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Dal "lavoro del corpo" all'immagine del Sé

Creato il 20 agosto 2010 da Bruno Corino @CorinoBruno


Nell’epoca premoderna esisteva una differenza netta e inequivocabile tra il “lavoro del corpo” e il “lavoro delle mani”. Il lavoro del corpo è un processo organico che, “incorporando” biologicamente e ciclicamente al proprio interno cibi e bevande, ne permette la sopravvivenza e la sua reintegrazione vitale: il mangiare e il bere sono di fatto attività indispensabili alla stessa sopravvivenza del corpo. Su questa attività il nostro Io non ha un controllo completo: possiamo decidere cosa, come, quanto o quando mangiare o bere, cioè possiamo “decidere”, sulla base della disponibilità che abbiamo, “cosa” incorporare, ma una volta effettuato il processo d’incorporazione, il resto del lavoro spetta al corpo. L’opera delle mani, invece, è diretta alla produzione di beni durevoli. Come scrive Arendt, l’opera del corpo «è un processo che ovunque impedisce alle cose di durare, le logora, le fa scomparire», mentre l’«opera delle mani» costituisce ciò «che non prepara materia per l’incorporazione ma la trasforma. Dal punto di vista della natura, è l’opera piuttosto del lavoro che è distruttiva, perché il processo dell’operare sottrae materia alla natura senza restituirgliela, come avviene nel rapido corso del metabolismo naturale del corpo vivente»[1]. Insomma, la differenza tra il momento del consumo e quello della produzione, nell’epoca premoderna, era ben distinta: tutti i prodotti che provenivano direttamente dalla terra (cibo, acqua) erano “beni” di immediato consumo. Anche quando il loro consumo veniva differito, attraverso tecniche di conservazione, questi beni non erano mai percepiti come duraturi, in quanto la loro durata era comunque limitata a un ciclo stagionale. I prodotti organici, il cibo per intenderci, come diceva Locke, sono cose «realmente utili alla vita», e sono «generalmente di breve durata, giacché se non sono consumate dall’uso deperiscono subito e si annullano da sole».
Tutti i beni “durevoli” erano il prodotto delle mani: dalle abitazioni, agli attrezzi da lavoro, dal vestiario ai mobili, alle armi, ai mezzi di trasporto (carri, navi) ecc., erano beni ricavati dai materiali “trovati” in natura, ma che divenivano tali grazie alla trasformazione delle mani. Anche se questi materiali venivano sottratti alla natura per essere trasformati in opere dall’uomo, la loro durata (che ci si augurava fosse la più lunga possibile) garantiva comunque un certo equilibrio tra ciò che alla natura veniva sottratto e ciò che le veniva restituito. Nell’ambito di queste opere delle mani, l’opera d’arte si presentava come la più “duratura” per eccellenza, poiché la sua “fruizione” non ne esauriva mai il consumo, mentre l’“uso” continuo di un vestito o di un attrezzo da lavoro finiva con il logorarlo o con il deteriorarlo. All’estremo opposto del lavoro del corpo avevamo l’opera d’arte: al consumo immediato veniva opposto un non consumo. 
La società industriale ha sovvertito questo ordine di cose, e ha trasformato l’opera da bene duraturo, prodotto delle mani, a bene di consumo immediato (corporale). Nel mondo pre-industriale i prodotti del lavoro umano avevano una loro durata, soltanto i prodotti organici venivano consumati immediatamente, in quanto servivano al mantenimento del ciclo biologico. Il ciclo naturale si ristabiliva quando ciò che veniva sottratto alla natura viene restituito sotto altre forme. La metafisica della natura aveva nella sua ciclicità la sua essenza. Se i prodotti industriali avessero una loro durata, se il loro valore d’uso fosse molto più stabile e duraturo, se ad esempio gli uomini e le donne non fossero continuamente indotti a sostituire un prodotto con un altro, a volte persino uguale tranne che in qualche piccolo dettaglio, il processo industriale si arresterebbe, perché raggiungerebbe subito la saturazione. Se i consumatori restassero “affezionati” al loro prodotto, se essi investissero parte della loro storia e della loro memoria su un prodotto, come si fa effettivamente per la propria casa, tutto ciò non li spingerebbe a comprare nuovi prodotti che danno le medesime prestazioni. Si capisce pertanto perché nel ciclo industriale la produzione deve assumere le identiche caratteristiche che hanno i prodotti organici per il lavoro del corpo. Il loro consumo deve essere immediato, deve saturare subito l’organismo, ma allo stesso tempo essi debbono essere subito espulsi per fare posto a un nuovo prodotto. Anche il processo di assimilazione non deve durare molto. In sostanza, il prodotto di consumo deve avere le stesse qualità e la stessa funzione che i prodotti organici della natura hanno per l’organismo umano. Nel mondo industriale, dove la produzione è interamente umana, anche e il lavoro umano viene interamente “incorporato” nella macchina produttiva, incorporato nel senso letterale del termine, cioè come l’organismo incorpora i prodotti organici, li assimila in sé, prende quelle sostanze che servono a farlo crescere e vivere ed espella la parte inutile, restituendola alla natura, così la macchina produttiva assorbe l’elemento vitale dell’uomo per accrescere ed espandersi per poi liberarsene subito non appena quell’elemento diventa un impedimento o un ostacolo alla propria crescita.
Il consumo di beni si è ridotto a qualcosa di corporeo, cioè a qualcosa che deve essere consumato immediatamente. Nella società postmoderna il consumo ha finito con il prevalere sulla stessa produzione: il corpo è stato trasformato in un “simulacro”, e il lavoro dell’immagine del proprio sé ha sostituito e soppiantato quello del corpo. Infatti, ciò che è “bene” per la propria immagine del sé non è detto che lo sia anche per il corpo. Se il corpo deve essere sottoposto a degli interventi dolorosi e rischiosi di chirurgia estetica al fine di preservare e curare la propria immagine non importa. Se il corpo deve sottoporsi a delle diete rischiose per il proprio corpo, non importa. La cura dell’immagine giustifica ogni mezzo, ogni intervento, ogni privazione e ogni rinuncia: l’importante è che stia bene l’immagine del sé, non il proprio corpo. Ora, si ha un controllo completo sul lavoro della propria immagine del sé. La società dei consumi ha interrotto la ciclicità della natura, e ha introdotto un rapporto lineare tra l'uomo e i beni di consumo. I beni sono diventati un'estensione del proprio Sé, e come tali sono stati assimilati al lavoro del corpo. I beni dell’opera umana sono diventati, soprattutto grazie alla manipolazione della pubblicità, segni e simboli del nostro essere e stare al mondo. In quanto ormai veicolano la nostra immagine, i beni di consumo sono incorporati nella immagine del sé. Come il corpo ha bisogno di introdurre beni di immediato consumo per ristabilire la sua integrità vitale, così l’immagine di sé ha bisogno di incorporare sempre nuovi prodotti per ristabilire la sua efficienza ed integrità. L’immagine del Sé, in quanto simulacro del corpo, dimostra una “voracità” superiore a quella del corpo: mentre il lavoro del corpo comunque non poteva essere gravato più del necessario, poiché dopo aver divorato tanto cibo raggiungeva immediatamente una sua saturazione, il lavoro dell’immagine del sé, in linea di principio, non conosce mai la saturazione, in quanto, come simulacro del corpo, è qualcosa di “evanescente” o di “immateriale”. Il lavoro del corpo ha comunque una sua “fisicità”. E' comunque qualcosa di organico. Il lavoro dell’immagine ha perso ogni fisicità, ogni riferimento all’organicità dell’essere, in quanto si pone come “parvenza” dell’essere. Perciò, essa può ora ingurgitare tutto ciò che il mondo dei consumi rende disponibile senza mai sentirsi piena. Anzi, più si incorporano oggetti, beni, servizi, che si consumino immediatamente, più si avverte un senso di vuoto o di inadeguatezza. Ma tutto ciò che l’immagine di sé incorpora immediatamente, altrettanto immediatamente lo restituisce alla natura, perché è nella condizione di non poterlo trattenere presso di sé, senza compromettere se stessa[2]: e così il mondo diventa un’immensa distesa di rifiuti. La ciclicità del consumo ha preso il posto della ciclicità della natura.


[1] A. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1999, p. 71. Arendt con il termine vita activa designava tre fondamentali attività umane: l’attività lavorativa, l’operare e l’agire. La prima corrispondeva allo sviluppo biologico del corpo umano, la seconda alla dimensione non naturale dell’esistenza umana; l’agire, invece, è la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali. Rispetto a questa riflessione, ho modificato di parecchio il senso teorico della Arendt.
[2] Per dare un esempio concreto: se qualcuno va in giro per anni sempre con gli stessi vestiti (ben puliti e stirati) qual è l’immagine che dà di sé? Mettiamo da parte le considerazioni morali, del tipo: è un poveraccio o un avaro – perché, poniamo, può anche essere una persona ricca, ma che non ama ostentarlo; l’immagine che il suo corpo veicola è quella di una persona che ha poco cura di sé, di una persona che non cura, appunto, la propria immagine; se non lo fa è perché non ne sente il bisogno; ma se non ne avverte il bisogno è perché sa d’essere una persona che non conta nulla; di questo passo, di giudizio in giudizio, s’arriva alla conclusione: se una persona non ha cura del proprio sé è perché sostanzialmente è una “nullità”; praticamente, s’arriva alla conclusione che “non esiste” in quanto non avverte né il bisogno né il desiderio di apparire.


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