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Da Farenheit alla novela negra

Creato il 10 settembre 2010 da Dallenebbiemantovane
Ogni anno, ad ogni festival, finisco sempre per accorgermi della stessa cosa: che leggere uno scrittore e incontrare uno scrittore sono due esperienze radicalmente diverse.
E mi ricordo di quello che ci aveva spiegato un giorno il mio insegnante di filosofia introducendo Platone: che tra le molte opere perdute di Platone vi erano i resoconti delle sue lezioni all'Accademia. Ossia, le sue lezioni orali sono andate perdute, e non sapremo mai che cosa vi diceva.
Restano invece i dialoghi, in cui egli mette in scena Socrate e lo fa interagire con i più svariati personaggi. Ma le lezioni non le ritroveremo più.

Ora, se lo scrittore ha voglia di mettersi in gioco, ossia se non ripete tutte le volte la stessa scenetta preparata a memoria, come alcuni in parte o in tutto fanno, l'incontro con i lettori e i giornalisti è fecondo: pianta semi di dubbio, di curiosità, di approfondimento, di smentita delle credenze, dei pregiudizi, dei cliché.

Oggi sono andata con l'amica Orne, anobiana ferrarese che passa a Mantova cinque giorni immergendosi nel festival a trecentosessanta gradi, a sentire e vedere Farenheit.

Ora, io nella mia immensa ignoranza, sapevo che in piazza Concordia c'era lo stand con il caffè Illy buonissimo e gratuito; non sapevo invece che che su Radio 3 ci fosse un programma culturale che va in onda dalle 15 alle 18 il quale trasmetteva da Mantova per tutta la durata del festival.
Ci siamo sedute per terra, quasi sotto un tavolino (mi sentivo come quando da bambini ci si rincorre sotto i tavoli ai matrimoni) e dopo un'ora avevo il culo e le gambe distrutti.
Ma che puntata ho visto!

Gli ospiti – sempre a sorpresa – erano nientemeno che Gustavo Zagrebelsky e Michela Murgia, seguiti dal premio Nobel Naipaul e poi da Lella Costa.

La Murgia, con evidente intento polemico, si è messa un abitino rosso succinto superscollato da cui prorompe la sua esuberante scollatura, il ché fa da filo conduttore alle sue - sensatissime - argomentazioni sulle famose dichiarazioni del premio Campiello.
Il costituzionalista parla del suo rapporto con Einaudi e della sua volontà di restare in quella scuderia, al di là delle polemiche attuali, per le ragioni che, al di là dell'attuale proprietà ed evidente conflitto di interessi in corso, non ha mai finora subito censure o condizionamenti; e che la casa editrice ha una storia, una struttura, un patrimonio genetico che permane, che è parte della storia dell'Italia libera, e – professa il suo ottimismo – tornerà prima o poi ad esserlo, al pari del Paese stesso.
Beato lui che è fiducioso: a me pare un po' un sedersi sulla riva del fiume e aspettare che passi il cadavere del tuo nemico: che poi, intendiamoci, è quello che un po' tutti noi stiamo facendo, ma per me è una passività forzata e insopportabile.

Tutti hanno trattato temi interessanti, il conduttore è un vero gentleman e fa divertire, la Costa poi, la Lella... che dire.

Sono anni che ogni tanto la vedo dal vivo e ogni volta mi sorprende, mi fa innamorare con la sua verve, la sua bravura, il suo padroneggiare la lacrima e la risata dello spettatore come solo i grandi attori sanno fare.

Oggi ha parlato – per un quarto d'ora, recitando a memoria – della Poesia. Citava Montale, Carducci, la Dickinson, Eliot... No, la poesia è una cosa inutile ma non possiamo farne a meno.

Più tardi, alle 21.00, faccio due passi fino alla chiesa della Madonna della Vittoria e assisto all'incontro in spagnolo senza traduttore con la giallista Teresa Solana.

Un volontario introduce spiegando che gli incontri di quest'anno in lingua originale sono una sperimentazione che sperano di ampliare in futuro: personalmente sarei favorevole a che diventassero la norma e non l'eccezione, visto che in tutti gli incontri tenuti in inglese, francese o spagnolo cui ho assistito in tredici anni, ho sempre capito tutto e visto la maggior parte degli spettatori ridere e applaudire alla voce dello scrittore senza attendere la traduzione.
Insomma, ce la potremmo fare: siamo maturi per fare a meno del traduttore.

L'argomento, in questo caso, mi interessa relativamente: ovvero, mi pare annosa e scaduta la vexata quaestio se il giallo abbia dignità di romanzo e se sia il nuovo romanzo sociale.
Però è molto divertente sentirne parlare in spagnolo con riferimenti a giallisti di ogni genere, dalla Christie all'hard boiled, da CSI alla Giménez-Bartlett, da Markaris a Mankell e Larsson.

Attraverso le domande la Solana giunge anche a una verità importante: non può esistere romanzo giallo in un regime dittatoriale, e infatti la Spagna, guarda caso, ebbe i suoi primi Montalbàn solo dopo la morte di Franco, nel 1974.
Come mai?
Perché le dittature detestano il senso dell'umorismo che spesso i romanzi gialli possiedono, e perché la censura non ne tollererebbe, in generale, la tematica.


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