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Dalle Piazze ai Palazzi

Creato il 02 gennaio 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Giuseppe Dentice  

Dalle Piazze ai PalazziE’ passato quasi un anno dalla caduta dell’ex Presidente Hosni Mubarak e sulla scena politica e sociale egiziana non pare essere cambiato molto. Decapitata la testa di un sistema che vedeva in Mubarak il principale simbolo dell’autorità, il suo modello, il “Mubarakismo”, è rimasto intonso e, anzi, esso si è rinforzato in tutti i centri di potere della nomenclatura egiziana grazie alla forte leadership del duopolio Suleiman-Tantawi, rispettivamente Vicepresidente della Repubblica e Presidente del Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF), veri totem della politica nazionale.

Fin dai primi giorni della rivolta, Hosni Mubarak, al potere dal 1981 quando venne assassinato Sadat, è finito sotto processo e nel mirino della piazza e della critica mondiale. Ex comandante dell’aeronautica, il rais ha governato il Paese con il pugno di ferro, mantenendo per l’intero mandato lo stato d’emergenza e applicando arresti preventivi e restrizioni alle libertà civili nei confronti di numerosi blogger e attivisti politici e dei diritti umani. Ciò non toglie che il rais sia stato altamente tollerato e rispettato sia in Europa, sia negli USA, perché ritenuto fedele alleato nella lotta al fanatismo salafita. Mubarak, inoltre, ha sempre cercato di mettere a tacere le critiche di corruzione e militarismo puntando su un discreto sviluppo economico e concedendo “apparenti” aperture democratiche.

Già un anno fa il nostro blog scriveva delle difficoltà dell’allora establishment egiziano e dei pericoli per l’ex Presidente e per la nazione stessa.

E’ fresca, infatti, la notizia che il Pubblico Ministero del processo contro l’ex Presidente ha chiesto la “pena massima”, ossia la condanna morte. La richiesta di condanna a morte riguarda anche l’ex Ministro dell’Interno Habib el Adli e sei suoi collaboratori. L’accusa mossa dall’Attorney General egiziano, Mustafa Suleimane, era quella che l’ex Presidente avesse incitato i militari all’omicidio di manifestanti inermi durante le proteste di gennaio in Piazza Tahrir.

Cosa è cambiato dunque nella vita politica egiziana? Sicuramente le proteste hanno garantito una ventata di novità e ottimismo, quest’ultimo subito spento, o quanto meno affievolito, dalla capacità dell’establishment di conservare e, se possibile, rafforzare il precedente sistema di potere. Ora, gli egiziani sembrano essere tornati a sentirsi cittadini e si sono riappropriati dei loro diritti e delle libertà politiche attraverso le prime ed autentiche libere elezioni dopo molti anni. Tuttavia, benché sia difficile valutare cosa stia realmente accadendo in Egitto e, allo stesso tempo, fare previsioni sul futuro della nazione a causa della complessità della legge elettorale e della eterogeneità delle forze politiche in campo, le opportunità di un reale cambiamento politico, almeno per i prossimi mesi, sembrano davvero molto limitate. Le elezioni comunque aiuteranno a chiarire quali sono i rapporti di forza tra i vari partiti politici, anche se non contribuiranno a cambiare l’Egitto o a produrre una netta rottura con il vecchio sistema di potere. Come, in fondo commentavamo su questo stesso blog, le continue proteste, e soprattutto gli scontri violenti tra manifestanti e forze dell’ordine ricominciati lo scorso 18 novembre, hanno mostrato come le giovani generazioni non sono affatto disposte ad accettare l’involuzione autoritaria che si sta prospettando nel Paese.

Oggi come allora i militari hanno dimostrato la loro grande capacità trasformista di cavalcare l’onda delle proteste, smarcandosi dal regime e dichiarandosi vicini alle istanze popolari, servendosi, dunque, della piazza a seconda dei propri interessi e, contestualmente, mostrando tutta la loro inadeguatezza e violenza nel reprimere e governare un popolo rimasto povero e orfano di reali prospettive di cambiamento.

Le prime elezioni dell’era post-Mubarak avrebbero dovuto essere la pietra miliare di un percorso verso la democrazia, ma gli scontri e le tensioni che hanno preceduto e sono seguite alle elezioni e l’evidente riluttanza dell’esercito a porsi sotto il controllo di un governo democraticamente eletto, non possono che raffreddare le speranze in un’evoluzione democratica del Paese. Infatti, nella misura in cui i militari continueranno a voler giocare un ruolo politico importante ed il Parlamento sarà asservito agli interessi della classe dirigente, il processo di transizione politica è destinato a procedere molto lentamente e rischierà di subire un’involuzione qualora lo SCAF non provvederà a produrre reali innovazioni, rinfocolando, dunque, gli animi e la rabbia delle forze popolari.

Secondo numerosi analisti, sebbene lo SCAF non voglia imporre un governo militare a tempo indeterminato, esso è intenzionato comunque a preservare i propri privilegi politici ed economici nel nuovo sistema politico. Infatti, i principali players sulla scena hanno dimostrato di anteporre spesso i propri interessi a quelli del Paese, muovendosi in un frastagliato e mutevole panorama di alleanze dominato dalle molteplici contrapposizioni fra laici e islamici, tra forze liberiste edi sinistra, movimenti di piazza e partiti consolidati, giovani e vecchie generazioni e, infine, cristiani e musulmani, alimentando il clima di insoddisfazione e di caos politico-sociale.

Pertanto, nell’attuale clima di frammentazione in cui ciascuna forza mira a preservare i propri interessi e non quelli della rivoluzione e in cui la giunta militare è determinata a salvaguardare i propri privilegi e la propria posizione di preminenza nella gestione della transizione, il contorto processo elettorale costituisce un ulteriore fattore di grave incertezza che alimenta e favorisce, indirettamente, le violenze di questi mesi. In questo caos, una consistente parte del Paese sembrerebbe rimpiangere, quasi paradossalmente, il recente passato. Di fronte al persistere della confusione e del rafforzamento del “Mubarakismo”, il popolo sembrerebbe nutrire solo un desiderio distabilità e sicurezza, abbandonando così ogni desiderio di cambiamento.

Alla fine vale il senso gattopardesco del “cambiare per non cambiare nulla”, con l’Egitto esempio lampante di tale massima. Nuovo leader, nuovo esecutivo, ma vecchie prospettive e poche soluzioni dinanzi al debole ed instabile Stato egiziano. 

* Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)


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