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Dei diritti (TV) e delle pene (per il calcio)

Creato il 25 settembre 2013 da Tifoso Bilanciato @TifBilanciato

In un post pubblicato lo scorso mese di giugno avevamo messo a confronto i criteri di ripartizione dei diritti tv nelle cinque principali Leghe europee, cercando di coglierne gli aspetti principali e di mettere in evidenza le differenze esistenti.

Le riflessioni che seguono nascono un po' di getto, grazie ad uno scambio di mail con Luca Marotta (che conoscete tutti perché ospitiamo i pezzi che pubblica sul suo blog) e Gabriele Majo, giornalista professionista e Direttore Responsabile del sito Stadiotardini.it. Si discettava dell'ultimo pezzo di Marco Iaria sulla Gazzetta dello Sport, dal titolo "Allarme A sui diritti tv Il miliardo è a rischio".

La Serie A, che rimane attualmente il secondo mercato in termini di valore ridistribuito sta vivendo in queste ultime settimane l'ennesimo dibattito sull'argomento dei diritti tv. Ma a differenza degli ultimi due anni, non si "litiga" solo per dividersi la posta (ricorderete la posizione presa dal Napoli l'anno scorso, che è giunta a mettere in discussione la validità della delibera assembleare di novembre 2012 con la quale erano stati ratificati i cosidetti "bacini di utenza", che assegnano il 25% delle risorse complessive).

No, la Serie A questa volta ha paura.

È infatti quasi giunto il momento di programmare il nuovo bando di gara per il triennio che va dal 2015/16 al 2017/18 e sembra che i segnali provenienti dai papabili concorrenti non siano incoraggianti.

Anche a causa della crisi, infatti, il numero degli abbonati alle pay-tv è in sensibile diminuzione (dai 9 milioni di qualche anno fa la stima è di giungere a 7,9 milioni nel 2015) con conseguente battaglia dei prezzi e contrazione del fatturato complessivo, che potrebbe arrivare a 6,3 miliardi di euro all'anno, contro i 7,3 miliardi del 2010. E scendendo il fatturato di chi deve finanziare il buco nero della Serie A (attualmente rappresenta circa il 60% del fatturato al netto delle plusvalenze) è evidente che il rischio di un ribasso dell'offerta economica si faccia concreto.

Purtroppo questa situazione è anche figlia dell'incapacità di programmare ed intervenire per tempo sui problemi: siamo ormai abituati a doverci trovare sull'orlo del baratro per essere costretti a prendere – tutte in un colpo solo – quelle decisioni che se opportunamente diluite nel tempo avrebbero probabilmente generato un impatto inferiore.

Succede nella gestione della cosa pubblica di tutti i giorni. Succede anche nel calcio.

E così, mentre la Bundesliga nel 2000 si è interrogata sulle ragioni della crisi del proprio sistema calcio (ed ha iniziato un percorso di investimento sui vivai, sugli impianti, sulla sostenibilità economica e finanziaria delle squadre), mentre la Premier League, pur aprendo il proprio mercato ai "ricchi mecenati" ed ai capitali stranieri, ha comunque cercato di porre rimedio (non ultimo di recente, facendo in modo che il significativo aumento dei diritti tv non confluisse automaticamente nelle tasche dei calciatori), mentre tutto questo accadeva noi da brave cicale ci siamo cullati nella speranza che il flusso dei denari delle TV fosse infinito.

Poi, un giorno, la UEFA ha iniziato a parlare di Fair Play Finanziario: "devi vivere nei limiti di ciò che produci, non puoi spendere più di quello che guadagni". E quasi nello stesso periodo è iniziata la crisi economica. Ed è stato il panico.

Perché passare da una logica semi-assistenzialista come quella del dipendere dai diritti TV (suddivisi, lo vedremo dopo, con logiche di preservazione dei rapporti di forza esistenti), al doversi inventare nuove ed importanti fonti di ricavo non è una cosa facile. E, soprattutto, non è un cambiamento che produce effetti dall'oggi al domani.

Si fa presto a dire di puntare – giustamente – sugli stadi e sull'incremento dei ricavi commerciali: per il primo ci vuole tempo (e denaro, perché prima che producano reddito vero passa del tempo), per i secondi ci vogliono strategie di medio termine.

E così, mentre le squadre della Premier League iniziavano a fare azioni di sviluppo  commerciale in Estremo Oriente, con tour delle squadre, aperture di scuole calcio, accordi commerciali, noi ci siamo limitati a trofei e competizioni sponsorizzate a livello nazionale. Più belle, più vicine ai tifosi ma … folli sotto il profilo della programmazione.

Pur ritenendo personalmente un'aberrazione vedere la finale della Supercoppa Italiana giocata in Cina, non posso non rilevare la maniera in cui è stata gestita la cosa quest'anno: rimanendo fino a 2-3 mesi dalla fine (che per questi eventi sono come 2 minuti prima del fischio di inizio) in un apparente limbo.

Crediamo che i cinesi, contratto o non contratto, torneranno a fare affari con la Lega di Serie A? Sappiamo quanto ci impiegano a sostituire la Supercoppa Italiana con un analogo o forse migliore evento che proviene da un'altra Nazione?

Giusta o sbagliata che fosse la scelta iniziale, una volta intrapresa si sta, come si diceva a militare, "allineati e coperti", perché se si inizia a sgarrare per gli interessi immediati di un singolo, in spregio a quelli generali di un sistema, poi alla lunga anche il singolo ne viene colpito negativamente.

La situazione attuale, cioè l'ipotetico (o concreto?) rischio che la torta da dividere sia inferiore al passato, deriva da tanti fattori.

Certo, la crisi pesa e forse sempre più famiglie faticano a poter dedicare le cifre necessarie (pur ridotte rispetto ad altre nazioni) per usufruire dei pacchetti offerti da Sky e Mediaset.

Ma, probabilmente,  se la Serie A non attira più è anche a causa della sua minore attrattiva e competitività.

In parte le ragioni sono quelle esposte in precedenza: le nostre squadre – che fino a qualche anno fa potevano permettersi di contendere a botte di milioni di Euro i giocatori più bravi, hanno dovuto improvvisamente tirare il freno a mano. E chi aveva mercato … è volato verso lidi più ricchi.

Ma esiste anche un problema di difesa dello status quo. E chi ha di più, e sa di non avere ancora messo in atto delle strategie alternative, non vuole mollare le posizioni di rendita acquisite.

E proprio partendo dai diritti TV, uno dei problemi della nostra Serie A sta nella scarsa o nulla meritocrazia, anche nella loro ripartizione.

Questo grafico vi era stato proposto nel pezzo pubblicato a giugno. Rappresenta il modo in cui i diritti TV vengono suddivisi fra le squadre:

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  • in Spagna vige la "legge del più forte": Real Madrid e Barcelona si spartiscono il 50% del totale dei diritti TV, lasciando alle altre squadre la ripartizione del resto;
  • in Italia, dal 2011/12, abbiamo un "manuale Cencelli" dei diritti TV, che sono assegnati sulla base di molteplici criteri studiati per concedere qualche vantaggio alle medio-piccole, pur mantenendo una sorta di status quo; 
  • in Inghilterra, Germania e Francia, seppure con criteri diversi, si è cercato di ottenere una distribuzione decisamente più equa e condizionata dai risultati sportivi delle squadre.

Se tralasciamo la Spagna, dove vige anche la contrattazione individuale (che il Governo intende peraltro abbandonare a breve) la Serie A è la meno equilibrata fra le Leghe che prevedono una contrattazione collettiva.

Le "grandi" del nostro campionato sono infatti riuscite a costruire un sistema nel quale, pur obiettivamente aumentando la quota di denaro che giunge alle medio-piccole (che con l'ultima negoziazione, quella in vigore oggi, hanno guadagnato una decina di milioni di euro a testa in più rispetto a prima), hanno identificato meccanismi per fare contenti tutti:

  • con il concetto del bacino di utenza, che non è mai stato definito e viene valutato sulla base di indagini di 3 (!) società specializzate, hanno tutelato Juventus, Milan ed Inter;
  • con la quota relativa alla popolazione residente nella città della squadra, hanno sicuramente tenuto conto delle esigenze di Lazio e Roma, che solo per il fatto di essere nella Capitale ottengono 5/6 milioni di euro in più a testa;
  • con il criterio del peso dell'albo storico dal 1946 ad oggi, infine, hanno cristallizzato una situazione a vantaggio delle "vincenti storiche".

Il risultato? Il rapporto di fatturato fra la prima e l'ultima squadra della Serie A (il cosiddetto first-to-last) è di 4,4 volte. La Juventus, lo scorso anno, ha preso 74 milioni di Euro in più del Pescara: 95 contro 21,4.

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Osservate il grafico: si arriva ai quasi 60 milioni della Roma, per poi scendere a sole due squadre (Lazio e Fiorentina) che sono sopra i 40 milioni, e tutte le altre sotto, in un mucchio compreso fra i 30 ed i 35 milioni.

Tutto ciò, ovviamente, al grido di "non possiamo permetterci di incassare di meno, altrimenti non siamo competitivi in Europa!" e di "d'altra parte gli spettatori li portiamo noi, è giusto che i soldi li prendiamo noi!". Tutto sommato, aggiungono, il 40% del totale viene diviso in parti uguali e anche una neopromossa riceve almeno 20/22 milioni di Euro.

Osservazioni comprensibili, ma che non tengono conto del fatto che la difesa dello status quo è stata decisa per l'assoluta assenza di alternative derivante anche dall'incapacità di programmazione ed esecuzione del management di queste squadre.

La Premier League distribuisce il 70% delle risorse totali (nazionali ed estere) in parti uguali. Ed il restante sulla base dei passaggi effettivi in televisione (a differenza dell'Italia solo il 40% degli incontri sono trasmessi) e della classifica finale. Il rapporto first-to-last è di 1,6: la squadra che incassa di più prende 26 milioni in più rispetto all'ultima.

E la Bundesliga? Nessun bacino di utenza, nessun arzigogolo italiano su popolazione ed albi storici: se vai bene ti premio immediatamente. Il meccanismo di distribuzione è esclusivamente basato sul merito sportivo, sulla classifica dell'ultimo quadriennio e sulla partecipazione alle competizioni europeeIl rapporto first-to-last è di 2,11: anche qui la squadra che incassa di più prende 26 milioni in più rispetto all'ultima.

Aumentando le possibilità anche per le medio-piccole di ottenere immediatamente un riscontro al risultato sportivo di un anno forse aumenta anche la competitività del sistema calcio nel suo insieme.

Perché se un Catania o un Parma, grazie ad una stagione particolarmente positiva riescono a piazzarsi fra le prime 6 ed in virtù di questo ricevono subito 5/10 milioni in più dell'anno precedente, magari possono pensare di potenziare la rosa per cercare di ripetere il risultato oppure, più semplicemente, possono riuscire a trattenere alcuni giocatori chiave attratti dalle sirene delle grandi squadre.

Alla lunga, se scalare una posizione in classifica valesse dei soldi "veri", forse si eviterebbero dei finali di stagione dove la schedina diventa quasi facile da compilare quanto chi si scontra non si gioca niente, oppure "si scansa" per non distrurbare il manovratore. E, probabilmente, anche a livello di competizioni europee, in particolare per l'Europa League, le squadre italiane partecipanti potrebbero essere maggiormente competitive, innescando un circolo virtuoso.

Già, ma i soldi andrebbero tolti alle grandi. Che non ci stanno perché ancora non hanno capito come andarli eventualmente a sostituire.

Ed infatti, mentre il dibattito sui diritti TV da parte di chi li deve comprare (Sky in primis) è incentrato sul miglioramento qualitativo del prodotto da vendere (maggiori esclusive, diminuzione del numero di partite trasmesse), i presidenti delle squadre di Serie A hanno già trovato la soluzione: riportiamo la Serie A a 18 squadre.

Per migliorarne l'appeal dite voi? Macché, perché così facendo, banalmente, ci sarebbero altri 50 milioni di Euro da dividersi fra chi rimane. Senza sforzo. Con le consuete logiche da manuale Cencelli. E si potrebbe rimandare ancora di un anno la necessità di mettersi a pensare su come affrontare strategicamente il problema.

Poi arriverà il 2015. Scenderemo da 1 miliardo a 600/700 milioni. E daremo la colpa a Platini, ai tedeschi e … al riscaldamento globale.


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