Magazine Attualità

Definizione della settimana: Deflazione

Creato il 03 febbraio 2014 da Capiredavverolacrisi @Capiredavvero

Lo “spread” ha smesso di tormentarci, adesso tocca allo spettro della “deflazione”. Perfino Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, che da mesi tenta di infondere un po’ d’ottimismo a proposito della calma finanziaria ritrovata e della ripresa economica (più volte annunciata come imminente e altrettante volte riposizionata in un futuro prossimo di là da venire), di recente ha parlato di “rischio deflazione”, di fatto certificandone la presenza. Solo il Governo italiano, per il momento, si sente di smentire categoricamente. Ma cos’è la deflazione? E perché dovrebbe allarmare noi semplici cittadini?

“Deflazione”, banalmente, è il contrario di “inflazione”. Mentre l’inflazione consiste in un aumento generalizzato dei prezzi, la deflazione indica invece un calo degli stessi prezzi in terreno negativo. In Grecia, per esempio, i prezzi sono scesi dello 0,8 per cento nel 2013. L’Italia non è ancora in vera e propria “deflazione”, ma un ribasso dei prezzi è già in corso (la cosiddetta “disinflazione”): infatti nel nostro paese il livello dei prezzi è aumentato di appena 1,3 punti percentuali, ai minimi dal 2009. Se i prezzi scendono, direte voi, non c’è nulla di male: infatti il potere d’acquisto dei consumatori aumenta perché, con la stessa quantità di moneta, si può comprare un numero maggiore di beni. Mettetevi nei panni di un dipendente con reddito fisso, diciamo 1.500 euro al mese; se tra il 2013 e il 2016 i prezzi dei beni più comuni rimangono stabili, tale dipendente non avrà nemmeno bisogno di chiedere un piccolo ritocco all’insù  dello stipendio per adeguarlo all’inflazione, visto che l’inflazione non c’è. Se poi addirittura i prezzi calano nell’arco dei 4 anni considerati, con gli stessi 1.500 euro mensili il fortunato dipendente riuscirà a comprare un numero maggiore di beni ogni mese. Questo effetto, però, dura poco e non è sempre una manna dal cielo.

Tra le vittime dei prezzi colpiti da un ribasso innaturale, infatti, ci sono proprio consumatori e imprese. Ciò è dovuto al fatto che spesso i prezzi stagnanti o in calo sono la conseguenza di una fase di crescita stentata o di recessione, invece che un’offerta abbondante e una concorrenza tali da spingere al ribasso i prezzi. La deflazione (o la disinflazione che la precede) è cioè il sintomo di consumi fermi e del tentativo estremo di vendere la merce a prezzi di saldo. Una volta che aspettative di prezzi futuri più bassi avranno messo radici nella maggioranza della popolazione, ecco che consumatori e investitori tenderanno a rinviare le loro spese in attesa di prezzi ancora più convenienti. Perché comprare oggi quel frigorifero a 500 euro se tra sei mesi lo potrei comprare a 480 euro? Meglio rinviare il momento dell’acquisto, penserà il cittadino ai tempi della deflazione. Risultato: gli acquisti diminuiscono ancora, e i commercianti per spingere le vendite proveranno a comprimere ancora di più i propri margini di guadagno abbassando i prezzi, e rafforzando in questo modo le aspettative di deflazione nei cittadini. Così però il circolo vizioso “prezzi che si riducono-consumi che si riducono” rischia di autoalimentarsi, aggravando stagnazione o recessione.

La deflazione crea grossi problemi anche ai debitori, siano essi privati cittadini o Stati sovrani (come il nostro, dove il rapporto debito pubblico/pil ha superato la soglia monstre del 130%). Abbiamo fatto prima l’esempio del dipendente con stipendio mensile di 1.500 euro. Il suo potere d’acquisto reale, direbbero gli economisti, è pari a “1.500/P”, cioè a un rapporto dove al numeratore c’è lo stipendio mensile e al denominatore il livello dei prezzi. Se il livello dei prezzi sale (cioè il denominatore aumenta), con gli stessi 1.500 euro questo cittadino potrà comprare una quantità minore di beni, cioè il suo potere d’acquisto diminuisce. Se il livello dei prezzi scende (cioè il denominatore diminuisce), con gli stessi 1.500 euro il cittadino potrà comprare una quantità maggiore di beni, cioè il suo potere d’acquisto aumenta. Ora si ipotizzi che lo stesso cittadino, ogni mese, debba restituire 1.000 euro alla sua banca per onorare un mutuo: se i prezzi generali sono al ribasso, cioè la deflazione è in corso, l’“importo reale” della rata del mutuo aumenta, perché con 1.000 euro il cittadino avrebbe potuto comprare una quantità maggiore di beni, perciò è maggiore il potere d’acquisto che il debitore deve restituire al creditore. Questa è la situazione svantaggiosa nella quale si trovano tutti i debitori nei periodi di deflazione.

   Il meccanismo vale, a livello macro, anche per gli Stati indebitati. Si prenda il caso dell’Italia, dove il rapporto debito pubblico/pil ha superato la soglia d’allarme del 130 per cento. In caso di stagnazione e contemporanea deflazione, cosa succede? Da una parte il pil nominale del paese – cioè il pil reale calcolato tenendo conto dell’andamento dei prezzi – si riduce perché i prezzi scendono e perché la ripresa non c’è; dall’altra lo stock di debito pubblico rimane lo stesso: ergo, il rapporto debito pubblico/pil aumenta, e comunque diventa più difficile da ridurre. Viceversa, anche un livello non patologico d’inflazione, per esempio il 2 per cento annuo, aumentando il pil nominale (cioè il denominatore del rapporto debito pubblico/pil), aiuterebbe un paese come il nostro nella riduzione del debito. L’Eurozona però va nella direzione opposta, come ha evidenziato anche la prima stima dell’Eurostat sul livello dei prezzi di gennaio di quest’anno, pari a più 0,7 per cento, ancora in calo rispetto al mese precedente.

Consumatori, investitori e debitori non sono le sole vittime della deflazione. Anche i poteri delle Banche centrali, in fasi di prezzi al ribasso, possono essere fortemente ridotti. In condizioni normali, di fronte alla stagnazione o al rischio deflazione, la Banca centrale riduce il tasso d’interesse nominale (quello a cui le banche si approvvigionano di liquidità presso l’Istituto centrale) per indurre un calo del tasso d’interesse reale (“tasso d’interesse nominale” meno “inflazione”), e convincere in questo modo famiglie e imprese a prendere a prestito denaro a condizioni più convenienti e stimolare così consumi e investimenti. Oggi però i tassi nominali praticati dalle Banche centrali dei Paesi industrializzati sono praticamente già a zero, visto che nel corso della crisi iniziata nel 2008 tutti gli Istituti hanno tentato di puntellare l’economia con una serie di tagli dei tassi, e certo non possono scendere in terreno negativo (voi prestereste denaro a chi promette di restituirvi tra qualche tempo un 2-3% in meno di quanto gli avete prestato?). Se in questa situazione, però, si diffondono aspettative di prezzi in discesa (cioè la cosiddetta deflazione), ciò può causare addirittura un aumento e non una diminuzione del tasso d’interesse reale che, a sua volta, scoraggia consumi e investimenti. Ricordiamo infatti che il tasso d’interesse reale è dato dalla seguente differenza: tasso d’interesse nominale – inflazione. Se l’inflazione è positiva, il tasso d’interesse reale sarà inferiore a quello nominale; in caso di deflazione, cioè di inflazione negativa, il tasso d’interesse reale diventerà maggiore di quello nominale. Dunque, quando i tassi d’interesse praticati dalle Banche centrali sono a zero o quasi a zero, la deflazione costituisce una trappola da cui è ancora più difficile uscire con i normali strumenti della politica monetaria. Ecco perché, nelle scorse settimane, il direttore esecutivo del Fondo monetario internazionale (Fmi), Christine Lagarde, ha parlato così della situazione europea: “Se l’inflazione è il genio, la deflazione è l’orco che deve essere combattuto”.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :