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Dalai Lama: la Tibet Lobby

Creato il 27 giugno 2012 da Tnepd

Dalai Lama: La Tibet Lobby

Da un punto di vista occidentale, religione e politica vennero separate in due entità distinte a cominciare dall’epoca moderna (18 ° secolo). Per un’antica cultura come quella tibetana, tuttavia, tale divisione risulterebbe impossibile. Religione e politica si fondono a tutti i livelli: il mistico, il mitico, il simbolico e il rituale – sono affrontati ad ogni evento politico. Dal punto di vista tibetano è quindi perfettamente logico che la liberazione della Terra delle Nevi dagli artigli del drago cinese culminerà in una impresa che dovrebbe apportare benefici all’intero pianeta. “Salvare il Tibet significa salvare il mondo!” È uno slogan diffuso, anche tra gli attivisti occidentali.

 

Dalai Lama: La Tibet Lobby

Proprio come avviene per gli insegnamenti del Buddha, il problema politico del Tibet, ebbe, in un primo momento, scarsa risonanza tra il pubblico occidentale. Coloro che hanno affrontato il tema del destino del popolo tibetano negli ambienti governativi americani ed europei incontrarono generalmente rifiuti e disinteresse. Questo atteggiamento cambiò a metà degli anni Ottanta. Con sempre maggiore frequenza, Sua Santità il XIV Dalai Lama fu ricevuto ufficialmente dai capi di Stato occidentali che in precedenza avevano rifiutato di essere in contatto pubblico con lui per paura di proteste da parte dei cinesi.

LA TIBET LOBBY

Dal 1985 la cosiddetta Tibet Lobby si impegnò in numerosi paesi. Si tratta di un partito trasversale i cui rappresentanti nei vari parlamenti sostengono una risoluzione per il Tibet che condanna moralmente la Cina per le sue costanti violazioni dei diritti umani e per il “genocidio culturale”. Un riconoscimento del Tibet come Stato autonomo non è contemplato in tali risoluzioni. Alla Conferenza del Tibet Support Groups a Bonn (nel 1996), Tim Nunn dall’Inghilterra fornì un documento sui vari metodi (upaya) utili a promuovere un’attività di lobbying: ben curati nell’aspetto, linguaggio diplomatico, abiti appropriati, presentazioni curate e simili. Mr. Nunn ottenne il successo sperato – 131 membri della British Lower House si unirono alla causa della “Terra delle Nevi” (Friedrich-Naumann-Stiftung, 1996, pp 77ff.).

Negli Stati Uniti l’avvocato Michael van Walt van Praag sostenne con successo gli interessi del governo tibetano in esilio. Riuscì ad ottenere una risoluzione sul Tibet approvata nel Senato degli Stati Uniti. Uno dei suoi più grandi successi politici fu quando nel 1991 venne consentito al Kundun di rivolgersi alla House of Congress americana. Successivamente incontrò il presidente George Bush. Bush firmò un documento ufficiale nel quale il Tibet veniva descritto come un “paese occupato”. Dal 1990 The Voice of America avviò programmi di radiodiffusione in tibetano. Una nuova emittente, Free Asia, che possiede una sede staccata in Tibet, è stata recentemente approvata dal Congresso. Nel 1997, il Dipartimento di Stato ha nominato un “rappresentante speciale per il Tibet” che si suppone abbia il compito di aprire i negoziati tra il Kundun e la Cina.

Agli inizi di settembre del 1995, il Dalai Lama abbracciò sorridendo il senatore Jesse Helms, noto per la sua posizione ultra conservatrice.

I democratici a malapena riconobbero tale solidarietà conservatrice, dal momento che furono loro a spianare la strada al dio/re “liberale” verso il grande pubblico. Il presidente americano, Bill Clinton, e il suo Vice-presidente, Al Gore, erano inizialmente riservati e ambivalenti nei confronti del Dalai Lama. La posizione del governo americano si espresse inequivocabilmente in una dichiarazione del 1994: “In quanto non riconosciamo il Tibet come stato indipendente, gli Stati Uniti non intratterrano relazioni diplomatiche con il sedicente “governo tibetano in esilio”(Goldstein, 1997, p. 121).

Dopo vari incontri con Clinton e sua moglie, però, il dio/re fu in grado di far cambiare idea alla coppia presidenziale. Clinton si impegnò come non mai a risolvere la questione del Tibet. Uno dei punti principali del suo viaggio in Cina (nel 1998) fu quello di incoraggiare Jiang Zemin a prendere contatti con il Dalai Lama. Nel frattempo le due parti (Pechino e Dharamsala) conferirono sempre a porte chiuse.

Nel 1989 il quattordicesimo Dalai Lama venne insignito del premio Nobel per la pace. Il fatto di aver ricevuto questo alto riconoscimento ha meno a che fare con la situazione politica in Tibet rispetto, soprattutto, ai sanguinosi avvenimenti di Piazza Tiananmen a Pechino, dove numerosi studenti cinesi persero la vita durante le proteste. L’Occidente condannò moralmente la Cina e il successo della Tibet Lobby nel candidare “Sua Santità”, a tale onoreficenza fu il miglior mezzo per raggiungere l’obiettivo.

D’ora in poi il re/dio avrebbe avuto un rilievo internazionale senza precedenti. Il premio di Oslo permise lui di rivolgersi alla maggior parte dei capi di stato mondiali. Non c’era un presidente, nonostante le proteste cinesi, il quale rifiutasse la visita del dio/re, perlomeno in qualità di rappresentante religioso. In Irlanda, Francia, Liechtenstein, Austria, Lituania, Lettonia, Bulgaria, Russia, Stati Uniti, Canada, Inghilterra, Svizzera, Germania, Svezia, Israele, Giappone, Taiwan, Gabon, Australia, Nuova Zelanda, alcuni paesi dell’America meridionale – ovunque il “monaco modesto” venne celebrato con le più alte onoreficenze.

Nel 1996 i lobbisti riuscirono a manovrare la Germania in uno scontro spettacolare con la Cina che riguardava l’approvazione di una risoluzione per il Tibet da parte della Bundestag. La risoluzione venne sostenuta da tutti i partiti in Parlamento. Il lato paradossale è che questa mossa permise sia al Dalai Lama che ai cinesi di specularci, a scapito degli ingenui contribuenti tedeschi. Questo colpo di Stato rappresento il più grande successo politico in occidente del partito del Kundun. Dalla sponda opposta, i cinesi riuscirono a indurre l’intimidito governo federale tedesco a continuare a concedere alla Cina le tanto desiderate garanzie Hermes precedentemente rifiutate. Per Pechino, con questo accordo in mano, la questione del Tibet nei suoi rapporti con la Germania venne momentaneamente sistemata. Anche se non possiamo parlare di una collaborazione diretta, secondo il principio cui bonum le due parti trassero grande profitto da questo evento coinvolgendo una nazione sostanzialmente neutrale.

La gestione mediatica dei seguaci del Kundun è ormai perfetta. Numerosi uffici in tutti i paesi e in particolar modo il Tibet Information Network (TIN) a Londra, forniscono alla stampa materiale riguardo la situazione nella Terra delle Nevi, la vita nella comunità degli esuli tibetani e le attività del dio/re. Vi è una positiva collaborazione con i dissidenti cinesi. I rapporti da Pechino, i quali dovrebbero essere effettivamente presi con le pinze, ma che tuttavia includono informazioni molto importanti, sono uniformemente respinti da Dharamsala che li considera propaganda comunista. Questa unilateralità nella valutazione degli affari tibetani è stata nel frattempo adottata anche dall’intero corpo della stampa occidentale.

Ad esempio, quando su invito dei cinesi il cancelliere tedesco, Helmut Kohl, visitò Lhasa e annunciò poi che la situazione nella capitale del Tibet non era così grave come traspariva dall’ufficio stampa del Dalai Lama, fu aspramente criticato dai media, i quali dichiararono che sarebbe stato disposto a svendere la sua moralità per considerazioni di carattere finanziario. Tuttavia, quando toccò, all’ex presidente americano Jimmy Carter, famoso per il suo grande impegno nella difesa dei diritti umani, ebbe sostanzialmente la stessa impressione(Grunfeld, 1996, p. 232).

La questione del Tibet è diventata un importante mezzo di ancoraggio per il buddhismo tantrico nell’occidente. Come questione politica, ci sembra completamente separata da qualsiasi strumentalizzazione religiosa. Il Kundun appare in pubblico come un attivista per la pace, un democratico, un umanista, come difensore degli oppressi. Questa intelligente miscela di etica e morale “occidentale” gli garantisce accesso illimitato ai più alti livelli del governo. Anche se alcuni politici potranno vedere una conferma dei loro ideali nell’(apparente) comportamento del Dalai Lama, vi sono in realtà motivi politico/economici a determinare la politica occidentale in Asia. Il rapporto dell’Occidente con la Cina è estremamente ambivalente. Da un lato c’è la speranza di costruire buoni legami economici e politici in un paese che prospera e cresce, dall’altro una profonda paura per il futuro e cioè quando la Cina diventerà una superpotenza. La situazione politica in Tibet e le circostanze dei tibetani esiliati forniscono motivi sufficienti per costruire argomentazioni forti contro un eventuale imperialismo cinese.

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