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Dejan Savicevic, il genio svogliato

Creato il 25 aprile 2013 da Controcalcio

di Diego Cavaliere

D’accordo, è vero, magari molto dipendeva da come si era svegliato la mattina. Magari qualche mese l’anno lo vedevi vagabondare senza meta sui prati di mezza Europa, risultando irritante e capriccioso come un bambino che non vuole passare il pallone ai suoi compagni di squadra. Ma quando il “Genio” si accendeva, gli avversari non potevano fare altro che ammirarlo in tutta la sua classe e, inermi, osservarlo schizzare da una parte all’altra del terreno, sfornando assist funambolici o realizzando reti fuori da ogni logica. Dejan Savicevic era così. Non un calciatore, ma un genio vero e proprio. Nel senso più artistico del termine. Dejan, per esprimersi, doveva essere ispirato. Non era la situazione in campo, né tantomeno lo stato di forma a suggerirgli la giocata giusta. Erano il suo umore, i suoi stati d’animo, l’importanza del match. Addirittura le condizioni climatiche.

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Demetrio Albertini, qualche anno fa, svelò un aneddoto particolarmente curioso. Al termine del primo tempo di un UdineseMilan, giocata ad inizio stagione sotto temperature torride, Fabio Capello decise di sostituirlo, visto che sembrava incappato in una delle sue giornate indecifrabili. Il Genio si avvicinò proprio ad Albertini e gli sussurrò: “Peccato, perché con l’inversione di campo, sull’altra fascia, avrei giocato all’ombra lo avrei fatto alla grande. Purtroppo con il sole a sfavore…”. Non amava faticare, il Genio. Capello chiedeva a Savicevic di allenarsi con il destro? La risposta era semplice ed immediata: “Cosa me ne faccio di saper calciare con il destro?”. Inoltre potevate anche scordarvi di vederlo realizzare triplette contro squadre di bassa classifica. Erano partite che potevano farlo cadere in uno stato di depressione sportiva dalla durata indefinita. Ma se prima di un big match, di una finale, delle sfide che potevano cambiare volto alla stagione la lampadina si accendeva, non c’erano storie.

Sapeva accarezzare la sfera con tocchi quasi impercettibili. Ciondolante, dava l’impressione di poterla perdere da un momento all’altro, salvo poi farla sparire all’improvviso da sotto i piedi dell’avversario, che spesso si faceva ingolosire da quel suo modo unico di accompagnarla. Quasi non curante della marcatura, senza contatto visivo con il pallone. Sapeva dove andarlo a cercare quando meno te lo aspettavi. Chiedetelo ai tifosi dell’Olympique Marsiglia, stregati dal numero dieci della Stella Rossa Belgrado in finale di Coppa Campioni del ’91. Oppure a quelli del Barcellona, che non scorderanno mai il pallonetto leggendario con il quale firmò il 3-0 nella finale di Champions League ad Atene, quando il Milan sovvertì ogni pronostico strapazzando 4-0 la squadra di Stoičkov e Romario. Ispirò anche la prima rete di Massaro, venendo scelto man of the match. “Se al Genio gli va di giocare, non c’è storia”: questo ritornello, chi ha avuto modo di vivere le trasmissioni sportive, gli stadi e le migliaia di “Bar Sport” sparsi per il Belpaese negli anni 90, lo ha sentito ripetere spesso. Chi tra gli appassionati può negare di essere stato affascinato da questo personaggio così insolito? E magari non verrà mai inserito, tra i vari Maradona, Pelè, Messi, Di Stefano e Platini, Cruijff. Ma quando il Genio si accendeva, era il numero uno. Anche tra i miti.



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