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Da una ricerca: la diversabilità è valore aggiunto

Da Agueci

Ancora ridotta la partecipazione alla vita «normale» e lavorativa

«La società, nella sua genericità, tende a stigmatizzare il “diverso” (…) in questo territoriola partecipazione alla vita sociale è minima». È quanto emerso dalla ricerca condotta dalla sociologa Ignazia Bartholini e dalla dottoressa Paola Gandolfo, neolaureanda in Servizio Sociale, che ha come titolo “Il sapore amaro dell’integrazione dei soggetti con disabilità nel mondo del lavoro: analisi sociologica del fenomeno tra risorse e pregiudizi”. La ricerca, condotta con acume e perizia dalle ricercatrici, è stata circoscritta alterritorio della Valle del Belice e al capoluogo nel quinquennio 2007-2011 e, attraverso l’intervista “qualitativa semi-strutturata autobiografica”, sono state incontrate dieci persone, dai 32 ai 60 anni, con disabilità diverse, inserite nel mondo del lavoro.

La Gandolfo, anch’essa diversamente abile, parte da due premesse: la prima, che tutti gli uomini hanno dei limiti, la seconda che la disabilità non è, e non può essere, un problema che interessi solo dei soggetti. La disabilità coinvolge tutti, essendo riconducibile alla categoria più ampia della difficoltà. E allora si chiedono: «perché quando pensiamo a chi ha un limite, ci viene in mente solo un estremo (il disabile) e non l’essere umano nella sua globalità? Perché la maggior parte delle persone guarda l’individuo disabile come al soggetto bisognoso di aiuto, quando tutti hanno bisogno di aiuto?» La risposta sta nel modo in cui ognuno di noi risponde al limite; l’handicap, infatti, non è un dato in sé, ma il frutto sociale di condizioni ambientali svantaggianti, emarginanti, che creano difficoltà e per questo andrebbero abbattute e superate.

Da qui, nonostante la Legge 68/99 che tutela il diritto al lavoro dei disabili, nasce l’urgenza dell’analisi dei pregiudizi e dei possibili percorsi d’integrazione e la verifica di quali siano i più efficaci per l’inserimento dei soggetti con disabilità nel mondo del lavoro.

È stato rivelato negli ultimi tempi un lento approccio culturale al mondo della diversabilità ma «l’integrazione è purtroppo, ancora oggi, un processo a senso unico; sono spesso le persone con disabilità che devono adattarsi a una struttura sociale che non è a loro misura; le pari opportunità non sono rispettate: «la donna è vista come l’anello debole, discriminata due volte: perché donna e donna disabile»; la partecipazione alla vita sociale è molto ridotta; emerge un disagio non solo dell’individuo, ma anche dei propri familiari; ai fini lavorativi, il titolo di studio non ha un valore rilevante; la richiesta di lavoro per i laureati è piuttosto bassa; l’inserimento di un diversamente abile per l’azienda, soprattutto se disabile intellettivo, è vista come un peso.

«Le conseguenze di questa situazione - dicono le ricercatrici - è la rabbia vissuta da una persona con disabilità che si traduce in frustrazione, abbandono a se stessi, fuga dalla realtà in quanto, il rifiuto s’interseca con il sentirsi un peso per gli altri».

Quali indicazioni emergono? La comunità, o più in genere gli aggregati umani, deve sempre più giocare un ruolo di responsabilità per creare una società vivibile e moderna, basata sulla fiducia reciproca e sulla capacità di relazionarsi, ciò porterà a valorizzare il “diverso” e la ricchezza umana, spirituale e culturale, di cui è portatore e complemento, mai paragonabile a un “normale”.

SALVATORE AGUECI


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