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Cura dei contenuti e giornalismo: etica, connessioni e valore

Creato il 30 gennaio 2013 da Leliosimi @leliosimi

curation-001Quando si parla di nuove metodologie o di nuove pratiche per il giornalismo dell’era digitale succede che si debba sottolineare come, quelle stesse “nuove” pratiche, in realtà siano un modo per recuperare e valorizzare cose ben conosciute e attuate nel mondo dell’informazione da molto tempo. Vale ad esempio per la verifica delle notizie, il fact checking o per il dialogo con i lettori, e per molto altro: vecchie, buone regole e capacità di adattamento ai nuovi contesti. Per alcuni questa è la prova evidente che, alla fine, non c’è niente di nuovo sotto il sole – “è una cosa che si è sempre fatta” – e quindi tutto questo parlare di nuovo giornalismo è un mero esercizio un po’ fine a se stesso. Ma per altri si tratta invece di ripensare e recuperare buone pratiche che, per molte ragioni, si erano perse per strada e che oggi, con i nuovi strumenti – e magari un po’ di buon senso – possiamo ripensare, recuperare e rilanciare. Insomma guardare indietro ma con mente aperta verso il futuro…

Il discorso vale sicuramente anche per l’aggregazione e la cura dei contenuti (che non sono però la stessa cosa, ma ne parlo più avanti), pratiche consolidate sulle quali è necessario rilanciare nuove idee per aggiornare una professione che su molti aspetti ha ormai perso il proprio primato: “I giornalisti hanno fatto cura dei contenuti per anni. È sempre stata una parte integrante del modo nel quale selezionavamo le notizie. Forse non la chiamavamo curation, ma la stavamo facendo lo stesso. È nel nostro Dna” scrive David Brewer – giornalista con una vasta esperienza in grandi testate – sul suo blog  in un ottimo articolo da leggere per completezza sull’argomento.

Vero, ma cosa fa un curatore, in particolare un curatore nel campo del giornalismo? Deve raccogliere, sintetizzare, dare senso, aggiungere valore, attribuire, linkare, incuriosire, affascinare e intrigare: non c’è che dire, una bella lista di cose da fare, quella redatta da Steve Buttry, a inizio di un suo pezzo dove dà il benvenuto all’allora neoassunto team di news curator alla Digital First (uno dei punti di riferimento sulle nuove politiche digitali nell’informazione), l’editore nel quale Steve è responsabile del settore digitale (digital trasformational editor per la precisione).

Da quando curation è diventata una “etichetta” di moda è utilizzata spesso anche a sproposito, tirata per la camicia in qualsiasi contesto, con conseguente rischio di far diventare il termine una parola-scatolone da poter riempire del significato che più aggrada chi la utilizza. Ma è vero anche che, sul tema delle possibili utilizzazione della curation nel campo del giornalismo (digitale e non), si stano sviluppando una quantità di riflessioni e spunti spesso davvero molto interessanti su metodologie, strumenti, “stili” e molto altro. Così, visto che in questo spazio vorrei cominciare a parlarne con più continuità di quanto fatto in passato, butto giù tre punti di riflessione, giusto per iniziare.

#1 La cura dei contenuti deve rispettare dei codici etici. Citare e attribuire correttamente la fonte, sono pratiche che nella professione giornalistica dovrebbero avere basi etiche solide e ben consolidate. Dovrebbero. Certo il raptus da copia-e-incolla ha fatto parecchie vittime, anche illustri. Quindi: attribuire, e nella giusta maniera riconoscendo sempre il lavoro fatto da altri, perché mettere un link da qualche parte non basta. Come ha giustamente ha fatto notare il curatore Rex Hammock senza tanti giri di parole:

Negli ultimi tre anni o giù di lì, il termine media curation è stato inteso sempre meno come una pratica di aiuto e di servizio e sempre più come un termine da utilizzare per imbellettare malamente un modello di business che si basa sostanzialmente su questo: “vai e ri-scrivi cose che trovi altrove su tutto ciò che è trend su Google e seppellisci poi un link da qualche parte verso la fine dell’articolo, in modo che non si possa affermare che quello è mero ri-scrivere una storia scritta da qualcun’altro”

curation codeIl problema esiste tanto che anche Maria Popova, che della content curation è autorevolissima esponente, ha promosso, nel marzo 2012, un codice etico della curation.  Che propone, tra l’altro, un formato standard per indicare le attribuzioni.

È molto utile, sul tema dell’attribuzione corretta, leggere ancora Steve Buttry, che nell’articolo già citato scrive alcuni principi etici “non-negoziabili”, tra i quali:

Attribuzione deve essere sempre completa, citando  il giornalista e la testata, se entrambi sono identificati nella fonte originale. Riferimenti vaghi come “notizie di stampa” o verbi passivi come “è stato segnalato” non sono sufficienti. Anche se la sorgente è un concorrente, attribuire completamente indicando il nome. Se si citano fonti non giornalistiche è necessario attribuire nel modo più competo citando la persona, l’organizzazione e/o il suo sito.

#2 Cura dei contenuti e aggregazione non sono la stessa cosa (o se preferiamo diciamola così: la curation è qualcosa di più che  semplicemente, mettere insieme qualche buon contenuto). Cura e aggregazione vengono molto spesso utilizzati quasi come sinonimi. Sbagliato. Limitare il lavoro di curation a quello di mettere insieme, aggregare, dei contenuti è limitativo. Per questo in molti, ad esempio, mettono in evidenza la necessità di un “fattore umano” nel lavoro di cura dei contenuti e non solo di aggregazione realizzata grazie ad algoritmi più o meno funzionali.

L’esempio più utilizzato in questo caso per spiegarne la differenza tra cura e semplice aggregazione è quello di pensare al curatore di contenuti così come pensiamo al curatore di un museo, che allo stesso modo seleziona, aggrega, autentica, studia e analizza temi e argomenti, ma propone qualcosa di (molto) di più al visitatore che “semplicemente” qualche bel quadro. Le cose migliori, a mio parere, su questo particolare aspetto le ha scritte il giornalista Adam Schweigert in un bel post , ne ho tradotto qui un passo:

Come responsabile di un museo raccoglie e organizza gli oggetti in una galleria per migliorare la nostra comprensione e l’apprezzamento della loro storia e del contesto più ampio, così dovrebbero fare i curatori di notizie, organizzare raccolte di informazioni in modo da aumentare la nostra comprensione della storia che si trova all’interno. [...] Questa è la nuova definizione di “possedere una storia” – non necessariamente essere il primo a riferirla, ma piuttosto essere il curatore migliore, il più attento e capace di persistere nel tempo con informazioni che aiutino veramente le persone a capire.

#3 Cura dei contenuti vuol dire aggiungere valore a quei contenuti. Che poi è la diretta conseguenza del punto precedente: la curatela dei contenuti è un processo di selezione, aggregazione e verifica (eh sì anche verifica) al quale si deve aggiungere valore. “I curatori creano opere editoriali del tutto nuove, trovano, filtrano, e contestualizzano per trovare significato nella ‘nuvola’”, scrive in un bella riflessione – giustamente molto citata in questi giorni – Steven Rosembaum Ceo di Magnify.net, piattaforma di video curation  sulla Columbia Journalism Review, e aggiunge:

La curation, nella sua forma più pura, risolve un problema e soddisfa un bisogno crescente.

Il curatore dà delle risposte alle domande dei lettori, alla nostra voglia di comprendere meglio i fatti. Già perché i curatori, in una definizione di Maria Chiara Pievatolo che ho già usato in questo blog: non si limitano a riportare informazioni, ma suggeriscono dei percorsi e dei nessi. Sono cercatori di conoscenza e battitori di piste. Quindi disegnano contesti (e contestualizzare resta ancora una delle funzione principali del giornalismo, non è così?), tracciano percorsi nel senso che uniscono fatti, dati, idee e concetti per dare elementi utili al lettore per comprendere meglio la realtà, gli eventi che i media raccontano.

Che si tratti di far emergere, dal flusso continuo dei dati e delle notizie lanciate attraverso i media sociali, il racconto delle rivolte durante la primavera araba come Andy Carvin, o invece d’immergersi nei fondali di qualche archivio digitale per riportare alla luce (e all’attenzione del lettore) materiali dimenticati dalle prime pagine di qualsiasi ricerca su Google come Maria Popova, il fine del buon curatore potrebbe essere (con un po’ di azzardo) sintetizzato così: creare un contesto di riferimento, delineando con precisione un quadro chiaro per il lettore per guidarlo in un percorso di senso, attribuendo i contenuti agli autori (e a chi glieli ha fatti conoscere), crea nuove connessioni, aggiungendo idee, analisi per dare strumenti capaci di far comprendere la realtà al lettore.

Mi sono dimenticato qualcosa?, sì ovvio, e parecchio credo. Per questo idee e suggerimenti sono bene accetti. Come sempre.

fonti e materiali:

Introducing The Curator’s Code: A Standard for Honoring Attribution of Discovery Across the Web (Brain Pickings)

Curation techniques, types and tips (Steve Buttry)

Rethinking the Curator’s Code: Hidden Dangers of Elevating Content Sharing (The Content Strategist)

Towards a Better Definition of Curation in Journalis (Adam Schweigert)

Stop knocking curation (CJR)


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