non mancano mai-

 

***

All’uscita Segazza e Mariuzzu tirarono sulla coppia uno scatolone di riso scotto e piansero come Teresona quando era andata con le amiche della parrocchia a vedersi “My Life”.

I due sposini andarono a farsi il viaggio di nozze intorno al mondo, avevano solo un progetto: seguire le belle parole di Don Carmelo.

Ci riuscirono.


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