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De Pretto e Einstein: la concezione fluido-dinamica dell’universo (parte terza)

Creato il 05 maggio 2012 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

De Pretto e Einstein: la concezione fluido-dinamica dell’universo (parte terza)di Umberto Bartocci (continua dalla seconda parte). Vediamo dunque brevemente se ci sono alternative possibili alla teoria della relatività, tenendo ben presente che se il principio fondamentale di detta teoria dovesse risultare infondato, allora la sua eliminazione dal campo della “filosofia naturale” coinvolgerebbe non soltanto l’ottica e l’elettromagnetismo, ma anche quella meccanica da cui pretese considerazioni di indifferenza del moto uniforme avevano preso origine, come nel caso dell’argomentazione galileiana. Questa premessa dovrebbe cominciare a far capire intanto che la TRR non è in realtà affatto “rivoluzionaria”, o meglio che lo è soltanto nella misura in cui porta alle estreme conseguenze l’eventualmente assurda concezione di uno spazio vuoto, omogeneo ed isotropo, fisicamente inattivo, incapace di offrire resistenza ai moti, utilizzato come tale da tutti i padri fondatori della meccanica, a partire da Galileo ma soprattutto da Newton[1] (ed in verità, più dai ‘newtoniani’ che non da Newton stesso, come avremo modo di vedere).

   Il punto di partenza per una concezione alternativa non può essere infatti altro che quell’analogia della luce con il suono, che abbiamo già utilizzato per scartare l’ipotesi balistica nel caso di una sorgente in movimento, quando si tenga conto dell’indispensabile ruolo rivestito dall’atmosfera come mezzo di trasmissione delle onde sonore. Come abbiamo già detto, invero, il suono si trasmette da un punto all’altro della superficie terrestre perché tra di essi c’è dell’aria interposta. In assenza di aria non si verifica alcuna propagazione del suono: un campanello messo sotto una campana di vetro nella quale è stato fatto il vuoto all’interno non squilla più, pure se messo regolarmente in funzione.

   All’interno dunque di questa ‘analogia’ non si vede come sia possibile ritenere fisicamente plausibili delle ipotesi, sia pure in prima approssimazione, quali quelle supponenti l’omogeneità e l’isotropia dello spazio rispetto a ciascun osservatore a prescindere dallo stato di moto o di quiete di questi rispetto allo “spazio” stesso, qualora si consideri per l’appunto questo ambiente come non realmente “vuoto”. esattamente come capita per l’atmosfera, che è indispensabile per la trasmissione del suono, e costituisce una realtà fisica così tangibile da potersi avvertire il movimento, ancorché uniforme, attraverso di essa. L’osservatore di Galileo, o Cusano o Bruno, non avrebbe nessuna difficoltà a capire che la nave si sta movendo (rispetto al mare) senza guardare un’eventuale scia, ma semplicemente avvertendo la “brezza” dell’aria sul proprio volto (a meno che, naturalmente, non fosse l’aria stessa a muoversi rispetto al mare, e sempre di “vento” si tratterebbe), ed è proprio per questo motivo che Galileo contempla il caso di qualcuno che si sia “rinserrato sotto coperta”. Escludere però che possa esistere qualche altro tipo di “vento” è un’assunzione a priori, un “principio”, che merita ulteriori conferme sperimentali, altrimenti si trasforma in un dogma. Vale a dire, riportando la precedente metafora al nostro discorso, se lo spazio fosse pieno di qualcosa simile a un’atmosfera (fosse qualcosa simile a un’atmosfera), entro cui si trasmette la luce, il nostro primo osservatore del capitolo precedente, anche nel momento in cui si trova del tutto ‘solo’ nello spazio, senza apparenti punti di riferimento esterni, non ha alcuna ragione per assumere alla leggera l’equivalenza di tutte le direzioni in cui lancia il raggio di luce, a meno che non abbia qualche particolare motivazione per ritenersi egli stesso in quiete rispetto allo spazio. In caso contrario, è del tutto chiaro che la direzione in cui avviene il suo movimento nello spazio potrebbe essere privilegiata rispetto a tutte le altre, e ci si può aspettare che il comportamento del raggio di luce in questa specifica direzione sia differente.

   In verità, lasciando da parte sia il problema della fondatezza sperimentale di entrambe le assunzioni einsteiniane, sia quello dell’asserita perfetta corrispondenza delle previsioni relativistiche alla realtà pure sperimentale determinata successivamente al 1905 (tutta quella serie di fenomeni che sono detti “relativistici”, tra i quali più famosi quelli cosiddetti della contrazione delle lunghezze e della dilatazione dei tempi, l’aumento della massa di particelle elementari accelerate, l’esistenza di una velocità limite, etc.), da un punto di vista puramente ‘logico’ la TRR si presenta sin dall’inizio come una teoria sgradevolmente antinomica, visto che il suo primo principio appare fisicamente compatibile soltanto con l’ipotesi dell’inesistenza di un “mezzo” che riempie lo spazio, mentre il secondo riferisce alla luce proprietà che sono fisicamente plausibili al contrario soltanto con l’esistenza di un mezzo nel quale la luce, a somiglianza del suono, possa propagarsi, con una propria velocità caratteristica dipendente appunto dalle caratteristiche fisiche di quel mezzo. In questo caso, infatti, la velocità con cui si propaga una perturbazione del mezzo non dipende dallo stato di moto o di quiete della sorgente perturbatrice, mentre dipende invece, ed in modo ovviamente essenziale, dallo stato di quiete o di moto dell’osservatore rispetto al mezzo. Se noi siamo in automobile e corriamo verso il punto in cui è caduto un fulmine, ecco che il rombo del tuono ci arriverà prima che se fossimo rimasti fermi al punto di partenza, mentre se ci allontaniamo dal punto di impatto del fulmine il tuono ci raggiungerà ovviamente qualche istante dopo.

Per capire bene la teoria della relatività e le sue premesse bisogna riferirsi al quadro concettuale della fisica della fine del secolo scorso. Da una parte la meccanica, con i suoi grandi trionfi in campo astronomico, che hanno visto la scienza trionfatrice nei confronti delle forze tradizionaliste della Chiesa cattolica dopo il famoso processo a Galileo; dall’altra, la tradizione ottica ed elettromagnetica sviluppatasi nel XIX secolo. Secondo la prima lo spazio è vuoto, non esiste alcuna cosa che possa fare impedimento al libero movimento dei corpi, se uno di questi si muove di moto uniforme in un certo istante (ed in un certo riferimento appunto detto “inerziale”) continuerà a conservare questo suo stato di moto indefinitamente (questa è la sostanza del cosiddetto “principio di inerzia”). Verso l’inizio del XIX Secolo però alcuni esperimenti con la luce mettono in evidenza un fatto assai curioso, e cioè che diversi raggi di luce sovrapponentisi in un certo punto dello spazio possono dar luogo, anziché a più luce, a buio (i cosiddetti fenomeni di interferenza luminosa). La spiegazione per questo tipo di fenomeni venne ascritta ad un mezzo che riempiva lo spazio e che era responsabile della propagazione della luce, il cosiddetto etere luminifero, una sorta di particolare ‘atmosfera’ per la luce, con analogia al ruolo della reale atmosfera terrestre nel caso della trasmissione del suono. Il buio può prodursi dalla somma di luce più luce così come lo stato di quiete può risultare nella superficie di un lago quando due diverse onde tra loro sfasate vengono a sovrapporsi in modo tale che quando una sale l’altra scende, e viceversa. Si introduce così la cosiddetta teoria ondulatoria della luce, che si contrappone alla gemella ed antitetica teoria corpuscolare, secondo la quale la luce sarebbe composta da minuscole ‘particelle’ (alle quali ci si riferisce ancora oggi con il termine fotoni) emesse dalla sorgente luminosa. La teoria ondulatoria postula un mezzo in cui la propagazione dell’onda possa aver luogo, quella corpuscolare no, anzi postula che nulla possa disturbare e rallentare la corsa dei fotoni.

Già nel “Tractatus de Lumine”, di C. Huygens, del 1690, troviamo echi della concezione ondulatoria, laddove è scritto: “Non c’è dubbio che la luce arrivi da un corpo luminoso a noi come moto impresso alla materia interposta”[2]; e gli fa eco qualche anno dopo J. Clerk Maxwell, il già nominato creatore della moderna teoria elettromagnetica, il quale, spiegando la luce come un fenomeno elettromagnetico, ricondusse lo studio dell’ottica a quello dell’elettromagnetismo, e cercò di teorizzare il ruolo fondamentale dell’etere luminifero anche in questa disciplina: “Riempire tutto lo spazio con un nuovo mezzo ogni volta che si debba spiegare un nuovo fenomeno, non è certo cosa degna di una seria filosofia, ma se lo studio di due diverse branche della scienza ha suggerito in modo indipendente l’idea di un mezzo, e se le proprietà che si devono attribuire al mezzo per spiegare i fenomeni elettromagnetici sono identiche a quelle che si attribuiscono al mezzo luminifero per spiegare i fenomeni luminosi, si rafforzerà notevolmente il complesso di prove a favore dell’esistenza fisica del mezzo”[3].

   Maxwell aveva infatti dimostrato che la velocità che bisognava supporre per la propagazione delle perturbazioni elettromagnetiche era suppergiù la stessa che era stata determinata per via sperimentale dai primi astronomi che avevano effettuato stime della enorme velocità della luce, e tale identità non poteva appunto essere una coincidenza!

   Abbiamo parlato di un mezzo fisico, reale, e pertanto suscettibile in linea di principio di poter essere osservato sperimentalmente, e compreso nelle sue proprietà. Presumibilmente non soltanto protagonista passivo delle varie trasformazioni ed interazioni fisiche che avvengono in esso, bensì partecipe in maniera diretta del verificarsi dei fenomeni naturali, quando addirittura non causa prima di essi. Questa era ad esempio la concezione di Michael Faraday, il famoso fisico sperimentale che tra i primi studiò le impreviste relazioni esistenti tra elettricità e magnetismo, e fu anche in qualche modo quella del dianzi ricordato Maxwell, la cui teoria viene oggi paradossalmente considerata quale uno dei punti a favore della teoria della relatività[4].

   Una concezione fluido-dinamica dunque, come può dirsi quella relativa all’introduzione del concetto di “etere”, termine che useremo d’ora innanzi per brevità, la quale si oppone alla concezione dello spazio vuoto, come siamo stati abituati ai giorni nostri a concepire lo spazio in cui sono immersi il Sole, la nostra Terra, i pianeti, le stelle, sin dai primi anni di scuola. Tanti piccoli puntini di materia sparsi in un enorme spazio vuoto, anziché ‘addensamenti’ di etere, nel quale ci troveremmo a vivere come pesciolini in un oceano.

   Per comprendere bene quello che successe all’inizio del presente Secolo, bisogna riflettere sulla circostanza che la fisica si trovava allora in una situazione assai curiosa: da un canto lo spazio era tutto vuoto per la meccanica, madre fondatrice della fisica, ed era invece tutto pieno per i teorici dell’ottica e dell’elettromagnetismo, che vedevano nelle proprietà fisiche dell’etere la migliore delle spiegazioni possibili per i fenomeni di loro competenza, attraverso l’uso del criterio di analogia. Una situazione altamente contraddittoria quindi, anche se relativa a due campi di indagine differenti, per una fisica ancora incapace di escogitare gli artifici dialettici post-relativisti, quando ad un intelletto ormai ridotto a quello di un “povero mammifero primate”, manifestamente insufficiente per intuire i profondi misteri della struttura dell’universo, poté parlarsi del dualismo onda-corpuscolo, di una luce che talvolta si manifesta per noi come un’onda, e talvolta come una particella, ma che in realtà non è nessuna delle due: siamo soltanto noi ad essere incapaci di concepire cosa essa realmente sia, al di fuori delle nostre formule matematiche, per la limitatezza dei nostri concetti mentali basati su una assolutamente scarsa esperienza. Riuscire a prevedere di tanto in tanto con le nostre formule gli effetti quantitativi di certi fenomeni ci deve bastare, come ammonisce l’illustre fisico Richard P. Feynman, Premio Nobel per questa disciplina nel 1965: “What I am going to tell you about is what we teach our physics students [...] and you think I’m going to explain it to you so you can understand it? No, you are not going to be able to understand it. [...] It is my task to convince you not to turn away because you don’t understand it. You see, my physics students don’t understand it either. That is because I don’t understand it. Nobody does. [...] It’s a problem that physicists have learned to deal with: They’ve larned to realized that whether they like a theory or they don’t like a theory is not the essential question. Rather, it is whether or not the theory gives predictions that agree with experiment. [...] The theory of quantum Electrodynamics describes Nature as absurd from the point of view of commn sense. And it agrees full with experiment. So I hope you can accept Nature as She is – absurd” (QED – The strange theory of light and matter, Princeton University Press, 1985, pp..9-10 – corsivi nel testo).

   Questo tipo di argomenti – che Feynman ribadisce all’inizio delle sue celebrate lezioni di Meccanica Quantistica (The Feynman Lectures on Physics, Addison-Wesley Publ. Co., 1965): “We choose to examine a phenomen which is impossible, absolutely impossible, to explain in any classical way, and which has in it the heart of quantum mechanics. In reality, it contains the only mystery”[5] – mostra chiaramente che nasce con la teoria della relatività una fisica che dovrà rinunciare d’ora in poi e per sempre ad ogni tentativo di spiegazione per analogie, e quindi ad una fisica qualitativa che si accompagni ad una fisica quantitativa.

   Einstein con abilità retorica assai apprezzabile riuscì prima o poi a convincere tutti, o quasi, utilizzando per alcuni il sacrosanto principio di relatività, per altri l’altrettanto sacrosanto principio dell’invarianza della velocità di propagazione di una perturbazione dalla velocità della sorgente perturbatrice, relativamente al mezzo in cui la perturbazione si propaga (ed ecco spiegata la ragione del fenomeno prima descritto per cui alcuni trovano accettabile ed intuitivo un principio della relatività e non l’altro, o viceversa!). Peccato appunto che le due teorie da cui detti principi provenivano fossero tra loro assolutamente antitetiche, e che in realtà l’opzione di Einstein, come abbiamo visto nei discorsi qualitativi di riconduzione del secondo principio relativistico al primo, sia tutta a favore della concezione dello spazio vuoto, omogeneo ed isotropo, comune ai padri fondatori della meccanica, ma non a quelli dell’elettromagnetismo. Una concezione dello spazio fisico che si confonde con quella dello spazio matematico, il primo una categoria della realtà, il secondo una categoria dell’intelletto; il primo suscettibile solo di indagini a posteriori, per mezzo di esperienze, l’altro analizzabile invece a priori, per mezzo di assiomi e ragionamenti deduttivi. Un approccio come si dice “riduzionista” che confonde terribilmente non solo lo spazio ed il tempo, ma addirittura i due ambiti del “reale” e del “pensato”, entro i quali si svolge tutta l’esperienza umana. Lo spazio veramente vuoto non ha alcun senso fisico, e si trova come tale, ovvero come idealità astratta, soltanto nello studio della geometria, così come lucidamente osservava Ettore Majorana[6]: “E poi veniamo ad Einstein e qui io debbo tacere perché Einstein è diventato un idolo intrasgredibile, un tabù. Eppure proprio Einstein ci ha messo undici anni, dal 1905 al 1916, a capire che la Relatività Ristretta era una mera e insignificante geometrizzazione euclidea di un impossibile movimento rettilineo in un inesistente spazio supposto vuoto, del tutto uniforme, omogeneo, isotropo [...] “

   Nello spazio veramente vuoto non dovrebbe neppure concepirsi la possibilità di fenomeni fisici come quello della luce, sicché gli osservatori immaginari di cui alle nostre discussioni del capitolo precedente non avrebbero alcuna possibilità, neanche teorica, di scambiarsi segnali luminosi, sincronizzare orologi, etc., secondo le convenzioni einsteiniane, perché non avrebbero a disposizione né la luce né tanto meno un principio di costanza per la sua velocità!

   Una nuova concezione quella di Einstein, che mostra come si possano conciliare matematicamente quei due principi provenienti da teorie opposte, anche se in modo irrimediabilmente contro-intuitivo[7], e che fa felici per questo ruolo fondante della matematica i cultori di questa disciplina, che non aspettavano altro che vedere la loro teoria indispensabile per l’enunciazione di qualsiasi concetto fisico. Su questo argomento è stato scritto moltissimo, ma un rapido cenno non può in effetti trascurare quali cause dell’affermazione della TRR, oltre le ragioni “filosofiche” che sono state spesso evidenziate, anche la tendenza della fisica di questo secolo di privilegiare l’aspetto ‘matematico’ delle teorie, e quindi la loro ‘bellezza’ ed armonia interna. Ad esempio il cosmologo Hermann Bondi ritiene “intollerabile” la possibilità che “tutti i sistemi inerziali siano equivalenti da un punto di vista dinamico ma distinguibili con misure ottiche”[8], ed in effetti la TRR da questo punto di vista è più semplice di altre, soprattutto se si tiene conto che la meccanica dei fluidi non ha ancora sviluppato un formalismo matematico che sia del tutto conveniente ad inquadrare la teoria dell’etere e dei suoi movimenti. Ma il riferimento alla matematica non può essere tutto qui, perché anche questa disciplina ha le sue lotte interne, le sue contrapposizioni filosofiche e di gusto, e bisogna allora sottolineare anche come la teoria di Einstein fu immediatamente sentita un forte alleato a favore di quei matematici che da tempo stavano cercando di proporre, evidentemente influenzati dalla crescente affermazione delle teorie darwiniste, una nuova fondazione della matematica, non più basata sulle intuizioni fondamentali dell’essere umano in ordine alle concezioni di spazio (geometria) e tempo (aritmetica). Così si esprime ad esempio a favore della nuova impostazione della fisica Hermann Minkowski (1907), un matematico di Göttingen, ambiente in prima linea nella rivoluzione matematica alla quale si è accennato, e tra i primissimi anche a rendersi conto dell’utilità della teoria di Einstein per certe concezioni di filosofia della matematica e della scienza (Minkowski era anche stato tra i professori di Einstein quando questi era ancora studente a Zurigo)[9]: “Le vedute sullo spazio e sul tempo che desidero esporre davanti a voi sono sorte dal terreno della fisica sperimentale, ed in esso risiede la loro forza. Queste vedute sono radicali. D’ora in poi lo spazio preso a sé stante, e il tempo preso a sé stante, sono condannati a scomparire come pure ombre, e soltanto una sorte di unione dei due conserverà una propria realtà indipendente”.

   E, si noti bene, con questo famoso saggio in cui si espone per la prima volta la costruzione formalista del cronotopo (o spazio-tempo) della teoria della relatività, Minkowski prendeva due piccioni con una fava: da una parte persuadeva i fisici riluttanti ad ingoiare il boccone einsteiniano con il riferimento all’autorità ed al rigore della formulazione matematica che proponeva, dall’altra persuadeva i matematici più conservatori, e restii ad apprezzare le moderne tendenze fondazionali riduzioniste e programmaticamente anti-intuitive, che esse fossero purtroppo necessarie in ragione della pretesa forza di certi risultati sperimentali, che i matematici non potevano certo approfondire, e che comunque al tempo la teoria della relatività non poteva vantare proprio a suo favore!

   Einstein, Minkowski, Feynman, e davvero tanti altri stimati e riconosciuti esponenti della comunità ebraica schierati a favore delle teorie di Einstein[10]: è permesso congetturare che questa circostanza è forse una conferma di quanto abbiamo detto nel primo capitolo in ordine a connessioni di natura ‘politica’ che rendono poco serena, se non decisamente imprudente, e da tanti punti di vista, la discussione di certe questioni? E’ sorprendente come la stessa considerazione venga effettuata dal già citato Ettore Majorana, che scrive ben prima dell’Olocausto, quando rileva tristemente che “disgraziatamente, sembra che si vogliano inquinare codeste discussioni con balorde idee antisemite. Sarebbe veramente grande disgrazia – che Dio tenga lontana da noi – se fra me e i miei carissimi amici ebrei, come Segrè, per esempio, dovesse anche lontanamente insinuarsi un dubbio di reciproca incomprensione atavica” (dal libro di V. Tonini già citato, p. 55).

   Sono veramente non più attuali questi timori?, l’autore lo spera vivamente, anche se non ne è per la verità del tutto convinto.

   Nella concezione fluido-dinamica dell’universo diventa come abbiamo detto assurdo condividere i presupposti generali della TRR, ritenere per esempio a priori lo spazio omogeneo ed isotropo, anche perché non vanno trascurati in linea di principio, oltre che il movimento degli osservatori rispetto allo spazio, anche possibili movimenti di parti dello spazio fluido rispetto ad altre sue parti (le “correnti dello spazio”). Conformemente a questa ipotesi sulla natura dello spazio, risulta infatti che, se appare genericamente infondato ritenere ‘fisicamente equivalenti’ due osservatori in moto uniforme l’uno rispetto all’altro, non è neppure da aspettarsi però che questo sia sempre il caso, perché potrebbero immaginarsi due osservatori ciascuno dei quali è in quiete rispetto allo spazio circostante che pure sono in movimento relativo l’uno rispetto all’altro!

Intermezzo - Il riferimento ai possibili “moti propri” del mezzo rispetto ad altre sue parti meriterebbe parecchia più attenzione, soprattutto per coloro, e non sono pochi, che sono pronti a ‘sbranare’ il presente autore per qualche precedente rinuncia al ‘rigore’ a favore di una più spedita divulgazione (anche se l’evidenziazione di eventuali sviste tecniche resterebbe comunque un pretesto per il ben più grave reato di ‘lesa maestà’). Questo interludio può comunque essere ‘saltato’ dai lettori meno ferrati in certo tipo di questioni, e più interessati allo svolgersi delle presenti argomentazioni per linee generali.

   Va ammesso in effetti che, nel confronto tra TRR e teoria dell’etere bisognerebbe porsi allo stesso livello di presupposti iniziali, ovvero nelle condizioni di uno spazio ‘privo di materia’, la TRR costituendo per l’appunto una riflessione di tipo preliminare sulla “fisica” che può essere effettuata in questa situazione, nella quale, si potrebbe dire, più che le “cose”, ad agire sono gli “osservatori”. Naturalmente però, in una teoria dell’etere si potrà sì prescindere da particolare materia in esso contenuta, ma non dall’etere stesso. Ciò premesso, si potrebbe allora obiettare che gli ipotizzati “moti” dell’etere non dovrebbero essere presi in considerazione neppure come possibilità teorica in questa prima fase, perché in una concezione fluido-dinamica corretta essi avrebbero origine solo dalla materia, o viceversa la materia avrebbe origine da essi, e comunque sia, in entrambi i casi, moti dell’etere e presenza della materia verrebbero ad essere tra loro strettamente correlati. Che i moti dell’etere siano originati dalla materia in esso immersa (che è comunque sempre ‘etere’) è un’ipotesi che si ritrova nel generalmente disprezzato lavoro di Marco Todeschini, La Teoria delle Apparenze, Ist. It. di Arti Grafiche, Bergamo, 1949 (anche se il sistema, se non vogliamo dire “scientifico”, ma anche soltanto “filosofico”, di questo autore risulta quanto mai attraente, e degno di essere considerato alla pari di altri ben più noti, ma molto meno ricchi di contenuti); mentre l’ipotesi per così dire inversa, e cioè che sia la materia ad essere ‘originata’ da questi moti si ritrova invece nei lavori di un altro misconosciuto scienziato dilettante italiano, Niccolò Mancini, le cui “intuizioni” sembrerebbero anch’esse meritevoli di ben altra considerazione che non il silenzio con il quale sono state generalmente accolte[11]. A questo stesso proposito si deve citare anche la concezione dell’altrettanto sconosciuto scienziato ‘dilettante’ italiano Olinto De Pretto, di cui ci occuperemo però in modo particolare nel seguito di questo libro.

   Dicevamo, si dovrebbe fare soltanto un discorso ideale sulle condizioni nelle quali si verrebbe presumibilmente a trovare un osservatore immerso in un oceano di etere immobile e “privo di materia” (a parte naturalmente tutto ciò che gli serve per misurare, sincronizzare orologi, etc.), e quindi il ‘giusto’ raffronto dovrebbe essere eseguito tra una teoria dell’etere ‘mobile’ e la teoria della relatività generale (TRG nel seguito), che è la teoria con la quale Einstein descrisse anche la gravitazione all’interno delle sue nuove concezioni di spazio e di tempo[12]. Un confronto tra queste due teorie esula ovviamente dai limiti che si propone il presente lavoro, pure si può subito immaginare quale tipo di rappresentazione del cosmo possa offrire l’ipotesi dell’etere mobile. Tra questa e la TRG si riscontrerebbe allora una molto maggiore somiglianza qualitativa, perché si può dire, e capire, che la presenza della materia “incurva” lo spazio, anche se sarebbe meglio dire il viceversa, ovvero, che è lo spazio “incurvato” che ci “appare” come materia[13]! Il moto del fluido si potrebbe descrivere “in grande” con una qualche struttura riemanniana dello spazio fluido, le cui geodetiche corrisponderebbero alle “traiettorie medie” delle “monadi d’etere” (per usare una terminologia del famoso matematico teorizzatore della cosiddetta teoria degli insiemi Georg Cantor). Nella visione di un etere ispirata alla fluido-dinamica il concetto astratto di campo di forze scompare per essere sostituito da quello di “campo di velocità”, il quale sarebbe poi lui a determinare i vari tipi di forze, che ci appaiono con caratteristiche differenti pur avendo tutte origine da un’unica causa, l’ interazione del ‘fluido’ con i vari ‘corpi’ in esso immersi. In altre parole, le forze non sarebbero entità fisiche reali, ma risulterebbero soltanto dalla contemporanea presenza del fluido e dei corpi (pensati questi come altre ‘parti’ di etere, aventi però diverso stato di velocità), e “reali” sarebbero soltanto quindi le diverse condizioni di moto delle varie parti del fluido. La concezione che è stata appena esposta si ispira in larga parte alle idee del già citato M. Faraday, ed è l’oggetto del lavoro di M. Todeschini da poco menzionato. Come dire che le forze andrebbero sostituite concettualmente con “stati d’eccitazione” dello spazio, che si manifesterebbero sui vari corpi immersi in esso a seconda delle loro caratteristiche fisiche, come massa, carica[14], etc., ma anche stato di moto, e quindi velocità, rotazione, ed infine, perché no, “forma” (il che potrebbe spiegare perché corpi diversi situati nello stesso punto dello spazio reagiscono alla presenza delle “forze” in modi diversi). Il principio di inerzia si enuncerebbe invece affermando che ogni corpo tende ad assumere le condizioni di moto dello spazio circostante (aprendo pertanto la strada verso una oggi inattuale distinzione tra ‘moti spontanei’ e ‘moti forzati’), e così via di questo passo. Naturalmente, ancorché di analogie qualitative si tratti, e quindi possa essere in qualche senso accettabile l’affermazione “relativistica” secondo la quale la “geometria” più adatta a studiare i fenomeni fisici sarebbe la geometria riemanniana, anziché la geometria euclidea, pure la visione “classica” ed intuitiva che qui si propone come possibile alternativa differisce profondamente e dalle concezioni generali e dal formalismo della TRG. Questa si ‘edifica’ infatti sulla TRR, ed in quanto tale, in conformità al principio di invarianza della velocità della luce (che adesso sarà però soltanto di natura “locale”), esegue tutte le sue costruzioni in uno spazio degli eventi quadridimensionale, la geometria del quale è soltanto pseudo-riemanniana. Secondo la teoria che qui si sostiene invece, conformemente all’ipotesi sulla natura fluido-dinamica dello spazio fisico, si dovrebbe poter sempre lavorare in un ambiente tridimensionale, e con una struttura propriamente riemanniana. Va da sé, anche questa fisica dell’etere dovrebbe poi sempre alla fine collocarsi in un ambiente quadridimensionale degli “eventi”, aggregando alle tre dimensioni spaziali anche un’altra temporale, ma spazio e tempo resterebbero comunque sempre tra loro nettamente separati, come in tutta la fisica precedente l’avvento della relatività, e la non-euclideità, o curvatura, dello spazio, resterebbe di pertinenza esclusiva delle sole dimensioni spaziali dello spazio fisico reale, e non già dello spazio-tempo tutto intero (e men che meno dello spazio puramente geometrico dell’intelletto). In altre parole, tale non-euclideità si ritroverebbe solamente nella “matematizzazione” dello spazio fisico reale, e non si verificherebbe alcun contrasto con l’intuizione astratta del concetto di spazio, la quale continuerebbe come sempre ad essere perfettamente descritta dalla geometria euclidea, in conformità con quanto asserito dalla filosofia kantiana. La geometria euclidea resterebbe infatti comunque alla base anche di quella matematizzazione, oltre che di tutta la matematica, visto che non è certo impossibile concepire l’idea di uno spazio astratto euclideo nel quale si svolga il moto “curvo” di un “fluido” che lo riempie tutto.

   Ritornando dopo questo “intermezzo” al nostro discorso principale, osserviamo esplicitamente che secondo la concezione fluido-dinamica cessa di essere verosimile anche l’astratto principio di inerzia della meccanica ‘classica’, e quindi tutta questa disciplina che su esso si fonda, perché lo spazio per quanto ‘tenue’ deve essere ritenuto in linea di principio capace di opporre una resistenza al movimento dei corpi, e nessun oggetto materiale può essere pensato capace (neppure in una situazione limite ideale) di conservare all’infinito un proprio eventuale stato di moto, rispetto ad un riferimento solidale con l’etere, senza che venga rifornito di ‘energia’ dall’esterno (avremmo in caso contrario una sorta di “moto perpetuo” implausibile ed innaturale).

   Val forse la pena di spendere una parola in più sulle possibilità concettuali offerte dall’introduzione di eventuali interazioni con un mezzo, e sui rischi che possono conseguire dal trascurarle, in ragione dei fenomeni altrimenti inesplicabili che invece proprio ad esse potrebbero essere attribuiti. E’ ben noto in effetti come la meccanica classica, ovvero newtoniana, sia entrata in crisi quando non si riuscì per il tramite di essa a spiegare la stabilità delle strutture atomiche, o più in generale di rendere conto delle traiettorie delle particelle protagoniste della cosiddetta fisica del microcosmo. Sia la TRR che successivamente la cosiddetta “meccanica quantistica” furono chiamate a supplire a tale fallimento, entrambe non procedendo però ad una autentica revisione della meccanica newtoniana, che per l’appunto trascurava la possibilità dello spazio pieno e delle sue conseguenze, bensì al contrario ‘migliorando’ quella stessa impostazione portando i suoi principi alle estreme conseguenze, come nel caso di Einstein. La scelta del fisico tedesco fu quella di ‘mantenere’ il principio di inerzia, e quindi il concetto di “sistema di riferimento inerziale”, e di estendere la validità del principio di relatività, che funzionava così bene nell’ambito della dinamica, anche a quello dell’ottica e dell’elettromagnetismo, nonostante tutte le conseguenze che ciò avrebbe implicato in ordine al trattamento dello spazio e del tempo. Ma, visto che la meccanica newtoniana stava già fallendo nel microcosmo, e poiché si è parlato tanto dell’ardimento di Einstein, non sarebbe stato al contrario più degno di essere definito ‘coraggioso’ chi avesse cercato invece di modificare alcune delle vecchie impostazioni, anziché estenderne forse indebitamente l’ambito? Trascurare la presenza del mezzo può anche essere inessenziale in effetti per prevedere la traiettoria di una palla di cannone, ma probabilmente non quella di una particella che comincia ad avere lo stesso ordine di grandezza di quelle, di natura ancora da determinare, che potrebbero costituire il fantomatico mezzo! Fenomeni quali l’aumento della massa inerziale di un elettrone, con il quale si esprime il fatto che si incontra difficoltà ad accelerarlo ulteriormente quando sia già prossimo a velocità simili a quella della luce, non avrebbero potuto ascriversi più plausibilmente all’aumento con la velocità (o meglio con il quadrato di essa) di una “resistenza” di tipo fluido-dinamico opposta dal mezzo? Anche la meccanica quantistica, ancor meno inquadrabile della relatività negli schemi della “razionalità classica”, la quale pretende che il mondo microfisico sia assurdo per il senso comune, avrebbe potuto trovare invece una notevole fonte di ispirazione per possibili ragionevoli ‘spiegazioni’ nella concezione fluido-dinamica. Si segnalano qui ad esempio alcuni lavori di B.H. Lavenda ed E. Santamato[15], che cercano di dare della meccanica quantistica un’interpretazione che non impropriamente si potrebbe definire “razionale” nel senso che qui stiamo illustrando. Citiamo dal primo dei lavori citati: “Quantum indeterminism is explainable in terms of the random interactions between quantum particles and the underlying medium in which they supposedly move”; e dal secondo: “It might perhaps be possible to develop a completely classical formulation of quantum mechanics based upon the irregular motion of a single Brownian particle immersed in a suspension of lighter particles”.

   Così pure, i limiti della meccanica classica potevano essere ben evidenziati, a livello del microcosmo secondo quanto appena detto, ed a livello del macrocosmo in quanto le interazioni fisiche, svolgendosi presumibilmente nel mezzo, ed anzi forse proprio a causa di questo, non potevano, esattamente per questa ragione, essere supposte istantanee, bensì dotate di una velocità finita, dipendente dalla costituzione del mezzo stesso. Uno spazio veramente vuoto non dovrebbe essere capace di offrire in linea di principio nessun tipo di resistenza, e quindi non bisognerebbe aspettarsi neppure alcun limite superiore alla velocità delle interazioni svolgentisi in esso – non così ovviamente invece nel caso di uno spazio “pieno”. Come a dire che, mentre nello studio idealizzato del moto dei corpi effettuato dalla meccanica classica (che si può applicare poi come detto soltanto a quelli macroscopici), si può ‘ragionevolmente’ trascurare l’interazione con il mezzo, questo non sembra proprio il caso di un fenomeno come la luce, il quale, oltre ad esserci ancora sostanzialmente ignoto, è presumibilmente collegato in maniera strettissima con il mezzo in cui essa si propaga. E’ strano a pensarci bene un siffatto uso dell’”ignotum per ignotius” (come si dice quando si cerca di spiegare una cosa sconosciuta mediante l’introduzione di un’altra ancora più sconosciuta), con il quale si pretende di dar forma ‘razionale’, e matematicamente semplice, alla natura utilizzando come principio per una sua spiegazione un fenomeno che ci è così poco noto come la luce!

   Senza trascurare l’importanza delle nozioni pratiche e sperimentali che, permesse dallo sviluppo della fisica di questo secolo, hanno consentito l’accumulo di conoscenze sconosciute ed impensabili ai tempi di Galileo e di Newton, pure sembra potersi dire che la sistemazione concettuale che la stessa fisica ha poi di fatto di tali acquisizioni effettuato si possa ritenere, per quanto fin qui detto, estremamente carente ed insoddisfacente, e necessaria pertanto di una pronta revisione.

   Due parole potrebbero ancora dirsi in relazione alla concezione fluido-dinamica ed all’astrofisica, disciplina oggi largamente divulgata per quel che concerne le moderne ipotesi sull’origine dell’universo. La famosa radiazione di fondo, contrariamente all’opinione oggi comune secondo la quale consisterebbe della radiazione che ha riempito l’universo successivamente al mitico big-bang primordiale (teoria che, non lo si dimentichi, ha origine e plausibilità solamente in ambito relativistico, e mostra sempre più buchi, anche se non esattamente “neri”, da tutte le parti), potrebbe invece costituire, conformemente con la teoria dell’etere, nient’altro che ‘un’oscillazione di fondo’ di esso, ovvero, il residuo di tutte le ‘vibrazioni’ che arrivano ormai smorzate dalle parti più lontane dell’universo. Un interessante lavoro di Roberto Monti[16], “Albert Einstein e Walter Nernst: Cosmologie a confronto”, esamina la storia della teoria del big-bang, a partire dalle diverse possibili interpretazioni del red-shift sperimentale che è all’origine della teoria cosmologica oggi di maggior successo.. Come si sa, infatti, da evidenze sperimentali che sembrano inoppugnabili, la luce che ci arriva dalle lontane stelle sembra aver perso parte della sua energia rispetto a quella che possedeva presumibilmente quando era partita (red-shift significa spostamento verso il rosso, la luce rossa ha minore energia di una luce violetta, in virtù di una nota relazione tra energia e frequenza della luce, la luce che ci arriva dalla maggior parte delle lontane stelle appare “spostata verso il rosso”): ciò può essere affermato sulla base delle nostre ipotesi sulla costituzione di dette stelle, che ci permettono di indovinare il tipo di luce che viene emessa in origine, e di confrontarla poi con quella che effettivamente riceviamo. E’ chiaro che un ‘eterista’ potrà facilmente spiegare il fenomeno (almeno qualitativamente) come dovuto ad un assorbimento dell’energia della radiazione luminosa da parte del mezzo, ma come potranno spiegarlo i fisici moderni, visto che per essi non c’è nulla interposto tra la stella e noi che possa avere provocato tale perdita di energia? Si ricorre allora ad un altro noto fenomeno, il cosiddetto effetto Doppler: tutti avranno notato che il fischio di un treno appare più acuto quando il treno si avvicina, e più grave quando si allontana: la ragione di ciò consiste nel fatto che tale caratteristica del suono è legata alla frequenza dell’onda sonora, e che questa varia così come qualitativamente indicato in funzione della velocità del treno rispetto all’atmosfera. Vale a dire, la frequenza aumenta quando il treno si avvicina (ed il nostro orecchio riceve fronti d’onda che sono ravvicinati, perché emessi da punti sempre più vicini a noi), mentre diminuisce per lo stesso motivo quando il treno si allontana. Trascurando il non proprio innocentissimo particolare che un simile effetto si riconosce pure per la luce, che per la fisica moderna non è più un onda e non ha più un mezzo dove propagarsi, ecco che l’effetto Doppler si considera valido anche in ottica, e lo spostamento verso il rosso, ovvero la diminuzione di frequenza della luce, viene così attribuito ad una fantomatica ‘velocità di fuga’ delle stelle, che si allontanerebbero da noi come il treno di poc’anzi con velocità che appaiono sempre più elevate man mano che le stelle sono più lontane[17]. Quindi, un allontanamento dal luogo di una presunta esplosione, e non un semplice effetto della lontananza, come sarebbe stato più naturale e diretto supporre!

   E qui c’è luogo per una precisazione, dal momento che la teoria del big-bang non è in verità qualcosa che sia possibile spiegare attraverso normali analogie facenti capo alle nostre intuizioni ordinarie: in effetti, così come abbiamo detto, si tenderebbe ad immaginare un’esplosione avvenuta in un ben preciso punto dello spazio tridimensionale che consideriamo comunemente per inquadrare ogni nostra esperienza avente a che fare con il concetto di ‘luogo’, ed in un ben preciso istante, che vediamo come una sorta di punto su una retta, a distinguere un ‘prima’ ed un ‘dopo’. Un tale modello non sarebbe né omogeneo né isotropo, caratteristiche queste che abbiamo detto essere una sorta di principi-guida costanti per il pensiero fisico moderno: invece, ciascuno avrà il diritto di ritenersi ‘centro’ dell’esplosione; ciascuno dovrà osservare tutte le stelle intorno a sé allontanarsi da lui. La nostra intuizione non può farsi alcuna immagine di ciò che il modello del big-bang primordiale asserisce autenticamente, perché dovrebbe riferirsi ad uno spazio-tempo quadridimensionale che nasce e si espande senza che ci sia niente intorno in cui possiamo assistere con gli occhi della fantasia alla sua evoluzione. Poiché non possiamo prescindere da tale spazio circostante per ‘vedere’ con la mente qualsiasi oggetto, l’unica analogia che si può allora tentare è quella di immaginare una sfera nel nostro ‘spazio ordinario’ dell’intelletto, la quale all’inizio sia solo un punto (raggio uguale a zero!) e poi via via cresca in ragione del crescere del suo raggio. Le stelle e gli altri oggetti celesti sono fissati sulla superficie di tale sfera, e si allontanano l’uno dall’altro omogeneamente ed isotropicamente senza che ci sia sulla sfera nessun preciso punto dell’esplosione (il quale sarebbe semmai ‘fuori’, nello spazio ‘ambiente’). Ogni stella vede allontanarsi tutte le altre, e questo movimento non è un ‘reale’ movimento degli oggetti, bensì dello spazio che crescendo trascina tutto con sé (sicché secondo alcuni non c’è alcuna contraddizione con i principi relativistici se si osservano velocità di fuga relative di molto superiori alla stessa velocità della luce). Naturalmente, per ‘intuire’ davvero la teoria del big-bang, bisognerebbe immaginare una siffatta superficie sferica a 4 dimensioni, anziché a 2, e per di più immersa in uno spazio almeno a 5 dimensioni, senza tenere conto del fatto che il ‘tempo’, che ci è necessario introdurre per rendere conto della descritta evoluzione dal punto di vista di un osservatore ‘esterno’, sarebbe soltanto una delle dimensioni di tale sfera, che non possiamo quindi immaginare in altro modo che quale una dimensione ‘spaziale’.

   Per ritornare al lavoro di Monti, dalla sua lettura si ricavano anche altre divertenti ed inaspettate, poiché non le si divulgano quasi mai!, informazioni storiche. La prima, che il cosiddetto “scopritore” dell’espansione dell’universo, Edwin Hubble, era in realtà molto restio a considerare corretta l’interpretazione che è oggi ufficiale del red-shift come conseguenza di un effetto Doppler (“quando i dati sperimentali sono pesati in favore della teoria dell’espansione tanto pesantemente quanto può essere ragionevolmente ammesso, essi cadono ancora al di sotto delle aspettative”, ed ancora “le discrepanze possono essere eliminate solo attraverso un’interpretazione forzosa dei dati”) – il che fornisce un altro di quegli esempi, ai quali accenna Giuseppe Sermonti (La luna nel bosco, Ed. Rusconi, 1985, p. 13), di una “prova”, ritenuta “cruciale” per la validità di una teoria, che non viene invece ritenuta tale dal suo stesso scopritore! La seconda, che un premio Nobel come Walter Nernst, pur conoscendo perfettamente ormai le interpretazioni relativistiche (siamo nel 1937), propone per lo spostamento verso il rosso lo stesso tipo di spiegazione cui si è prima accennato (assorbimento), giungendo anche così a prevedere l’esistenza della radiazione cosmica di fondo, quando ancora nessuno ne parlava, e dichiarando la teoria dell’espansione dell’universo “ben poco attendibile”, di contro all’alternativa di un universo stazionario, “coerente e fisicamente semplice”, e “non in contrasto con nessun tipo di esperienza”. Quanto alla relatività poi, Nernst la ignora come argomentazione del tutto irrilevante, meritandosi così nel proprio necrologio, che scrisse Einstein in persona!, il seguente rimprovero: “Fino a che non entrò in gioco la sua debolezza egocentrica, egli mostrò un’obiettività raramente riscontrabile, un senso infallibile degli aspetti essenziali” (corsivo aggiunto)!

   Dette tutte queste cose a favore della concezione fluido-dinamica dello spazio, ci si può chiedere se di questo spazio fluido, a parte alcuni dei richiamati fisici del XIX Secolo, o i ridicolizzati sopravvissuti supporters dell’etere in epoca relativista, non ha mai parlato prima nessuno. Non c’è nessun pensatore al quale si possa fare riferimento per contrastare il monopolio della filosofia newtoniana, alla quale la stessa relatività appartiene di diritto per quanto abbiamo visto[18]?

   Questo interrogativo ci conduce a discutere un altro momento importantissimo della storia della fisica, che viene di solito sottovalutato (ed appunto non per caso). In effetti, se l’”assurdità fisica” dello spazio vuoto è già teorizzata in tempi antichi prima da Anassagora e poi da Aristotele, essa trova piena dignità e sistemazione teorica in tempi moderni con il grande René Descartes, latinizzato in Cartesio.

   Questi è etichettato dalla cultura comune che si acquista nelle aule scolastiche soltanto un filosofo, ricordato eventualmente anche per i suoi contributi alla matematica (le famose “coordinate cartesiane”), ma pochissimo per quelli alla fisica. Al contrario, i Principia Philosophiae (1644) di Cartesio sono un grande trattato di fisica teorica, una fisica di tipo qualitativo, e certo ancora agli esordi, che contiene ogni tanto anche qualche grosso errore (Cartesio pensava ad esempio ad una velocità della luce ‘infinita’), ma una fisica che sembra essere comunque avviata sulla strada giusta, e ciò proprio ai primordi delle moderne indagini sulla natura, quando ancora di elettricità, magnetismo, fenomeni di interferenza ottica, etc., nessuno avrebbe mai potuto fantasticare. Come dice bene M. Todeschini (nella suo già citata opera fondamentale, p. 29): “La cosmogonia di Cartesio, prima di essere ripudiata, ebbe un momento di vero trionfo. E fu questo l’istante in cui l’uomo, per pura intuizione andò più vicino alla realtà dell’architettura dell’Universo!”” (corsivo aggiunto).

   Dal punto di vista della metodologia che ci sta a cuore non possiamo non aggiungere che ancora in Cartesio troviamo, e non certo per caso, enfatizzata l’importanza della spiegazione per analogie (e nel contempo analizzati i suoi possibili ‘rischi’): “E’ vero che i paragoni che si usano di consueto nella Scuola, spiegando le cose intellettuali con le corporee, le sostanze con gli accidenti, o per lo meno una qualità con un’altra di un’altra specie, istruiscono pochissimo; ma poiché in quelli di cui mi servo, non paragono che dei movimenti con altri movimenti, o delle figure con altre figure, etc., [...] pretendo che esse siano il mezzo più proprio per spiegare la verità delle questioni fisiche che la mente umana possa avere; fino al punto che, allorché si afferma qualcosa relativamente alla natura, che non può essere spiegato da alcun paragone di tal fatta, penso di sapere, per dimostrazione, che è falso” (da una lettera a Jean Morin del 1638, citata nella Introduzione al I volume delle Opere Scientifiche di Cartesio, Ed. UTET).

   Le riflessioni di Cartesio si considerano oggi appartenenti alla protostoria della fisica e dell’epistemologia, e ad esse si ribatte con malcelato senso di superiorità che si sa ormai che esistono cose delle quali l’uomo non ha la minima esperienza, e per le quali il suo intelletto non è minimamente preparato, sicché non se ne può fare alcuna ragione o immagine. Se è invero lecito supporre che l’evoluzione della specie umana sulla Terra abbia prodotto un intelletto capace di cacciare. comunicare e quant’altro necessario per la mera sopravvivenza dell’essere umano, non ci si può aspettare invece che esso si sia evoluto in modo tale da poter comprendere intimamente le modalità con cui avvengono i fenomeni del microcosmo o quelli del macrocosmo, che non cadono sotto la sua esperienza diretta; su questa base concettuale si giustifica quell’aspetto di apparente (vale a dire per noi esseri umani) “assurdità” della natura messa in rilievo da Feynman.

   Cartesio invece, dal quale questa epistemologia darwinista era ben lontana, pone invece a centro e fondamento della sua analisi filosofica proprio l’uomo, e sulla sua capacità di arrivare alla verità per mezzo delle “percezioni chiare e distinte” di cui appare dotato. Strano destino quello di Cartesio di essere tanto frainteso anche a livello puramente filosofico. Il suo “dubbio sistematico” non è l’espressione di un esistenziale scetticismo di fondo (caro piuttosto a tanto pensiero moderno), quanto invece un modo di rifiutare ogni imposizione culturale, ed arrivare liberamente alla verità (tra le quali quella di conoscere “la distinzione che è fra l’anima e il corpo”, e che “noi possiamo conoscere più chiaramente la nostra anima che il nostro corpo” – dai detti Principia, Proposizioni 8 e 11). Allo stesso modo, colui che è considerato da alcuni il “padre dell’ateismo moderno”, sostiene “Che si può dimostrare che vi è un Dio”, e che anzi proprio attraverso di lui si può pervenire ad essere liberati dal dubbio se la nostra facoltà di conoscere sia ingannevole, “poiché avremmo motivo di credere che Dio fosse ingannatore, se ce l’avesse data tale da farci prendere il falso per il vero, quando ne usiamo bene” – Proposizioni 14 e 30).

   Di queste cose si potrebbe ovviamente parlare a lungo, ma il lettore avrà ormai ben intuito quali sono i punti essenziali dei diversi contrasti, anche di natura generale filosofica, che stiamo qui cercando di descrivere, ed il ruolo che alcune delle ‘mitologie’ elaborate dal pensiero scientifico moderno giocano a favore o contro l’una impostazione o l’altra, e compreso quindi come si possa assistere a delle diatribe scientifiche (ancorché rare per l’imperante conformismo della comunità scientifica) che hanno tutto il calore delle dispute politiche, o sportive!

   Vogliamo invece cominciare ad avviarci verso la conclusione, chiedendoci come mai la concezione fisica di Cartesio sia stata “ripudiata”, addirittura al punto che essa è solitamente ignorata dalle diverse storie, vuoi della filosofia che della scienza, anche soltanto come momento di transito nella formulazione di altre teorie più vere e più giuste.

   Il fatto è che in quel mezzo secolo che va dall’enunciazione cartesiana della teoria fluido-dinamica dell’universo al trionfo della meccanica delle misteriose azioni a distanza nell’universo vuoto di Newton si giocò una delle partite più importanti per tutto lo sviluppo futuro della fisica. La vittoria come si sa andò al filosofo e fisico inglese, ed ai suoi Philosophiae Naturalis Principia Mathematica (1687), che fin dal titolo fanno riferimento all’opera del grande avversario della concezione newtoniana. Newton si limitò infatti, rispetto al titolo che Cartesio aveva dato alla sua opera, soltanto a due specificazioni, contenute in quel “naturalis”, che tende ad escludere il resto della filosofia dalle dispute di fisica, ed in quel “mathematica” (che è tra l’altro scritto con caratteri più grandi degli altri nel frontespizio della prima edizione!), che costituisce probabilmente la vera ragione del suo successo, in un’epoca che cominciava ormai ad avviarsi decisamente verso la quantizzazione e la materializzazione. Come scrive bene il grande studioso di economia (ma non solo!) Geminello Alvi (Le seduzioni economiche di Faust, Ed. Adelphi, Milano, 1989, p. 48): “Scienza newtoniana e capitalismo sono impensabili separati perché ambedue richiedono un pensiero privo di levità, densificatosi nella costruzione di artifici”, ed il lettore avrà ormai compreso sempre più come all’aspro ‘scontro’ che stiamo descrivendo non fossero estranee, e come avrebbe potuto essere altrimenti?, forti componenti ideologiche. “La storia ha dato ragione a Newton e relegato le costruzioni cartesiane fra le immaginazioni gratuite e i ricordi da museo”, ed anche noi qui non possiamo fare altro che constatare che la vittoria arrise al modo di fare scienza comune ancora oggi, dal momento che “Descartes, con i suoi vortici, i suoi atomi uncinati, ecc. spiegava tutto e non calcolava niente; Newton con la legge di gravitazione [...] calcolava tutto e non spiegava niente”[19], ed informare che tra gli artefici di questo successo, e della messa in ridicolo delle ipotesi cartesiane, deve annoverarsi addirittura Voltaire, qui nelle vesti davvero per lui inconsuete di ‘scienziato’[20]. Ci limitiamo a raccomandare ad esempio a chi volesse saperne di più The Newtonians and the English Revolution 1689-1720, di Margaret C. Jacob (Cornell University 1976; Gordon and Breach Science Publ., New York, 1990), nel quale vengono discusse anche le motivazioni ideologiche alle radici della controversia, e si riconosce qualche ruolo nelle origini della scienza moderna alle cosiddette “società segrete” (o “early Masonic lodge[s]“, come sono chiamate in questo testo, p. 207)[21].

   Per riassumere, la vera contrapposizione non è quindi quella tra fisica relativistica e fisica newtoniana, bensì tra fisica newtoniana e fisica cartesiana, e ciò che accadde semplicemente ai tempi di Einstein (e se si vuole anche prima) è che nessuno ebbe l’unico autentico coraggio che sarebbe consistito nel proporre di tornare indietro, e ripensare alla condanna di Cartesio ed al trionfo di Newton. L’etere era stato rimosso dai newtoniani che pretendevano avrebbe ostacolato il libero moto degli astri nei cieli, e che fosse in contrasto con quanto si sapeva al tempo di leggi astronomiche, e tale rimozione continuò ad essere operante in Einstein e nei suoi seguaci, nonostante il breve momento di ritorno delle concezioni cartesiane nell’elettromagnetismo del XIX Secolo. “Non ci sarà assolutamente luogo per i movimenti delle comete, se quella materia immaginaria non viene completamente rimossa dai cieli”, così troviamo scritto nella Prefazione alla seconda edizione (1713) dei Principia newtoniani, vergata da un partigiano dello spazio vuoto, Roger Cotes, e le cose sono rimaste oggi allo stesso punto nel quale erano allora. L’affermazione della TRR ha storicamente significato il progressivo assottigliarsi delle schiere di coloro i quali avevano ricominciato a ‘credere’ nell’esistenza di un mezzo fisico, reale, nel quale si propagassero tutte le varie ‘vibrazioni’, e che fosse il supporto di ogni fenomeno fisico[22], favorendo anche il massiccio tentativo di revisione in chiave filosofica delle teorie che alle “nozioni preconcette” di spazio e di tempo attribuivano invece ben altro fondamento.

   Non si può non parlare poi verso la fine di questo lungo e abbastanza impegnativo capitolo di un argomento che è divenuto quasi d’obbligo nelle discussioni sulla teoria della relatività, e sulla sua corrispondenza ad una ‘verità’ di tipo sperimentale, senza dimenticare però quanto detto precedentemente in generale sulle relazioni tra teoria ed esperimento. Infatti, e presumibilmente allo scopo di attenuare un certo fastidioso, e politicamente poco opportuno, dogmatismo che risulterebbe da una presentazione puramente assiomatica della teoria – impostazione comunque ancora oggi assai cara ai matematici – è d’abitudine accennare almeno ad una famosa esperienza al di fuori dal campo della fisica del microcosmo, che ebbe un ruolo storico particolare nell’affermazione della TRR, ed è ancora oggi usata appunto a fini persuasivi di tipo didattico. Si tratta del cosiddetto esperimento di Michelson e Morley, la cui importanza come motivazione e punto d’appoggio sperimentale della TRR è andata sempre più crescendo, attenuandosi nel contempo la discussione critica sui fondamenti della teoria. Questo esperimento ha tra l’altro l’effetto psicologico di riportare direttamente ai miti fondatori della scienza moderna, al celebre commento galileiano “Eppur si muove”, ed è quindi capace di suscitare i più larghi consensi. Si tratta sostanzialmente della seguente idea: se ci fosse davvero un’etere, e visto che la Terra gira intorno al Sole – e chi può dubitarne? – la Terra si muove evidentemente attraverso questa sostanza (quella cioè che avrebbe impedito i moti secondo i newtoniani). Così, senza fare alcuna fatica, i nostri laboratori terrestri si troverebbero automaticamente nella condizione di un osservatore mobile nell’etere, e se questo fosse il mezzo in cui la luce si propaga, ecco che dovrebbe essere possibile in linea di principio, con osservazioni ottiche precise, accorgersi di tale circostanza; ovvero, il movimento della Terra rispetto all’etere potrebbe essere constatato allo stesso modo che uno sperimentatore in movimento rispetto all’atmosfera potrebbe accorgersi di questo suo stato attraverso osservazioni relative alla propagazione del suono nelle diverse direzioni intorno a lui. Quando è l’aria a muoversi rispetto a noi, o noi rispetto a lei, si parla nel linguaggio comune di “vento”, e nel caso dell’etere si parlò appunto di un “vento d’etere”. Einstein riferì brevemente, e genericamente, tra i presupposti sperimentali della sua teoria, a non meglio precisati “falliti tentativi di constatare un moto della Terra relativamente al mezzo luminoso”, ma qualche anno più tardi fu più preciso, quando ebbe a scrivere, assieme a Leopold Infeld, che: “Il risultato del celebre esperimento di Michelson e Morley fu un ‘verdetto di morte’ per la teoria di un oceano d’etere immobile attraverso il quale tutta la terra si muoverebbe”[23]. Tanto per fare qualche ulteriore esempio, il nostro G. Castelfranchi (Fisica moderna, Ed. Hoepli, Milano, 1931, p. 182) asserisce che: “l’esperimento di Michelson-Morley è un solido appoggio al postulato einsteiniano sulla costanza della velocità della luce”, mentre il diffuso Fisica Moderna, di R. Gautreau e W. Savin (Ed. Etas, 1982, p. 7) asserisce ormai più sbrigativamente che “Se l’etere esistesse, allora un osservatore sulla terra in movimento attraverso l’etere dovrebbe notare un ‘vento d’etere’ [...] Il risultato dell’esperienza fu che nessun moto attraverso l’etere veniva rilevato ” (corsivo nel testo), passando così direttamente e disinvoltamente dall’assenza del vento d’etere rispetto alla Terra alla inesistenza stessa dell’etere. In tal modo, su una base sperimentale che sembra abbastanza facile da discutersi[24], si pretende evidentemente di rendere più accettabili, e necessarie, le ben note e sgradevoli implicazioni “filosofiche” della TRR per quanto riguarda i concetti di spazio, tempo e causalità. Ma ciò che queste divulgazioni di solito ignorano è: ammesso appunto che la Terra giri intorno al Sole, questo significa forse che essa si muove anche rispetto allo spazio fluido che la circonda? Non può pensarsi, come appunto riteneva Cartesio, che sia tutto lo spazio pieno a ruotare intorno al Sole trascinando con sé la Terra in questo suo movimento? L’etere eventualmente confutato da Michelson e Morley è soltanto un etere inerte, stagnante, ben diverso dall’etere attivo e dinamico che stiamo qui cercando di immaginare!

   La questione si fa allora più difficile: la circostanza che Michelson e Morley non trovarono un vento d’etere (in realtà ne trovarono poco, molto meno di quello che uno avrebbe potuto aspettarsi da una velocità quale quella della Terra intorno al Sole, ma in questi pur importantissimi dettagli non possiamo addentrarci) non confuta affatto tutte le possibili teorie dell’etere, ma eventualmente soltanto l’idea che la Terra, e presumibilmente anche tutti gli altri pianeti, si muova rispetto ad esso. Testi più seri esaminano invero anche questa possibilità teorica, cercando di far vedere come siffatte teorie dell’etere possano essere anch’esse rifiutate, facendo ricorso allora ad altre considerazioni più sottili, ma di solito anche incerte se non addirittura proprio errate. Si battezza infatti (con una punta di vizioso ‘relativismo’) l’alternativa che qui abbiamo descritto con l’appellativo di “teoria dell’etere trascinato”, come se la Terra fosse lei a trascinare l’etere con sé e non viceversa!, e si va a vedere se ad esempio masse d’acqua messe in movimento forzato trascinano o no l’etere con sé, trovando naturalmente di no[25]. Possiamo dedicare a tali riflessioni soltanto questo breve cenno, ma sembra di poter onestamente ribadire ai lettori che lo stato degli attuali fondamenti della fisica è molto insoddisfacente, forse anche perché i fisici, a differenza dei matematici che eseguirono un’operazione di questo genere agli inizi del presente Secolo, non hanno mai finora avuto il tempo necessario per soffermarsi a meditare in modo sereno ed approfondito sui problemi fondazionali. Presa dalla crescente importanza delle sue applicazioni tecniche, la fisica ha sempre fatto una corsa in avanti senza pensare troppo ai suoi fondamenti concettuali (per dirla in parole povere, oggi chi si occupa di certe questioni non fa carriera), lasciando dietro di sé una confusione teoretica cui non sarà facile porre facilmente rimedio alla generazione che prima o poi sarà inevitabilmente chiamata a rimettere ordine.

   Comunque sia, come abbiamo già detto, l’affermazione della TRR procedette di pari passo con l’eliminazione del concetto di etere e degli eteristi, e diventa allora interessante informare che nella coscienza dello stesso creatore della relatività (che pure aveva dichiarato in una prima fase l’etere soltanto “superfluo”) deve essere rimasto qualche dubbio, e la sensazione che l’ipotesi di un “mezzo” fosse stata, anche per causa sua, troppo frettolosamente accantonata. Infatti, dedicò ad essa numerose attenzioni fino alla sua morte, anche se naturalmente sempre in modo “non classico”, sì da non incorrere in contraddizioni con il suo principio di relatività, ma ammettendo che senza un adeguato concetto di etere non si può fare alcun tipo di fisica[26]. Resterà il lettore sorpreso nell’apprendere che da tale tardivo pentimento sembra essere toccato anche Newton, il fiero avversario della teoria cartesiana dei vortici, come appare in una delle sue ultime opere scientifiche, Opticks (1704)?

   Per tentare una sintesi finale, possiamo dire che, contrariamente a ciò che oggi è comunemente ritenuto ed insegnato, l’ipotesi dell’etere è così naturale, suggestiva, esplicativa, e soprattutto non confutata e non facilmente confutabile, che sarebbe imprudente profetizzare che essa sia definitivamente tramontata, e che, nonostante l’apparente sicurezza con la quale ci si riferisce oggi alla “validità” della TRR e teorie derivate, non tutto è ancora chiaro e definitivo sull’argomento; al contrario, il presente autore ritiene che una revisione, o meglio una “rivoluzione” (e nel senso originale del termine, di un’inversione di rotta di 180 gradi), sia, oltre che possibile, anche necessaria. Naturalmente, bisogna ammettere che ci sono un sacco di problemi irrisolti sull’eventuale struttura di questa elusiva sostanza: come può essere fatto l’etere, si deve assimilare a un ‘continuo’, o ad una sostanza discontinua, di tipo granulare? L’esistenza di sue vibrazioni così veloci lo farebbero immaginare molto rigido, ma dovrebbe anche essere molto tenue, per lo scarso attrito che oppone al movimento dei corpi in esso. Ancora, l’analogia tra onde sonore ed onde luminose è solo parziale, dal momento che le prime sono longitudinali (ovvero, come abbiamo già visto nel capitolo precedente, le molecole d’aria oscillano nella stessa direzione dell’onda), mentre le seconde trasversali, ovvero il preteso movimento dovrebbe essere, per motivi di origine sperimentale che non possono dirsi in due parole, perpendicolare alla direzione di propagazione, così come avviene nel caso, che ciascuno ha ben presente, delle normali onde su uno specchio d’acqua: anche in questo caso non si ha infatti alcun reale spostamento di materia, le molecole d’acqua cominciano semplicemente ad oscillare in su e in giù, il movimento delle une si propaga per contatto alle altre, e noi vediamo l’onda che va. Ed allora si può ragionevolmente pensare, se l’etere esistesse davvero, non dovrebbe anche esserci un’evidenza, finora mancante[27], di qualche tipo d’onda longitudinale simile alle onde sonore?

   Tante questioni dunque, che la relatività, e con lei l’intera fisica, risolve di botto e senza alcuna fatica semplicemente ignorandole, ma se nessuno comincia ad affrontarle per tentare di risolverle la loro soluzione continuerà purtroppo a tardare, e bisognerà continuare a riconoscere che non esiste al momento una teoria dell’etere bella e pronta da contrapporre alle altre, come pretenderebbero coloro che rifiutano con questa motivazione la pubblicazione di contributi in questa direzione vietata.

Congedo – Abbiamo parlato poc’anzi di conclusione delle considerazioni espresse in questo capitolo, ma si può davvero dirlo concluso senza aver neppure accennato ad un’altra delle possibili alternative alla TRR che qui erano oggetto di discussione? Può non dirsi che termini come ‘verità’, ‘conoscenza’, etc., sono diventati ormai quasi offensivi per le orecchie di molti fisici, e che la loro ricerca è un obiettivo al quale gran parte di essi non aspira neanche più?

   L’altra alternativa di cui stiamo parlando è, per dirla in parole povere, quella di guardare al sodo, di trascurare l’indagine di ipotesi ‘metafisiche’, che vengono ritenute inessenziali, quando non addirittura dannose, per lo sviluppo della scienza. Si esprimono in questo modo un pessimismo ed uno scetticismo di fondo sulle possibilità dell’essere umano di essere in grado di comprendere qualcuna delle intime proprietà dell’universo (si ricordino le considerazioni di R.P. Feynman al riguardo!), ed a tale situazione sembrano riferirsi anche le seguenti parole di Ettore Majorana, che troviamo nel già citato libro di V. Tonini (p. 59), parole particolarmente interessanti anche per la tesi che stiamo cercando qui di sostenere, sul ruolo che l’equazione fondamentale dell’equivalenza massa-energia ha giocato e gioca a favore della teoria della relatività: ” [...] si hanno, in via Panisperna, idee molto concrete in quanto, come dice Fermi, non è il caso che due osservatori si mettano a litigare per risultati strani e paradossali come quelli della contrazione di un regolo in movimento a velocità prossima a quella della luce, mentre ben altra è l’importanza della scoperta che lega la massa di un corpo alla sua energia: E=mc2 “.

   Se un simile atteggiamento può considerarsi positivo per il progresso della tecnica, fino a che punto invece potrà soddisfare l’essere umano, la sua innata curiosità, se non l’unico motore almeno uno dei motori di tutta l’impresa scientifica? Nasce al contrario una “epistemologia della rassegnazione verso i limiti, reali o supposti, della conoscenza scientifica”[28], che conduce a ciniche ‘definizioni’ quali “la fisica è semplicemente l’arte di ottenere dei buoni finanziamenti” – che si sentono qualche volta nell’ambiente dei fisici – e che trascura la discussione dei problemi fondazionali anche nel momento della didattica, limitandosi a dare stancamente ragione ai vincitori, dimenticandone le vicissitudini e i dubbi. Si trascura così che il fine di un’autentica istruzione dovrebbe essere quello di saper alla fine distinguere tra chi ha vinto e chi aveva o potrebbe avere ancora ragione, e che è comunque sempre bene ripercorrere il cammino già fatto, poiché, anche se ci si dovesse alla fine convincere che ciò che è stato è bene sia stato così come è stato e non altrimenti, questa indagine critica retrospettiva resta sempre comunque l’unico modo per comprendere davvero a fondo le questioni, e farle proprie senza limitarsi a doverle ripetere a pappagallo senza avere ben capito.

Come ci avverte il grande matematico Federigo Enriques (Le matematiche nella storia e nella cultura, Ed. Zanichelli, Bologna, 1938, p. 153):

“Per i valori dello spirito come per quelli materiali dell’economia, sussiste una legge di degradazione: non si può goderne pacificamente il possesso ereditario, se non si rinnovino ricreandoli nel proprio sforzo di intenderli e di superarli”.


[1] Ed anche a Newton in effetti Einstein dedicò parole appassionate: “Or sono duecento anni, Newton si spegneva. E’ nostro dovere ricordare la memoria di quello spirito luminoso. Come nessuno prima e dopo di lui, egli ha determinato il corso del pensiero e degli studi in Occidente [...] egli merita la nostra più alta venerazione ” (da un articolo pubblicato in Die Naturwissenchaften, Vol. XV, 1927 – corsivo aggiunto)

[2] Citazione tratta da V. Ronchi, Storia della Luce, Ed. Laterza, 1953.

[3] Da J.C. Maxwell, Opere, Ed. UTET, p. 781.

[4] Ma in realtà a torto, come è provato nel già citato “Symmetries and asymmetries…”, vedi il capitolo precedente.

[5] Senza che ci sia ovviamente bisogno di evidenziare quale possa essere l’effetto psicologico su studenti, e professori!, di simili parole provenienti da una tale autorità – se non ci siamo riusciti ‘noi’ non ci riuscirete certo voi – si potrebbe invece sottolineare che resta la sensazione che tali misteri ed assurdità della natura siano tali soltanto per chi rifiuta la concezione fluido-dinamica dell’universo, come presto vedremo, ed informare che, anche al di fuori di questa, fisici come il Franco Selleri che citeremo ancora al termine del presente capitolo sembrano essere viceversa riusciti a sconfiggere la pretesa impossibilità (circostanza questa della quale però nessuno sembra voler naturalmente prendere atto).

[6] Citazione da Il taccuino incompiuto – Vita segreta di Ettore Majorana, di Valerio Tonini, Armando Ed., Roma, 1984, p. 67. Si avverte che questo libro è considerato dagli ‘esperti’ un falso, ma è questa interessata opinione ad essere falsa, come il presente autore avrà modo di argomentare nel già annunciato libro dedicato alla scomparsa del giovane fisico italiano.

[7] Alla critica di stampo moderno sul ruolo fondante dell’intuizione è stato dedicato un apposito convegno, svoltosi nel 1989 presso l’Università di Perugia: “I fondamenti della matematica e della fisica nel XX Secolo: la rinuncia all’intuizione”, Proceedings a cura di U. Bartocci e James Paul Wesley, Benjamin Wesley Publ., 1990.

[8] Citazione da Rudolph Resnick, Introduzione alla Relatività Ristretta, Ed. Ambrosiana, Milano, 1969, p. 37.

[9] A proposito del ruolo di Göttingen nella storia della relatività vedi l’interessantissimo, e ben orientato, testo di Lewis Pyenson, The Young Einstein – The Advent of Relativity, A. Hilger Ltd, Bristol and Boston, 1985, nel quale, notando il ruolo fondamentale dei matematici a favore dell’affermazione della teoria di Einstein si parla esplicitamente di “Physics in the shadow of Mathematics” (p. 101). E’ in questo libro che si trova raffigurato un disegno inquietante (per la prospettiva storica che qui si tenta) conservato presso la Niels Bohr Library, American Institute of Physics, New York, eseguito in occasione del X Anniversario dell’Associazione di Göttingen per la Matematica Applicata e la Fisica, nel quale è rappresentata una fila di professori universitari che si incontra con una analoga fila di industriali (o banchieri): ciascuno di questi reca in mano un paio di sacchetti di denaro, uno dei quali passa nelle mani dei professori, il tutto sotto la supervisione di un altro dei padri fondatori di Göttingen, Felix Klein, qui raffigurato come un Sole. Per quanto riguarda invece la “rivoluzione” matematica cui si è fatto cenno si vedano ad esempio del presente autore: “La svolta formalista nella fisica moderna”, Quaderni Progetto Strategico del CNR Tecnologie e Innovazioni Didattiche, Epistemologia della Matematica, a cura di Francesco Speranza, N. 10, 1992; “Riflessioni sui fondamenti della matematica ed oltre”, Synthesis, 4, Di Renzo Ed., Roma, 1994. Quest’ultimo articolo era stato proposto per la pubblicazione al Bollettino dell’Unione Matematica Italiana, visto che le riflessioni in esso contenute erano particolarmente rivolte ai docenti di matematica di ogni ordine e grado, ma i dirigenti della detta rivista lo hanno laconicamente rifiutato. Nella versione successivamente apparsa in Synthesis si fa riferimento a questo rifiuto con le seguenti parole: “Questo episodio, ultimo tra tanti dei quali l’autore è al corrente, conferma purtroppo l’impressione che troppi membri della comunità scientifica si siano ormai trasformati in “dotti custodi dell’Ordine”, cercando quindi di sfavorire la comunicazione delle informazioni e delle opinioni che possano modificare gli stati di equilibrio culturale che li hanno espressi. Spiega perfettamente il fenomeno l’osservazione di Benedetto Croce secondo la quale “La maggior parte dei professori hanno definitivamente corredato il loro cervello come una casa nella quale si conti di passare comodamente tutto il resto della vita; da ogni minimo accenno di dubbio vi diventano nemici velenosissimi, presi da una folle paura di dover ripensare il già pensato e doversi mettere al lavoro. Per salvare dalla morte le loro idee preferiscono consacrarsi, essi, alla morte dell’intelletto”.

[10] Sempre a proposito del ruolo dell’università di Göttingen sotto questo particolare aspetto, si vedano ad esempio gli interessanti lavori di David Rowe, “‘Jewish Mathematics’ at Göttingen in the Era of Felix Klein” (Isis, 77, 1986, pp. 422-449), “Klein, Hilbert and the Göttingen Mathematical Tradition” (Osiris, 5, 1989, pp. 186-213).

[11] Tra i lavori del Mancini citiamo soprattutto Energia universale e reazione della materia, Ed. L’Arco, Firenze, 1948.

[12] Si trova così la spiegazione del perché la prima teoria di Einstein sia chiamata ristretta, dacché appunto restringeva il suo ambito di applicazione ai soli fenomeni elettromagnetici prescindendo da quelli gravitazionali. Circostanza invero strana, che il lavoro di Einstein del 1905 sia stato accettato per la pubblicazione senza tante storie, nonostante lasciasse fuori dalla sua proposta di revisione dei fondamenti della fisica proprio la legge di gravitazione universale di Newton, che era stata una delle glorie della nuova scienza, ed aveva anche avuto il merito piuttosto recente di poter prevedere l’esistenza di nuovi pianeti del sistema solare fino allora sconosciuti perché troppo lontani. Il fatto è che l’espressione della legge di Newton la rende ipso facto non relativistica (laddove si utilizza in essa una ‘distanza’ tra due corpi che non ha più alcun senso in relatività, secondo la quale un tale parametro può essere solo relativo al sistema di riferimento in cui viene misurato). A qualunque altro autore sarebbe stato chiesto di occuparsi di tale non trascurabile dettaglio, prima di pensare ad elevare a principi della fisica le proprie zoppicanti considerazioni sulla ‘natura’ dello spazio vuoto, e ad esso in effetti Einstein lavorò per il successivo decennio. Anche in questa occasione comunque, appare chiaro che Einstein conobbe una sorte ben diversa da quella riservata oggi ai suoi critici, ai quali si richiede di risolvere tutti i problemi ed in una sola volta quando propongono di modificare un particolare del quadro.

[13] Osserviamo esplicitamente che nella TRG quello che si incurverebbe è lo spazio-tempo vuoto, ovvero il “nulla”, circostanza questa sempre fonte di accesa polemica da parte dei critici di Einstein. Tra questi il fisico Paul Ehrenfest, contemporaneo di Einstein, che si esprime con le seguenti parole: “Einstein, il mio stomaco disturbato odia la tua teoria – quasi odia anche te! Come posso educare i miei studenti? E cosa posso rispondere ai filosofi?”.

[14] Ed anche di alcune di queste caratteristiche fisiche potrebbe essere data un’immagine intuitiva attraverso la teoria dell’etere, come dimostra il già citato G. Cannata in un suo “Mechanical Image of Electromagnetism”, apparso sui Proceedings del menzionato convegno sulla rinuncia all’intuizione.

[15]“The Underlying Brownian Motion of Nonrelativistic Quantum Mechanics”, Foundations of Physics, Vol. 11, N. 9/10, 1981; “Stochastic Interpretations of Nonrelativistic Quantum Theory”, Int. J. of Th. Physics, Vol. 23, N. 7, 1984.

[16] Roberto Monti lavora a Bologna, presso l’Istituto TE.S.R.E. del C.N.R.. Fino a qualche tempo fa le sue argomentazioni erano apparse per lo più su scritti a circolazione assai limitata, a causa delle difficoltà che l’ambiente accademico “ufficiale” ha frapposto anche soltanto ad una divulgazione delle sue idee, opponendo loro quella che non può non essere considerata come una vera e propria forma di censura scientifica preventiva. Sulla rivista Physics Essays è comunque recentemente apparsa una sua memoria, già citata nel capitolo 1, nella quale si fornisce ad esempio un’altra ancora possibile spiegazione per il risultato dell’esperimento di Michelson-Morley (vedi alla fine del presente capitolo), compatibile addirittura con l’ipotesi di una velocità assoluta della Terra ben diversa da zero. Lo scritto citato nel testo è stato invece pubblicato dalle Ed. Andromeda, Bologna, autentico centro di informazione alternativa in tutti i campi la cui anima è Paolo Brunetti (ma esso è reperibile anche in versione inglese, nei Proceedings of the VIII National Congress of History of Physics, Milano, 1988, con il titolo “Albert Einstein and Walter Nernst: Comparative Cosmology”).

[17] Naturalmente non è neanche detto che questa debba essere l’unica soluzione dell’enigma costituito dal red-shift: l’astrofisico Halton Arp propone addirittura che la materia non abbia sempre le stesse caratteristiche in ogni parte dell’universo, in funzione diciamo della sua ‘età’, sicché potrebbe capitare anche che due ammassi molto vicini nello spazio emettano raggi luminosi con red-shift molto diversi tra loro (vedi ad esempio La contesa sulle distanze cosmiche e le quasar, Ed. Jaca Book, Milano, 1989 – va da sé, non dovrebbe potersi neanche escludere che le variazioni di frequenza di cui stiamo parlando possano essere in realtà un effetto combinato di tutte e tre le cause qui ricordate, assorbimento, età della materia, effetto Doppler! Arp è un altro dei tanti ‘perseguitati’ dalla comunità scientifica sotto l’accusa di ‘eterodossia’ che abbiamo avuto modo di citare in questo libro, e testimonia che: “Vi sono stati recentemente tentativi da parte di alcune persone del settore di fare sparire dei nuovi risultati che erano in disaccordo con il loro particolare punto di vista. Tempo di telescopio necessario per consolidare questo nuovo tipo di scoperte è stato rifiutato. Resoconti di ricerche inviati a riviste sono stati rifiutati o modificati da persone impegnate nella conservazione dello status quo ” (p. 13). A proposito della comune interpretazione del red-shift come un effetto Doppler ci piace ricordare anche la preveggenza del già menzionato H. Dingle, il quale avverte che: “benché sia l’universale convinzione, è una speculazione delle più azzardate” (Luogo citato, p. 217).

[18] Per quanto riguarda ‘storie’ della teoria dell’etere vedi ad esempio O. Gingerich, “The aethereal Sky: Man’s Search for a plenum Universe”, in The Great Ideas Today, Enc. Brit. Inc., 1979 (questo autore prevede anche un possibile prossimo ‘ritorno’ della teoria dell’etere!), e E.T. Whittaker, A History of the Theories of Aether and Electricity, due volumi, Dublin University Press, 1910. In

[19] Le due citazioni provengono da Stabilità strutturale e morfogenesi, del già citato R. Thom, Ed. Einaudi, Torino, 1980, p. 8.

[20] Voltaire mostra tutto il suo entusiasmo per le teorie newtoniane, e la sua avversione per i “vortici” di Cartesio, in alcune delle sue famose Lettere Inglesi, Ed. Boringhieri, Torino, 1958. In una di queste (p. 76) informa che “Un francese che arriva a Londra trova tutte le cose veramente cambiate, in filosofia come in tutto il resto. Ha lasciato il mondo pieno; lo trova vuoto”, e si riferisce al “famoso Newton” come al “distruttore del sistema cartesiano”.

[21] Per maggiori informazioni su tale affascinante questione si rinvia al libro del presente autore America: una rotta templare…, già citato.

[22] Che la teoria della relatività speciale abbia avuto come conseguenza più che la scomparsa, addirittura la messa in ridicolo della teoria dell’etere è fuor di dubbio: vedi ad esempio i già citati ricordi di G. Gamow sulle idee dei giovani fisici del tempo, e sul contrasto che ne originò con quelli della generazione precedente, i quali primi vedevano con piacere il fatto che la fisica si sbarazzasse dell’etere come si era già sbarazzata di altri ipotetici “mezzi” quali il flogisto, etc..

[23] L’evoluzione della fisica, Ed. Boringhieri, Torino, 1965, p.183.

[24] Almeno in apparenza, come mostrano M. Mamone Capria e F. Pambianco, “On the Michelson-Morley Experiment”, Foundations of Physics, 24, 1994, indicando una serie di incredibili errori teorici ma anche numerici nel trattamento della questione (per accennare a quello più grave, si considerano valide nel riferimento supposto mobile le leggi dell’ottica che a rigore dovrebbero valere soltanto in un riferimento solidale con l’etere, e si costringe la luce a percorrere ‘strane’ traiettorie).

[25] Ma vedi anche quanto riferito da Giancarlo Cavalleri ed altri in “Esperimenti di ottica classica ed etere” (Scientia, 111, 1976) a proposito di un’altra tradizionale obiezione di natura astronomica contro la teoria dell’etere “trascinato” (il fatto che non potrebbe darsi il fenomeno dell’aberrazione), la quale obiezione risulta invece, come troppo spesso accade in questo tipo di considerazioni, infondata.

[26] Sul problema dei rapporti di Einstein con la teoria dell’etere, di solito poco reclamizzati dai relativisti più realisti del Re, vedi ad esempio gli approfonditi lavori di Ludwik Kostro, tra i quali: “Outline of the history of Einstein’s relativistic ether conception”, in Proc. of the II Int. Conf. on the History of General Relativity, Luminy, 1988; “Einstein’s new conception of the ether”, in Proc. of the Int. Conf. on Physical Intepretations of Relativity Theory, London, 1988; “Einstein and the ether”, Electronics and Wireless World, 94, N. 1625, 1988.

[27] Anche se questo forse non è del tutto vero, a giudicare almeno da alcuni recenti risultati sulle radiazioni da sincrotrone, che bisognerà comunque capire per bene.

[28] Per citare una quanto mai azzeccata espressione di Franco Selleri, La causalità impossibile – L’interpretazione realistica della fisica dei quanti, Ed. Jaca Book, Milano, 1987, p. 13.

Continua nella parte quarta….

Featured image, illustrazione della curvatura spaziotempo descritta nella relatività generale, fonte Wikipedia.


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