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Definizione della settimana: Spread

Creato il 03 gennaio 2014 da Capiredavverolacrisi @Capiredavvero

SINTESI

Da oltre due anni, quotidiani e telegiornali nominano lo “spread” con cadenza regolare: esso è stato ritenuto infatti, a torto o a ragione, il termometro di un’economia malata. Se lo spread sale – ci è stato detto spesso – aumenta la febbre dell’Italia, che quindi è considerata “a rischio” dai mercati; se lo spread scende, la situazione dell’economia migliora.  

“Spread” è il termine inglese che indica il “differenziale”, o la differenza, tra due tassi d’interesse. Il tasso d’interesse (o rendimento) è la percentuale-premio corrisposta da uno Stato o da un privato a chiunque gli presti del denaro. Nella crisi dell’euro, lo spread seguìto con più attenzione dai media è quello tra il tasso d’interesse sui titoli di Stato italiani a 10 anni (Btp, Buono del Tesoro Poliennale) e il tasso d’interesse sui titoli di Stato tedeschi (Bund) a dieci anni. Un esempio? Oggi il tasso sul Btp a dieci anni è del 4,08%, e quello sul Bund a 1,75%; la differenza, o spread, è uguale a 2,33%, o “233 punti base” come si legge sui giornali. Il tasso d’interesse (o rendimento) su un titolo di Stato non è fisso; sale quando gli investitori che hanno acquistato quel “pezzetto di debito” si sentono a rischio: ritengono cioè che aumenti la possibilità che lo Stato non saldi i suoi debiti con loro. Se il rendimento di un Btp sale e il rendimento di un Bund rimane stabile, la differenza tra i due tassi d’interesse aumenta. Perciò: “più spread” uguale “più rischio”.

Contrariamente a ciò che si potrebbe credere, l’aumento dello spread non è sempre “colpa” della condotta del Governo. E’ certo invece che tale aumento ha un impatto negativo sul nostro portafoglio: pesa sui conti pubblici, perché lo Stato dovrà pagare più interessi sul debito e sarà spinto ad alzare le tasse; colpisce i bilanci delle banche che erogheranno meno prestiti e mutui.

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  1. Mettiamoci nei panni di un risparmiatore o di un investitore che voglia acquistare titoli di Stato italiani, dietro promessa dello Stato di vedersi restituire tutti i soldi, con gli interessi, tra 10 anni. In cambio di questo investimento, il risparmiatore chiede una sorta di “premio per il rischio”, che equivale al tasso d’interesse sul debito, o rendimento: tale interesse cresce se il risparmiatore/investitore vedrà un minimo pericolo che il nostro Stato possa decidere di non rimborsare il suo debito. Mentre scriviamo, a fine novembre 2013, il tasso di interesse su un titolo del debito italiano a scadenza decennale è pari al 4,08%. Un titolo decennale tedesco, sempre a scadenza decennale, è considerato più sicuro dai risparmiatori che perciò esigono un premio per il rischio inferiore: oggi il tasso d’interesse sul Bund decennale è 1,75%. La differenza tra questi due tassi si chiama “spread”, e dovrebbe rappresentare la probabilità relativa di insolvenza dei due debitori sovrani – lo Stato italiano e quello tedesco, che emettono i rispettivi titoli di debito – agli occhi dei creditori, cioè di coloro che acquistano, detengono e rivendono quei titoli. Oggi questa differenza (4,08% – 1,75%) è pari a 2,33%, cioè a 233 punti base.

PRIMA DELLA CRISI DEL 2008, DOV’ERA LO SPREAD? Lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi, fino all’inizio della crisi finanziaria, era quasi inesistente, inferiore a un punto percentuale (cioè sotto i 100 punti base). L’idea che uno Stato della zona euro potesse fallire era scomparsa dalla mente degli investitori. Poi, fino a metà 2011, lo spread è cresciuto lentamente fino a sfiorare i due punti: nel 2009 infatti, la Grecia rese noto che il suo bilancio pubblico era in condizioni peggiori di quelle note fino a quel momento; a partire da allora, considerati anche i malumori nei Paesi nordici e la loro contrarietà a interventi di sostegno ad Atene, si diffuse l’idea che un default statale in Europa non era più impossibile. Nel novembre 2011, improvvisamente, il differenziale tra titoli italiani e tedeschi schizzò e arrivò a sfiorare i sei punti percentuali: il record, in quel mese, fu di 578 punti base; in quel frangente Silvio Berlusconi si convinse alla fine a dimettersi da presidente del Consiglio, lasciando il posto all’esecutivo tecnico guidato da Mario Monti. Da quel momento lo spread iniziò a scendere, ma poi si alzò di nuovo e superò i 500 punti nella primavera del 2012. Tra l’agosto e il settembre 2012 cominciò a ripiegare in maniera stabile, soprattutto dopo che la Banca centrale europea annunciò la costruzione del suo “scudo anti-spread”, l’Omt (o Outright monetary transactions), cioè la disponibilità ad acquistare quantitativi illimitati di titoli del debito dei Paesi che si sarebbero trovati in difficoltà e avrebbero accettato un piano di aiuti e riforme gestito dall’Ue. Oggi lo spread tra Btp e Bund oscilla tra i 230 e i 250 punti. Di seguito, in due grafici della Banca d’Italia, l’andamento dello spread Btp/Bund, e l’attuale spread tra i titoli di Stato di alcuni Paesi dell’Eurozona e la Germania.

Spread

L’IMPATTO SUI CONTI PUBBLICI. Lo spread è calcolato sul mercato secondario, dove si scambiano i titoli di Stato già emessi. L’aumento dello spread però condiziona fortemente i tassi nelle aste di nuovi titoli di Stato: se gli investitori vedono lo spread salire, esigeranno un rendimento maggiore sul debito da acquistare, con annesso aggravio sui conti pubblici. Nel 2012, infatti, dopo l’impennata dello spread iniziata nel 2011, lo Stato italiano ha speso il 5% del prodotto interno lordo solo per ripagare gli interessi sul debito (VEDI LA VOCE “DEBITO PUBBLICO”). Secondo Unimpresa, se oggi lo spread scendesse stabilmente a 200 punti, e calcolando la riduzione di spesa per interessi su Bot, Btp, Cct e Ctz da emettere nei prossimi 16 mesi, si creerebbe un “tesoretto” di 7-10 miliardi di euro nel biennio 2013-2014. Mentre secondo la Banca d’Italia, è già quantificabile il danno che l’incremento dello spread ci ha causato: tra aggravio dei conti pubblici e contraccolpi sul costo del credito, esso è responsabile di quasi la metà esatta dei 2,1 punti di pil persi nel 2012.

L’IMPATTO SUI PRESTITI A IMPRESE E FAMIGLIE. Da mesi le banche italiane, un po’ per scelta propria un po’ per condizionamento esterno, hanno incrementato i loro acquisti di titoli di Stato domestici. Alla fine di settembre, gli istituti di credito detenevano titoli di Stato per un valore di 390 miliardi di euro, pari al 10 per cento delle attività delle stesse banche (nel dicembre 2011, i titoli di Stato rappresentavano il 6% delle attività). Se lo spread sale e il debito pubblico diventa più rischioso, le banche sono costrette dalle regole contabili a svalutare tutti questi titoli presenti nel loro bilancio, esibendo perdite. In termini più tecnici, scrive il quotidiano finanziario Sole 24 Ore: “Se aumenta il rendimento dei titoli di Stato italiani, diminuisce il loro prezzo (che si muove in modo inverso). Ne consegue che un aumento dei rendimenti dei Btp – che difatti si traduce anche in un aumento dello spread tra Btp e Bund tedeschi – indebolisce il valore (prezzo) dei titoli di Stato posseduti dalle banche italiane”.  Il problema è che se i bilanci delle banche si indeboliscono, l’affidabilità attribuita agli stessi istituti di credito diminuisce, la loro valutazione (o rating) peggiora, facendo aumentare i costi che l’istituto deve sostenere sul mercato interbancario per raccogliere denaro. Così l’aumento dello spread scoraggia le banche dall’erogare prestiti alle famiglie e alle imprese. Una situazione, quella del credito, già disastrosa in Italia, dove i tassi per prestiti fino a 1 milione di euro sono al 4,34%, contro il 3,74% della media europea; mentre i tassi per i prestiti oltre tale soglia sono mediamente del 2,98%, contro il 2,21% europeo. E queste sono le stime più conservatrici, quelle fornite cioè dall’Abi, l’Associazione bancaria italiana!

SE LO SPREAD AUMENTA, NON E’ SEMPRE COLPA NOSTRA. Se gli investitori, negli scorsi mesi, hanno avuto paura che il nostro Paese non saldasse i suoi debiti con loro, dev’essere colpa delle nostre politiche inefficaci, della scarsa capacità di crescita del Paese, e della sua storica tendenza a spendere troppo. Vero, ma solo in parte. Secondo alcuni ricercatori della Banca d’Italia, per esempio, lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi alla metà del 2012 si sarebbe dovuto aggirare attorno ai 200 punti, e non attorno ai 500 come al momento dell’uscita dello studio. Qual è la genesi di questo ulteriore e ingiustificato costo? Essenzialmente, secondo Banca d’Italia (e non solo), l’Italia ha pagato oltremisura le azioni di alcuni speculatori, e le sensazioni del grosso degli investitori, che avrebbero scommesso e creduto sulla rottura dell’euro. Questo timore, o questa speranza per alcuni, ha generato una fuga generalizzata degli investitori stranieri dai titoli italiani (che infatti sono stati riacquistati in larga parte dalle banche del Paese) e una corsa all’acquisto dei titoli considerati più sicuri, quelli tedeschi per esempio: così il rendimento sui nostri titoli è cresciuto, anche se le condizioni macroeconomiche non erano così differenti da quelle di pochi mesi prima, e il rendimento sui titoli tedeschi è sceso ancora, facendo aumentare lo spread. Questo, ripetiamo, indipendentemente dalla condizioni di salute dell’economia italiana e di quella tedesca. Non a caso, sempre a parità di condizioni economiche, lo spread è sceso in maniera stabile subito dopo che la Banca centrale europea, alla fine dell’estate 2012, si è pubblicamente detta pronta a fare “tutto il necessario” (“whatever it takes”) per salvare l’euro, contrastando la speculazione sui mercati.


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